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    Cosa significa fare l’operaio nell’Italia del 2023

    Credit: Unsplash

    Prendono salari da fame. Devono sottostare a ritmi frenetici. Rappresentano ancora quasi un terzo degli occupati. Ma nel dibattito pubblico sono praticamente invisibili. Ecco chi sono e cosa vogliono i lavoratori della manifattura

    Di Enrico Mingori
    Pubblicato il 6 Ott. 2023 alle 07:00 Aggiornato il 12 Ott. 2023 alle 12:52

    Era un venerdì pomeriggio, il primo venerdì del mese di luglio di quest’anno. Al calzaturificio Italoforme di Este, in provincia di Padova, il frastuono dei macchinari accompagnava come di consueto il lavoro dei 43 operai, ognuno ovattato dietro alle proprie cuffie antirumore, qualcuno munito anche di tappi per le orecchie. Nessuno di loro immaginava che di lì a pochi minuti si sarebbero ritrovati tutti disoccupati. 

    Italoforme è una delle aziende più antiche della provincia euganea: fondata nel 1897 da un piccolo artigiano, ereditata poi da una dinastia nobiliare, appartiene da tre generazioni alla famiglia Benetti, che l’ha rilevata negli anni Quaranta del secolo scorso.

    Il signor Massimo Ferraro, 61 anni, ha passato in questo calzaturificio quasi metà della sua vita. Era il 1995 quando fu assunto: «Ho iniziato come addetto ai macchinari che portano al prodotto finito, poi nel corso degli anni ho imparato a fare altre lavorazioni. Il mio lavoro mi piaceva», racconta.

    Ferraro non se lo dimenticherà mai, quel venerdì pomeriggio di tre mesi fa: «Alle 17 – ricorda – uno dei titolari dell’azienda ha avvicinato un paio di capi-reparto e ha comunicato loro “Questo mese gli stipendi non saranno pagati”. Contemporaneamente la sorella co-titolare telefonava alle filiali di Verona, Civitanova Marche e Fucecchio, in provincia di Firenze, e scandiva le seguenti parole: “Abbiamo portato i libri in tribunale, la fabbrica chiude”».

    «Queste cose – riflette l’operaio – di solito le fanno le multinazionali, non ci aspettavamo potesse capitare a una realtà tutto sommato piccola come la nostra, per di più a conduzione famigliare. Sapevamo che c’era qualche difficoltà sul mercato, c’erano stati dei periodi in cui avevamo usato la cassa integrazione, ma non avremmo mai immaginato di ritrovarci nel giro di un minuto dall’avere un lavoro all’essere in mezzo a una strada».

    Quel maledetto venerdì, senza alcun preavviso, la famiglia Benetti ha dichiarato fallimento. Solo dopo aver perso il lavoro gli addetti della Italoforme hanno scoperto che l’azienda era carica di debiti. «Adesso speriamo almeno di riuscire a ottenere una forma di ammortizzatore sociale», allarga le braccia Ferraro (successivamente alla realizzazione di questa intervista è stata concessa loro la cassa integrazione fino alla fine del 2023, ndr). «Ci sono colleghi più giovani di me che avevano appena acceso un mutuo per comprare casa. Non so come faranno…».

    Disinteresse generale
    Vicende come quella della Italoforme sono sempre più frequenti. Il caso più recente è quello della Marelli, una delle gemme più preziose della componentisica per auto Made in Italy: lo scorso 19 settembre la proprietà nippo-americana ha annunciato a sorpresa la chiusura dello stabilimento di Crevalcore, in provincia di Bologna, dove lavorano 230 persone.

    Due anni fa, nello spazio di pochi giorni, stessa sorte toccò gli addetti di altre tre aziende del settore automotive: prima la Gkn di Firenze, poi la Gianetti Ruote di Ceriano Laghetto, in provincia di Monza, e infine la Timken di Villa Carcina, vicino Brescia. E ancora: nell’aprile 2021 la marchigiana Elica – leader mondiale delle cappe da cucina – delocalizzò all’improvviso il 70% della produzione in Polonia. E nel novembre dello stesso anno la Caterpillar di Jesi – settore macchine movimento terra – licenziò i suoi 270 addetti con una mail.

    L’elenco è lungo, purtroppo. Sembra quasi che possa toccare a chiunque in qualsiasi momento. Così anche chi ha un contratto a tempo indeterminato finisce per sentirsi di fatto un precario. 

    È dura essere un operaio nell’Italia del 2023. Probabilmente è una condizione più difficile rispetto a cinquant’anni fa, evidentemente è meno interessante per chi fa politica, giornali, musica, letteratura. Oggi degli operai non si sente parlare praticamente mai. Ci si accorge di loro solo quando una fabbrica chiude. O quando muoiono sul lavoro.

    Forse è una questione dimensionale: il loro numero si è drasticamente ridotto rispetto agli anni Settanta, quando l’industria assorbiva il 39% del totale degli occupati. Ma parliamo pur sempre di un popolo di circa 9 milioni di individui, quasi un terzo della forza lavoro del Paese.

    Promesse mancate
    «L’operaio è colui che muove la produzione, ha grandi responsabilità e spesso un’elevata specializzazione. Ma per la maggior parte delle aziende è considerato un peso», osserva Oronzo Spagnulo, 44 anni di cui 23 trascorsi all’Ilva di Taranto (oggi Acciaierie d’Italia).

    Spagnuolo definisce «logorante» la sua esperienza nel mega-stabilimento pugliese su cui da anni si trascina il dilemma tra lavoro e salute: «Dopo tanti sacrifici, delusioni e cambiamenti, non si intravede un futuro», si sfoga. 

    In queste settimane l’acciaieria – 15mila addetti fra Taranto, Genova e Novi Ligure – è ripiombata nella totale incertezza, dopo che il Governo Meloni ha fatto sapere di essere al lavoro su un nuovo accordo con la multinazionale Arcelor Mittal, che controlla il 60% dell’azienda: il timore diffuso è che il piano di nazionalizzazione concordato nel 2020 vada in fumo.

    Significherebbe che in questi tre anni lo Stato italiano ha speso un miliardo di euro per poi lasciare comunque il comando delle operazioni al socio privato. Il quale, oltretutto, ha disatteso fin qui gran parte degli impegni assunti sulla decarbonizzazione. Intanto la produzione è ai minimi storici, così come la liquidità. 

    «Io faccio dieci giorni al mese di cassa integrazione», racconta Spagnulo: significa perdere circa 400 euro su uno stipendio di 1.600. 

    Parabola discendente
    Anche Nina Leone, 59 anni, operaia di Stellantis a Mirafiori, è in cassa integrazione: «C’è stato un calo sul mercato e sono state temporaneamente fermate tutte le produzioni che facciamo qui». Ovvero la Cinquecento elettrica e le Maserati Levante, Ghibli, Quattroporte, Granturismo e Gran Cabrio. 

    Negli anni Sessanta la fabbrica Fiat di Mirafiori dava lavoro a 65mila persone. Quando Leone è arrivata qui, nel 1991, erano scese a 12mila. Oggi sono circa 3mila. «All’inizio – ricorda l’addetta – lo stabilimento era estremamente sporco. Poi, negli anni Novanta, con la fabbrica integrata, la pulizia è migliorata molto, e anche l’illuminazione. Ma, da quando Fca è confluita in Stellantis, siamo tornati indietro: l’azienda risparmia sulle pulizie, sugli impianti di riscaldamento e raffreddamento, non c’è una manutenzione adeguata, gli attrezzi che usiamo sono usurati…». 

    L’amministratore delegato, il portoghese Carlos Tavares, lo aveva detto: «Il problema per noi in Italia non è tanto il costo dei lavoratori, quanto il costo del processo produttivo». E così è iniziata la stagione dei tagli. «Risparmiano sulle pulizie – chiosa Leone – ma poi lui, Tavares, prende un super stipendio»: 23,4 milioni di euro, per la precisione, nell’anno 2022.

    E, per giunta, la sforbiciata sta interessando anche il personale, con una serie di accordi di uscite incentivate che che ha già convinto oltre 4mila lavoratori a lasciare l’azienda (e il totale potrebbe salire a 7mila alla fine di quest’anno).

    L’orgoglio operaio? «Sì, c’è stato un tempo in cui l’ho provato», risponde Leone, che a Mirafiori è tra i referenti sindacali della Fiom-Cgil. «Sentivo di far parte di qualcosa. Ma adesso non è più così. Il mondo del lavoro è stato svalutato, noi operai siamo una categoria frantumata, ognuno ha un suo contratto e una sua percezione. Oggi vedo una fabbrica di colleghi stanchi, con una totale incertezza rispetto al futuro».

    Esempi virtuosi
    Il popolo operaio d’Italia sta invecchiando come il resto della popolazione. Il 18% ha più di 54 anni, il 39% ne ha fra i 40 e i 54, il 31% tra i 25 e i 29 e appena il 10% ha meno di 24 anni. Essere assunti è difficile e l’età legale per il pensionamento è stata spostata in avanti più volte. Lo stipendio medio, poi, è una miseria: 16.161 euro all’anno, secondo i dati 2021 dell’Inps.

    Ma ci sono anche storie positive. Come quella della Ducati di Borgo Panigale, in provincia di Bologna: da quando – ormai undici anni fa – è stata acquisita dai tedeschi di Audi, la storica casa motociclistica è diventata uno degli esempi più virtuosi di come andrebbero gestite le relazioni sindacali.

    Il contratto integrativo prevede percorsi di stabilizzazione automatici dei contratti di lavoro, flessibilità sull’orario (lo smart-working qui fu introdotto ben prima della pandemia) e strumenti utili di welfare aziendale.

    «Qui si lavora bene», conferma Mario Rizzo, 60 anni, in Ducati dal 2000. Rizzo si occupa della lavorazione dell’albero-motore: «Il mio mestiere mi piace – dice – ma negli ultimi vent’anni molte cose sono cambiate. Prima per ogni macchina c’era un operaio, oggi gli addetti si sono quasi dimezzati. La linea è robotizzata».

    Su circa 9 milioni di operai che popolano le aziende italiane, quasi 1,4 milioni sono cittadini extracomunitari. Louis Mendy, 55 anni, è arrivato dal Senegal nel 2000. Oggi fa il saldatore alla Omb Technolgy di Rezzato, in provincia di Brescia, società che produce cassonetti e automezzi per la raccolta dei rifiuti.

    «Sono partito per l’Europa con un visto regolare per studiare in Francia, ma poi le cose non sono andate come avevo previsto, il visto è scaduto e mi sono ritrovato in Italia da irregolare», racconta. «Qui a Brescia la prima cosa che ho capito è che, se volevo trovare un lavoro, dovevo imparare un mestiere e studiare l’italiano. Grazie a un sacerdote ho frequentato un corso per saldatore e uno di lingua. Nel giro di qualche mese sono stato assunto. Oggi sono regolare e dal 2016 ho anche la cittadinanza italiana».

    Mestiere tosto
    Com’è fare l’operaio in Italia? «Faticoso», risponde secco Mendy. «Soprattutto in estate, quando fa caldo ma devi comunque coprirti con i dispositivi di protezione… Non è facile, non posso dire che sia un mestiere che mi piace. Si lavora come buoi». 

    Giorgio Gaber la chiamava la «personale fatica quotidiana»: tutti i lavoratori con cui abbiamo parlato rimarcano le condizioni di lavoro sempre più dure imposte in fabbrica. Ecco alcune frasi sparse che abbiamo raccolto: «Oggi si produce in modo più frenetico», «I ritmi sono sempre molto pesanti», «Non hai mai un attimo di respiro», «L’azienda ti incalza sempre per produrre di più», «Subiamo molta pressione», «Ti chiedono il massimo: mani, gambe, braccia, anche la testa; ma non ti viene mai riconosciuto economicamente». 

    Rivoluzioni
    «I lavoratori oggi sono lasciati soli dalla politica a fare i conti con le due grandi trasformazioni in atto: la transizione ecologica e quella digitale», sostiene Roberto Benaglia, segretario generale della Fim-Cisl.

    «Gli operai non sono più quelli del film “Tempi moderni” di Charlie Chaplin. Adesso anche a chi sta sulla linea viene chiesto un contributo di qualità per migliorare i processi produttivi. Tant’è che si parla sempre meno di “operai” e “manodopera” e sempre più di “operatori” e “mente d’opera”», spiega il sindacalista. «Quanto alla transizione ecologica, non si può certo pensare di rinviarla o fermarla. Semmai, occorre ragionare su come renderla socialmente sostenibile». «Agli operai – prosegue Benaglia – non si può dire “C’è la transizione, quindi il tuo lavoro non serve più”: bisogna investire in formazione e riconversioni produttive. Ma la politica purtroppo si sta rivelando incapace di gestire questi processi».

    Non solo: «Dopo il Covid – fa notare il leader dei metalmeccanici della Cisl – è esploso un tema ulteriore: è cambiato il rapporto tra lavoratori e lavoro, soprattutto i più giovani chiedono al lavoro cose nuove, vogliono tempo libero per sé, welfare, la settimana lavorativa di quattro giorni… È una  nuova condizione operaia: si chiede tempo, non solo soldi». 

    In molte fabbriche oggi il leader più gettonato è Giorgia Meloni, così come ieri erano stati il Movimento 5 Stelle e Matteo Salvini. Non rileva più, per i lavoratori, se un partito agisce nel loro interesse o in quello degli imprenditori. Contano altri fattori, evidentemente.

    Coloro che conservano il cuore a sinistra, nel solco della tradizione operaia, sono una minoranza. E comunque tutti dichiaratamente delusi: «Speravo che Elly Schlein aprisse una nuova era per il Pd, ma io ancora non la vedo», sbuffa un addetto, in una constatazione che ben sintetizza l’amarezza diffusa tra quegli elettori. Ma c’è anche chi alle ultime elezioni politiche ha votato per la lista rossobruna di Marco Rizzo perché, spiega, «non ho gradito la linea del Partito democratico sull’obbligo del Green Pass per poter lavorare».

    Lotta di classe
    Negli anni Settanta nelle fabbriche si discuteva di lotta di classe e ci si batteva per conquistare nuovi diritti. Oggi prevale una generale sfiducia e gli operai si ritrovano a giocare la loro partita in difesa: il presente morde e il futuro non offre certezze. 

    C’è stato un momento stregato in cui l’inerzia è cambiata: la lotta di classe hanno iniziata a farla quelli che un tempo venivamo chiamati “i padroni”. E l’hanno vinta loro. E se l’hanno vinta è anche  perché hanno persuaso il mondo operaio che non era più necessario agitarsi, ché tanto ormai si era tutti dalla stessa parte: lavoratori e imprenditori insieme.

    Viene in mente una scena illuminante del film “Ovosodo” di Paolo Virzì, ambientato nell’Italia berlusconiana di metà anni Novanta. All’ingresso della fabbrica c’è un gruppo di operai in coda per timbrare il cartellino: uno di loro sfoglia con compiacimento un quotidiano economico, probabilmente di fattura confindustriale; i lavoratori in tuta blu ragionano di strumenti finanziari come se fossero un team di broker. «Per me non c’è discussione: o marchi o Bot!», sentenzia uno, sicurissimo. Al che un collega gli domanda: «Perché, tu quanto c’hai investito?». Risposta: «Nulla. Però se ce li avessi…».

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