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    Il lavoro part-time non lo si sceglie, lo si subisce: ecco cosa dicono i numeri

    Credit: Unsplash
    Di Enrico Mingori
    Pubblicato il 7 Mag. 2024 alle 11:39

    In Italia più della metà di coloro che hanno un lavoro part-time non ha scelto questa forma contrattuale, ma l’ha accettata o subita per necessità o per assenza di altre possibilità. Si tratta di circa 2 milioni di lavoratori e lavoratrici, che si trovano in una condizione di cosiddetto “part-time involontario”.

    Il dato emerge dal documento “Da conciliazione a costrizione: il part-time in Italia non è una scelta. Proposte per l’equità di genere e la qualità del lavoro”, realizzato dal Forum Disuguaglianze e Diversità e presentato ieri al Senato.

    Negli ultimi vent’anni nel nostro Paese il ricorso al tempo parziale è aumentato del 18,2%, in linea con la media europea del 18,5%, ma, se a livello continentale il part-time è involontario nel 19,7% dei casi, da noi corrisponde a una quota del 56,2%.

    Il part-time involontario è più frequente nel Mezzogiorno, tra le persone straniere, tra chi possiede un basso titolo di studio e tra le persone con un impiego a tempo determinato. Il dato che più colpisce, peraltro, è la prevalenza di questa condizione tra le lavoratrici donna.

    Tra le donne, che rappresentano circa i tre quarti delle persone occupate a tempo parziale, il tempo parziale involontario pesa infatti per il 16,5% sul totale delle donne occupate contro il 5,6% degli uomini occupati. E se si considerano solo le persone impiegate in professioni non qualificate, il differenziale è ancora maggiore: 38,3% per le donne contro 14,2% per gli uomini.

    Il part-time involontario, inoltre, è più frequente tra le giovani donne: si parla del 21% delle occupate nella fascia 15-34 anni rispetto al 14% in quella dai 55 anni in su.

    Nel primo semestre del 2022, secondo l’Inps, in Italia sono stati attivati 4.269.179 contratti, di cui solo il 41,5% a donne. La quota di contratti stabili incide per il 20% su quelli maschili e solo per il 15% di quelli femminili.

    Su tutti i contratti attivati in quei sei mesi, il 35,6% è a part-time, con consolidate differenze di genere: sul totale dei contratti attivati a donne quasi la metà (il 49%) è a tempo parziale contro il 26,2% dei contratti attivati agli uomini. Inoltre, se si guarda al tempo indeterminato, che rappresenta solo il 15% dei contratti attivati a donne, oltre la metà di questa quota (il 51,3%) è a tempo parziale.

    “Ormai è noto che sempre più lavoro è precario e mal retribuito, e non è sufficiente a uscire da una condizione di povertà”, osservano Fabrizio Barca e Andrea Morniroli, co-coordinatori del Forum Disuguaglianze e Diversità. “In questo quadro anche il part-time da strumento di conciliazione di vita e di lavoro, rischia di diventare uno strumento di ulteriore precarizzazione, soprattutto quando viene imposto e non è una scelta del lavoratore e in particolare della lavoratrice. Uno dei segni più evidenti di come abbiamo affrontato la sfida della globalizzazione mortificando il lavoro, in particolare quello delle donne”, hanno commentato “.

    Alla presentazione del documento ha partecipato anche la senatrice del Pd Susanna Camusso, ex segretaria generale della Cgil: “Dal Report – osserva – emerge un’analisi impietosa ed approfondita che rende visibile che il part time involontario è contemporaneamente discriminante per le donne, agisce a svalorizzare il loro lavoro, acuisce le difficoltà di conciliazione e le rende meno libere e ostaggio di imprese e servizi che galleggiano, restano nel grigio, nella flessibilità malata dedita più a ridurre i costi che a qualificarsi e così indeboliscono tutto il sistema”.

    Il report del Forum Disuguaglianze e Diversità ha voluto fotografare il part-time (involontario) anche dal lato della domanda di lavoro, ovvero analizzando i dati sulle imprese che utilizzano personale a tempo parziale. Lo studio, in questo caso, si è basato sull’indagine Inapp “Qualità del Lavoro nella sua componente relativa alle unità locali”, condotta nel 2021.

    Il 12% delle imprese fa un uso strutturale del part-time: oltre i due terzi (70%) dei dipendenti risultano inquadrati a regime orario ridotto. Nel 61,5% delle imprese le persone occupate part-time sono quasi esclusivamente o esclusivamente donne, mentre nel 20% la quota di lavoratrici part-time supera, anche ampiamente, la metà. Solo nel 17,3% dei casi si registra la presenza di lavoratori part-time uomini superiore alla componente femminile.

    Rispetto alla totalità delle realtà produttive italiane di riferimento, quel 12% che ha un utilizzo strutturale dello strumento del part-time (oltre il 70% sul totale dei dipendenti) ha una probabilità maggiore di operare nel Sud e nelle Isole. Tale tipologia di imprese si caratterizza per un forte ricorso a contratti atipici.

    A fronte di questo lavoro di indagine, il gruppo di lavoro che ha condotto la ricerca ha individuato tre possibili aree di intervento per invertire il trend.

    La prima riguarda la contrattazione: “Associare il part-time al tempo indeterminato, migliorare gli strumenti per la tutela contrattuale, prevedere che i contributi previdenziali di chi lavora part-time costino di più, costruire una gradualità nella quota progressiva del costo contributivo a carico del datore di lavoro”.

    La seconda area di intervento individuata si concentra sui disincentivi alle forme involontarie di part-time: “Inserire un sistema di denuncia per il lavoratore o la lavoratrice, costruire una politica di incentivazione per la trasformazione da contratto part-time a contratto full time”.

    Infine, il Forum Disuguaglianze e Diversità ritiene imprescindibile un aumento dei controlli: “Aderire alla raccomandazione europea che prevede l’aumento degli ispettori del 20% monitorando le clausole concordate nella contrattazione, i contributi annui sufficienti a raggiungere la soglia, le ore effettivamente lavorate coerenti con quelle previste nel contratto”.

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