A Roccavione, minuscolo paese di vallata sulle Alpi cuneesi, c’è una piccola gemma dell’industria italiana che rischia di smettere di brillare. La cartiera Pirinoli – questo il nome dell’azienda – recupera la carta destinata al macero e la lavora per produrre scatole per la grande distribuzione, come quelle che custodiscono i panettoni, e tubi di cartone, come quelli attorno a cui si avvolgono i rotoli di carta assorbente. La particolarità di questa fabbrica con clienti in tutta Europa e in Nord Africa è che appartiene ai suoi stessi lavoratori, che nel 2015 l’hanno rilevata salvandola dal fallimento e trasformandola in cooperativa. Da allora gli affari sono sempre andati a meraviglia, anche durante i mesi più difficili della pandemia: bilanci sempre in utile e un fatturato annuo che si aggira sui 40 milioni di euro. Niente male per una realtà da 91 addetti di cui 76 soci. La cartiera Pirinoli è un marchio storico della manifattura piemontese: fondata nel 1872, quest’anno compie 150 anni. Eppure qui non c’è una gran voglia di festeggiare. Settembre è iniziato con uno stop produttivo forzato di una decina di giorni, con annessa richiesta di cassa integrazione: colpa dei prezzi ormai insostenibili dell’energia. La bolletta del gas, che fino a inizio 2021 ammontava in media a 400mila euro al mese, a luglio è arrivata a 3,2 milioni.
«L’incremento è stato progressivo», racconta il presidente della cooperativa, Silvano Carletto. «Di fronte a questi rincari l’unica cosa che potevamo fare era alzare i prezzi: inizialmente è andata bene, perché la domanda era alta. Ma a partire da giugno la domanda si è abbassata e abbiamo finito per perdere alcune commesse. Siamo stati costretti a fermarci».
Nei primi sette mesi del 2022 la cassa integrazione è aumentata in Italia del 45%. Secondo Confartigianato, il caro-energia mette a rischio la sopravvivenza di 881mila piccole e micro imprese e 3,5 milioni di posti di lavoro, a cui vanno aggiunte altre 120mila aziende nel terziario (stima di Confcommercio). Per Confindustria siamo davanti a un «terremoto economico». «Le bollette – spiega il presidente della cartiera Pirinoli – prima assorbivano il 15% dei nostri costi, adesso il 60. Gli aiuti che abbiamo ricevuto fin qui dallo Stato sono stati molto preziosi, ma adesso ho l’impressione che qualcuno ci stia dormendo sopra. E intendo in particolare l’Europa. Che stesse arrivando questo tsunami lo si sapeva da tempo, le aziende sono mesi che lo dicono… Ma mentre noi non sappiamo come fare, a Bruxelles la riunione sul tetto al prezzo del gas l’hanno fissata per ottobre, dico ot-to-bre! Le pare normale?».
Nelle ultime due settimane, dopo le prime aperture arrivate dall’Ue sul price-cap, le quotazioni del gas sul listino Ttf di Amsterdam sono scese sotto quota 200 euro per megawattora: assai meno rispetto ai 339 toccati il 26 agosto, ma ancora a livelli esorbitanti rispetto ai 20 euro che si pagavano fino a metà 2021. Il che conferma quanto il mercato del metano sia soggetto più alle speculazioni finanziarie che alla dinamica domanda-offerta. Ma i prezzi folli dell’energia sono solo il più distruttivo fattore di una più complessiva tempesta perfetta che si autoalimenta: i rialzi del gas, infatti, si aggiungono a quelli di pressoché tutte le materie prime, che colpiscono tutti i settori economici e spingono in su l’inflazione; quest’ultima contrae i consumi; e al crollo della domanda corrisponde un calo della produzione.
Nel periodo maggio-luglio la produzione industriale in Italia ha frenato dell’1,6% rispetto al trimestre precedente e secondo l’Istat le prospettive nei prossimi mesi «mostrano un possibile ridimensionamento dei ritmi produttivi». Lo spettro della recessione è stato esplicitamente evocato nell’ultima pubblicazione della Luiss School of European Political Economy: «Senza efficaci risposte comuni europee, tutte da identificare, il drammatico aumento del prezzo del gas può precipitare l’economia in recessione già quest’inverno», hanno avvertito illustri economisti tra cui l’ex ministro Pier Carlo Padoan e Lorenzo Bini Smaghi.
E in questo scenario apocalittico le imprese italiane si vedono soffiare quote di mercato dai loro concorrenti stranieri, in certi casi anche europei. «Cinesi, americani, turchi, ma pure tedeschi e francesi, pagano l’energia molto meno rispetto a noi. Impossibile competere», scuote la testa preoccupato Vincenzo Di Giuseppantonio, amministratore delegato del gruppo Bormioli Luigi, 500 milioni di fatturato, leader mondiale dei falconi in vetro per profumeria di lusso e fra i principali produttori italiani di bicchieri. A fronte di bollette quadruplicate (luce più gas), il manager nei giorni scorsi ha deciso di spegnere alcuni forni negli stabilimenti di Fidenza, in provincia di Parma, e Altare, nel savonese, per un taglio produttivo quantificabile in un 30% e conseguente richiesta di cassa integrazione per circa 700 lavoratori. «C’è poco da girarci intorno, la situazione è molto grave», spiega Di Giuseppantonio. «Fino a luglio le misure di aiuto del governo ci hanno dato conforto, ma adesso siamo arrivati a livelli di difficoltà inimmaginabili. A queste condizioni possiamo andare avanti ancora qualche mese, non di più. Chiediamo un intervento europeo sul tetto al prezzo del gas, ma occorre farlo in fretta. Qui invece vedo un’Europa che non si muove».
In Italia, il governo guidato da Mario Draghi finora ha stanziato circa 50 miliardi di euro in misure per alleviare gli effetti del caro-bollette, ma nel mondo delle imprese sono tutti concordi nel dire che adesso serve una nuova iniezione: secondo le stime della Cgia di Mestre il fabbisogno del nostro tessuto economico ammonta in questo momento ad almeno altri 30 miliardi. Tuttavia Palazzo Chigi, che in attesa delle elezioni è chiamato a sbrigare la sola ordinaria amministrazione, è notoriamente contrario a varare un nuovo scostamento di bilancio: sul piatto dovrebbe essere disponibile solo una cifra compresa fra i 12 e i 18 miliardi, a seconda di quanto sarà l’extra-gettito Iva maturato dallo Stato grazie all’inflazione.
Il dibattito su come alleviare le sofferenze delle imprese è inevitabilmente entrato anche nella campagna elettorale in vista del voto del 25 settembre. Sono in particolare la Lega e il M5S a invocare un maxi-intervento pure a costo di fare nuovo deficit. E anche il leader di Azione Calenda si è detto possibilista. Un po’ a sorpresa, invece, la presidente di Fratelli d’Italia Meloni ha assunto una posizione scettica, al limite del governista (forse annusa l’aria in vista del 25 settembre…). E se il dem Letta è fedelmente schierato sulla linea del rigore draghiano, gli alleati di Sinistra Italiana-Europa Verde suggeriscono di recuperare le risorse necessarie alzando dal 25 al 100% la tassa una tantum sugli extra-profitti delle società energetiche prevista con il decreto Aiuti. Ma qui subentra un problema, perché oggi quel prelievo al 10% non sta funzionando: degli 11 miliardi di euro di entrate stimate dal governo, finora le aziende ne hanno versati appena 2. La grana sta nel modo in cui la norma è stata architettata dall’esecutivo: l’aliquota è infatti calibrata sull’imponibile Iva, anziché sugli utili, e questo sta spingendo molte delle società interessate a valutare ricorsi in sede amministrativa (la municipalizzata romana Acea, ad esempio, si è già mossa presso il Tar). Dunque, prima di aumentare eventualmente il prelievo bisognerà sistemare questo punto.
Se l’inverno alle porte si annuncia tenebroso, peraltro, non è solo per la questione dei prezzi alle stelle, ma anche per quella – strettamente connessa – degli approvvigionamenti: bollette a parte, avremo gas a sufficienza per riscaldarci e per alimentare le macchine industriali?
Il ministro della Transizione ecologica Roberto Cingolani per mesi ci ha detto che possiamo stare tranquilli perché entro novembre i nostri stoccaggi saranno riempiti come da protocollo al 90%, salvo poi presentare a fine estate un piano quasi emergenziale che prevede piccole misure di risparmio energetico, la riattivazione a pieno regime delle centrali a carbone e la ripresa delle trivellazioni in Basilicata e nell’Adriatico. La triste realtà è che siamo ancora legati mani e piedi agli umori del nostro nemico Putin: nei primi sette mesi di questo turbolento 2022 abbiamo ricevuto da Mosca ancora un quarto del metano che abbiamo consumato (l’anno scorso era più di un terzo).
Per ora le mancate forniture di Gazprom (-38%) sono state compensate con maggiori arrivi da Norvegia e Azerbaijan (via Tap), ma se nei prossimi mesi i rubinetti russi dovessero chiudersi ulteriormente o del tutto, ci ritroveremmo in seria difficoltà e sicuramente costretti a razionare il gas. Che ciò avvenga, fra l’altro, è ipotesi tutt’altro che irrealistica, come dimostrano i continui stop imposti sul gasdotto North Stream 1, accompagnati puntualmente dalle minacce ora del portavoce del Cremlino Peskov ora dell’ex presidente Medvedev. E, a rendere il quadro ancora più inquietante, nei giorni scorsi Mosca ha avvertito che il contenzioso coi russi avviato dalla società energetica ucraina Naftogaz avrà «conseguenze imprevedibili» sull’arrivo del gas in Europa.
Le fonti di approvvigionamento alternative su cui il governo italiano ha puntato non sono ancora in grado di compensare le forniture russe. E anche sul medio termine, peraltro, qualche dubbio resta. Ad esempio, secondo la tabella di marcia di Cingolani l’Algeria dovrebbe incrementare le proprie consegne all’Italia dai 20 miliardi di metri cubi dello scorso anno a 29 miliardi entro il 2024: significherebbe un potenziamento del 50% nel giro di un anno e mezzo; ma l’Algeria viene da un lungo periodo di scarsi investimenti in infrastrutture energetiche e già oggi sta pompando al massimo; non a caso, fin qui, in questo difficile 2022, ci ha fornito appena il 3% in più rispetto al 2021. «Le possibilità di aumentare i volumi delle estrazioni algerine sono molto limitate, almeno nel breve periodo», spiegava qualche mese fa su TPI Francesco Sassi, ricercatore di geopolitica dell’energia e analista della società di consulenza energetica Rie di Bologna.
Per prevenire almeno in parte problemi di approvvigionamento l’Ue a fine luglio ha raccomandato agli Stati membri di abbassare i consumi di gas del 15%. Noi italiani finora quest’anno abbiamo ridotto la domanda appena del 2% e, mentre in Germania e Francia i governi ormai parlano apertamente di piani di razionamento (Macron ha avvertito che «l’era dell’abbondanza è finita»), da noi questa parola è ancora tabù per Palazzo Chigi («L’Italia ce la farà», ha rassicurato Draghi al Meeting di Comunione e Liberazione). Draghi, da parte sua, da mesi insiste con Bruxelles per introdurre un tetto europeo al prezzo del gas, ma la partita non si è ancora sbloccata.
La Commissione europea ha appena elaborato un regolamento per contenere i consumi di elettricità e fissato una soglia massima per il prezzo dell’elettricità prodotta da fonti diverse dal metano. Sul tetto alla quotazione del gas, invece, restano le resistenze in primis dell’Olanda, che grazie alle impennate sul Ttf di Amsterdam ha raddoppiato il proprio surplus commerciale, e della Germania, che ufficialmente è preoccupata per le sorti dei Paesi più dipendenti dalle forniture russe (come Ungheria e Repubblica Ceca).
Il price cap è invocato in Italia praticamente da tutte le forze politiche ed economiche, ma, sebbene si tratti effettivamente di una delle poche soluzioni possibili per tentare di frenare la salita folle dei prezzi, va anche detto che la mossa non garantisce efficacia sicura. Se il tetto venisse messo su tutto il metano importato, i Paesi a cui ci stiamo rivolgendo per sopperire alle interruzioni di Gazprom potrebbero sbatterci la porta in faccia (la Norvegia ha già comunicato il proprio «scetticismo»). Se a essere calmierato fosse solo il gas russo, Putin potrebbe chiudere i rubinetti ben sapendo di metterci in serie difficoltà. Più in generale, fissare un prezzo massimo oltre il quale l’Europa non sarebbe disposta ad andare rischierebbe di favorire la fuga dei fornitori verso altri mercati, a cominciare da quelli molto “assetati” dell’Asia.
Certo, dal canto suo l’Ue può contare sul fatto di essere uno dei mercati più energivori del mondo e quindi su un importante potere contrattuale, ma non è un mistero che Mosca stia cercando di recuperare velocemente il ritardo sul gas liquefatto da spedire in Cina (in attesa del gasdotto Power of Siberia). Come non sono un mistero gli eccellenti rapporti internazionali fra il Cremlino e alcuni dei nostri principali fornitori, dall’Azerbaijan all’Algeria. Senza dimenticare la concorrenza che può farci anche la Turchia. Un’alternativa senz’altro meno incerta sarebbe quella di replicare a livello europeo ciò che hanno fatto internamente Spagna e Portogallo: non intervenire cioè sul prezzo di acquisto del gas, ma venderlo a cittadini e imprese a una tariffa calmierata, con lo Stato che ci mette la differenza. Gli iberici se lo sono potuti permettere perché nel loro mix energetico il metano non è preponderante. In Europa ciò richiederebbe invece un enorme contributo pubblico, che sarebbe finanziabile forse solo attraverso l’emissione di debito comune, sul modello del Next Generation Eu: una soluzione, questa, che però al momento non si vede all’orizzonte.
Intanto, la crisi morde non solo in Italia. L’Iwh, uno dei principali istituti di ricerca economica tedeschi, vede la Germania in recessione nel 2023. Anche la Banca centrale di Francia si aspetta per l’anno prossimo una crescita negativa. A fine luglio, prima che la Bce ritoccasse ancora al rialzo i tassi – rendendo così più costosi i mutui – l’austriaco Robert Holzmann, membro del board dell’Eurotower, ha affermato candidamente che Francoforte, pur di fermare l’inflazione, potrebbe essere disposta ad accettare una recessione nel continente. È il ritorno dell’austerity, ma molti analisti temono un’ondata di stagflazione. Inflazione, recessione, razionamenti energetici, imprese sull’orlo del crack: per l’Europa è l’ora più buia dal secondo dopoguerra. Dopo la pandemia e l’exploit dei prezzi delle materie prime, il conflitto scatenato da Putin e combattuto per procura dagli Stati Uniti sta mettendo il vecchio continente in ginocchio. Rialzarsi non sarà facile.
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