Quella conclusasi a Vienna non deve essere stata una decisione tanto gradita alla Casa Bianca. È ormai da diverso tempo che Donald Trump punta a ottenere petrolio a prezzi più bassi. Forse non è andata giù nemmeno alla Cina, primo paese importatore del prezioso fossile.
Ma l’Opec non ha dato tanta attenzione alle richieste a stelle e strisce o alle conseguenze per il gigante asiatico. Quello che da tempo sembrava essere solo un discorso tenuto a bassa voce è diventata poi una richiesta. L’Opec ha ribadito, quantomeno di facciata, di essere un’organizzazione indipendente nelle sue decisioni.
In testa l’Arabia Saudita, regina indiscussa dell’Opec – cartello dei paesi esportatori di petrolio – che ha ottenuto ciò che voleva. Riportare i prezzi dell’oro nero verso l’alto con una mossa tanto semplice quanto faticosa nei negoziati: produrne meno.
Il taglio sarà di circa 1,2 milioni di barile al giorno e tale politica andrà avanti per sei mesi. Se ne faranno carico, per 800.000 barili giornalieri i paesi del cartello OPEC, mentre per i restanti 400.000 i paesi fuori dal cartello, capitanati dalla Russia di Putin, che fa ormai gruppo con il cartello dal 2016.
Esentati dai tagli, per ovvie ragioni, tre grandi giocatori nella scacchiera del mercato del petrolio. L’Iran, già alle prese con le sanzioni americane, il Venezuela per via della devastante crisi interna a cui l’organizzazione non può chiedere di più e la Libia, per via della rovinosa situazione che vive ormai da un pezzo.
Nonostante la decisione non gradita a Donald Trump, Khalid al-Falih – ministro per l’energia dell’Arabia Saudita – ha insistito sul taglio della produzione, arrivato dopo 48 ore di trattativa nella capitale austriaca, sottolineando come tale mossa aiuterebbe gli Stati Uniti nonostante le obiezioni di Trump. “Gli Stati Uniti sono il maggior produttore e ne trarranno vantaggio”, ha detto ai cronisti.
Sulla stessa lunghezza d’onda Emmanuel Ibe Kachikwu – ministro nigeriano del petrolio – che ha dichiarato ai taccuini che Trump dovrebbe essere “felice” che i paesi abbiano raggiunto un accordo, sostenendo che prezzi più alti sarebbero positivi per l’economia mondiale e il Tesoro degli Stati Uniti, che vedrebbe più entrate provenienti dalle tasse delle compagnie petrolifere americane.
Il prezzo del barile ha da subito avuto un sostanziale rialzo, e seguirà questo trend per i prossimi mesi, è matematico. Brent subito sopra i 60 dollari e WTI statunitense che sta ben oltre i 50 dollari. Ma è solo l’inizio.
Con una certa soddisfazione per chi il petrolio lo vende, e un po’ meno per chi ne subisce le conseguenze, fra bollette domestiche e pieni di benzina più cari. Perché il petrolio è un gioco a somma zero. Anzi, è tutt’altro che un gioco.
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