«Sicuro. Efficiente. Europeo». Avrebbe dovuto sfidare, almeno in minima parte, il sistema internazionale dominato dal dollaro statunitense ma dopo soli quattro anni di attività e una singola transazione, l’Instrument in Support of Trade Exchanges, meglio noto come Instex, è stato smantellato nel disinteresse generale.
Era la piattaforma con cui l’Europa aveva deciso di rispondere allo strappo di Donald Trump sul nucleare iraniano. Quello del 2018 quando, a metà del suo primo mandato, il magnate newyorkese e neo-presidente eletto degli Stati Uniti aveva fatto saltare lo storico accordo di tre anni prima, considerato uno dei maggiori successi della politica estera obamiana, ripristinando le sanzioni contro la Repubblica islamica. I firmatari europei, Regno Unito, Francia e Germania, avevano invece tenuto il punto.
Vecchi e nuovi esperimenti
Mentre le aziende del Vecchio continente lasciavano l’Iran nel timore di incorrere nelle “sanzioni secondarie“ di Washington, i tre Paesi (poi diventati dieci) avevano deciso di dare vita a una nuova piattaforma di pagamenti. L’obiettivo era di aggirare i divieti statunitensi e provare a salvare l’intesa del 2015, che imponeva a Teheran una serie di obblighi per limitare il suo programma nucleare al solo ambito civile, in cambio del graduale allentamento delle sanzioni.
Ma il nucleare iraniano non era l’unico fronte aperto con gli Stati Uniti. Le tensioni con la nuova Casa bianca di Donald Trump, e la spaccatura emersa al vertice del G7 in Canada, avevano già spinto molti alleati europei a chiedere maggiore autonomia da Washington, anche sul piano finanziario. Ad agosto 2018 l’allora ministro degli Esteri tedesco Heiko Maas aveva invocato «canali di pagamento indipendenti dagli Stati Uniti e un sistema Swift indipendente». «Dovremmo rafforzare il ruolo internazionale dell’euro e, inoltre, la nostra capacità militare di agire», aveva poi affermato Josep Borrell, mentre si preparava ad assumere l’incarico di capo della diplomazia a Bruxelles, aggiungendo che «l’Ue deve imparare a usare il linguaggio del potere». Tuttavia il tentativo di imporre l’euro non è mai veramente decollato.
Lanciato a fine gennaio 2019, Instex avrebbe dovuto agevolare l’acquisto di beni di prima necessità tramite una sorta di baratto, in cui le merci venivano abbinate all’esportazione di prodotti iraniani autorizzati, senza scambi diretti di denaro con Teheran. La prima transazione, riguardante l’importazione di materiali per combattere la pandemia di Covid-19, è avvenuta dopo più di un anno. Quell’operazione del 31 marzo 2020 fu anche l’ultima.
I motivi per il flop non mancavano. Per le imprese europee i rischi di un’eventuale perdita di accesso al mercato statunitense erano giudicati eccessivi, mentre da parte iraniana dominava lo scetticismo. Il leader supremo, l’ayatollah Ali Khamenei, aveva bollato Instex come un «brutto scherzo», che non poteva essere sufficiente per salvare l’accordo sul nucleare. Invece di offrire un’alternativa al sistema dominato dal dollaro l’iniziativa ha finito per confermarne, agli occhi di molti, l’inevitabilità.
Questo non ha impedito, con la pandemia e gli sconvolgimenti geopolitici degli ultimi anni, che il tema della de-dollarizzazione tornasse ancora sotto i riflettori. La pioggia di sanzioni occidentali dopo l’invasione russa dell’Ucraina ha messo in evidenza, per diversi Paesi in via di sviluppo, i rischi di un sistema in cui l’accesso ai mercati è legato alle decisioni di Washington. Il rinsaldamento della «amicizia» tra Mosca e Pechino ha inoltre rafforzato le convinzioni di chi punta alla costruzione di un nuovo ordine mondiale, anche finanziario. In prima linea ci sono i Paesi Brics+, guidati da leader di orientamento politico diverso: dallo “zar” Vladimir Putin, che l’anno scorso ha previsto «l’inizio della fine» per il dollaro, all’ex sindacalista Lula, che lo considera contrario agli interessi del Sud del mondo. «Perché non possiamo fare scambi basati sulle nostre valute? Chi è stato a decidere che doveva essere il dollaro la valuta dopo la scomparsa del gold standard?», ha chiesto il presidente brasiliano durante un incontro dei Brics nel 2023. La de-dollarizzazione è stata al centro anche dell’ultimo vertice del gruppo che riunisce Brasile, Russia, India, Cina e Sud Africa, a cui quest’anno si sono aggiunti Iran, Egitto, Etiopia ed Emirati Arabi Uniti. «Il dollaro viene usato come arma. Vediamo davvero che è così. Penso che questo sia un grosso errore da parte di chi lo fa», ha detto Putin durante il summit di Kazan dello scorso ottobre, affermando che i Brics+ stanno «valutando la possibilità di espandere l’uso delle valute nazionali».
Un primato ineguagliato
Il dominio del dollaro statunitense è stato riconosciuto ufficialmente con la fine della Seconda guerra mondiale e l’istituzione del regime di Bretton Woods, dal nome della conferenza che nel 1944 ha ridisegnato le regole della finanza internazionale. Fino al termine di quel sistema, collocato nel 1971, le altre valute erano legate da un tasso di cambio fisso alla moneta Usa, che a sua volta poteva essere scambiata con l’oro, anche in questo caso a un tasso prestabilito.
L’epoca successiva a Bretton Woods, quella in cui viviamo oggi, è caratterizzata da cambi generalmente flessibili. Ma anche se le principali divise mondiali non sono più ancorate formalmente al dollaro, quella statunitense continua a essere la più importante come unità di conto, mezzo di scambio o riserva di valore, le tre funzioni tradizionalmente associate alla moneta.
Il primato è evidente dai numeri. Almeno la metà di tutti gli scambi internazionali sono denominati in dollari, un dato che supera di gran lunga il peso degli Stati Uniti nel commercio mondiale, pari all’11 per cento. Anche per quanto riguarda i pagamenti internazionali, quasi la metà viene regolata in dollari. A inizio anno le transazioni regolate sulla piattaforma Swift tramite la valuta statunitense erano pari al 47 per cento, rispetto al 38 per cento del 2021.
Il predominio vale inoltre per le riserve, ossia i titoli esteri accumulati dalle banche centrali e utilizzati in tempi di difficoltà, ad esempio per difendere il tasso di cambio o pagare per le importazioni. Per questo devono essere il più possibile liquide e prive di rischio, caratteristiche attribuite generalmente ai titoli emessi dal governo statunitense. La scelta della valuta è dettata anche dalle necessità delle banche, che possono prendere a prestito ed erogare finanziamenti in dollari, e delle imprese, che effettuano e accettano pagamenti nella valuta di riferimento.
«Per molti mercati emergenti, oltre l’80 per cento delle importazioni viene fatturato in dollari», ha spiegato al Financial Times l’ex economista capo del Fondo monetario internazionale Gita Gopinath. «Per proteggersi dai movimenti valutari, è del tutto naturale che scelgano di risparmiare in dollari, il che a sua volta porta al dominio del dollaro nei mercati finanziari».
A livello mondiale, il 59 per cento delle riserve sono titoli denominati in dollari. Il valore è praticamente invariato rispetto a quello dell’ultimo trimestre del 2021, l’ultima rilevazione del Fondo monetario internazionale nel prima delle sanzioni imposte dai Paesi del G7 contro la Russia.
Se invece si tiene conto dell’andamento dei tassi di cambio emerge un calo, tanto lieve quanto costante, nella quota del dollaro sulle riserve globali. Secondo l’economista Barry Eichengreen dal 1999 il dollaro ha perso in media lo 0,6 per cento all’anno. Durante il 2022 il calo è stato ancora più accentuato, arrivando al 2 per cento.
Tra le cause dietro questi crolli periodici, registrati anche nel 2010 e nel 2015, ci sono gli interventi delle banche centrali a difesa del tasso di cambio (sostenuto vendendo le riserve per acquistare titoli in moneta locale). Il 2022, ad esempio, è stato un anno in cui le valute delle economie emergenti hanno risentito della forza del dollaro, spinto al rialzo dall’aumento dei tassi di interesse da parte della Federal Reserve. Ma è stato anche l’anno della guerra in Ucraina e delle massicce sanzioni imposte alla Russia che, come detto, stanno spingendo molte capitali a interrogarsi sulla propria dipendenza dal dollaro.
La lunga marcia del renminbi
Sono passati due anni e mezzo da quando Xi Jinping e Vladimir Putin hanno scelto la giornata inaugurale delle Olimpiadi invernali di Pechino per annunciare un nuovo capitolo nei rapporti tra Cina e Russia. «L’amicizia tra i due Paesi non ha limiti, non esistono ambiti di cooperazione “proibiti”», avevano dichiarato i due capi di Stato, tre settimane prima che i carri armati russi varcassero ufficialmente il confine con l’Ucraina.
Dopo l’invasione, la partnership avrebbe dovuto rappresentare per Mosca una sponda per uscire dall’isolamento internazionale. L’ondata di sanzioni occidentali, dai blocchi alle esportazioni, all’esclusione di diverse banche dal sistema dei pagamenti fino al congelamento delle riserve, minacciavano infatti di tagliare la Russia fuori dai mercati. I rapporti con la Cina hanno in parte contenuto i danni. Nei mesi successivi al febbraio 2022 la cooperazione tra i due Paesi ha raggiunto livelli senza precedenti, con scambi per 240 miliardi di dollari nel 2023.
La Banca centrale russa ha osservato che il ruolo svolto a livello internazionale dalla valuta cinese, il renminbi, è «aumentato significativamente» negli ultimi anni. Per quanto riguarda le riserve detenute dalla Russia non sono disponibili dati specifici dal momento che, dall’inizio della guerra, l’istituto russo non ha più reso nota la loro composizione. Ma è certo che l’utilizzo dello yuan (il nome di un’unità di renminbi) ha subito un’impennata. Prima dell’invasione il volume degli scambi di yuan sul mercato russo era trascurabile. Nel 2023 ha preso il posto del dollaro come valuta estera più scambiata nella Federazione.
Al di fuori della Russia però la lenta marcia del renminbi sembra essersi fermata. Dopo l’accelerazione vista dal 2016 al 2022, quando la quota di yuan è più che raddoppiata, le riserve in valuta cinese sono scese progressivamente, arrivando al 2,15 per cento del primo trimestre del 2024.
Va comunque ricordato che il passaggio dalla sterlina al dollaro come valuta di riserva internazionale è avvenuto gradualmente, nell’arco di decenni. Anche in questo caso i cambiamenti potrebbero richiedere tempo, sempre che una nuova crisi non li acceleri.
L’ambizione di contendere all’Occidente il controllo delle «leve del comando» dello sviluppo futuro, rivendicata a più riprese da Xi Jinping (citando Lenin), non significa certo che la Cina intenda sacrificare l’accesso ai mercati internazionali.
Nonostante i dissidi con la Casa bianca e la collaborazione con Mosca, la prima potenza manifatturiera al mondo continua a essere integrata nelle “supply chain” globali. Questo l’ha spesso messa in una situazione difficile.
Aspirazioni rischiose
Nell’aiutare le aziende russe, le controparti cinesi hanno dovuto scongiurare il rischio di essere a loro volta colpite dalle sanzioni occidentali. «Nessuno in Cina è pronto a cadere sotto sanzioni secondarie e a perdere il mercato globale solo a causa della Russia», ha spiegato a Reuters un addetto ai lavori. «Né le imprese manifatturiere, né le strutture finanziarie, comprese le banche». Il riferimento è alle difficoltà nella gestione dei pagamenti tra i due Paesi. Dopo l’ennesimo giro di vite da parte di Washington, le autorità cinesi hanno deciso di coinvolgere istituti di credito più piccoli con sede nelle regioni al confine con la Russia per limitare il coinvolgimento delle banche di maggior profilo, riducendo anche potenziali ricadute per la Cina.
Ma non c’è solo la supremazia militare ed economica degli Stati Uniti, con la capacità di offrire liquidità a chi sceglie il dollaro e di infliggere sanzioni agli avversari a spingere molti Paesi a interrogarsi sulla propria dipendenza dal dollaro. Per far crescere la presenza del renminbi sulla scena globale, una potenza esportatrice come la Cina deve anche fare i conti con le ricadute interne di questa scelta.
Secondo l’economista Michael Pettis, docente di Finanza all’Università di Pechino, un tale sviluppo potrebbe infatti alterare gli equilibri economici e politici su cui si è finora retto il modello cinese.
Ad esempio, per favorire l’ingresso di flussi di capitali le autorità cinesi dovranno essere disposte ad adeguare il sistema normativo, rinunciando a un certo grado di discrezionalità nei rapporti con investitori e grandi imprese. Oltre alle garanzie sul rispetto dello stato di diritto, Pechino dovrebbe allentare i controlli sui capitali, consentendo agli stranieri di introdurre o ritirare fondi dai mercati finanziari cinesi senza restrizioni.
Per il momento, ha spiegato in un articolo su Foreign Affairs Eswar Prasad, docente di Politica commerciale alla Cornell University, «il dollaro rimane troppo potente e troppo radicato nell’economia globale perché gli altri Stati possano considerare di passare ad altre valute». «La storia del dollaro, in definitiva, non riguarda tanto la forza degli Stati Uniti quanto le debolezze del resto del mondo». Finché, secondo Prasad, questo non cambierà, il Biglietto verde resterà al suo posto come pilastro centrale dell’economia mondiale.
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