L’offerta degli americani di Kkr per comprare il 100 per cento di Tim è solo l’ultimo episodio in ordine cronologico di una miliardaria campagna acquisti che sta portando un ristretto gruppo di potenti fondi d’investimento internazionali a mettere le mani su aziende strategiche per l’economia italiana. Nell’ultimo anno questi fondi si sono concentrati in particolare sulle infrastrutture del nostro Paese, sia quelle fisiche (le autostrade) sia quelle virtuali (le telecomunicazioni). Tutto pienamente legittimo, ma quando si parla di aziende strategiche la mission del profitto è qualcosa da maneggiare con cura.
Secondo l’ultimo rapporto dell’Aifi (Associazione Italiana del Private Equity, Venture Capital e Private Debt) nel primo semestre il volume d’affari dei fondi private equity in Italia è aumentato del 194 per cento rispetto ai primi sei mesi del 2020 e del 650 per cento rispetto al primo semestre 2019. E il 74 per cento degli investimenti ha passaporto straniero.
Ma andiamo con ordine. L’estate scorsa il consiglio d’amministrazione di Atlantia, la società controllata dalla famiglia Benetton che possiede l’88 per cento di Autostrade per l’Italia, ha detto sì all’offerta di acquisto da 8 miliardi di euro presentata da un consorzio in cui la cassaforte dello Stato, Cassa Depositi e Prestiti – che avrà la maggioranza – è affiancata dai fondi Blackstone e Macquarie.
Fondata nei ruggenti anni Ottanta a New York da due ex dirigenti della Lehman Brothers, Blackstone è una società d’investimento tra le più prestigiose del mondo, con circa 570 miliardi di euro di patrimonio gestito. Macquarie, invece, è australiana e poggia su asset per 364 miliardi: il suo logo è un dollaro bucato e a Sidney i giornali la chiamano “la fabbrica di milionari”.
Entrambi i nuovi soci di Autostrade per l’Italia fanno spesa da anni nel Bel Paese. Gli americani di Blackstone nel 2014 comprarono il 20 per cento della maison Versace, salvo poi rivendere la partecipazione quattro anni più tardi a un prezzo raddoppiato. Molto attivi nel settore immobiliare, oggi sono in guerra con l’editore Urbano Cairo, patron di Rcs, per la vendita della storica sede del Corriere della Sera, in via Solferino a Milano.
Tra gli azionisti di Blackstone ci sono i due più ricchi fondi d’investimento del mondo, ovvero Blackrock e Vanguard, che gestiscono rispettivamente asset per 7mila e 6.400 miliardi di euro. E qui la ragnatela si fa davvero intricata perché questi due colossi – Blackrock e Vanguard, appunto – sono presenti anche nel capitale di Macquarie. Non solo: secondo il senatore Elio Lanutti (Gruppo Misto), attraverso una serie di partecipazioni indirette, i due fondi americani erano soci di Atlantia (al 43,5 per cento) già prima della recente operazione con Cdp. In altre parole, osserva il senatore, “Vanguard e Blackrock escono dalla finestra con la mega-liquidazione di Altantia e rientrano dalla porta con il nuovo consorzio”.
Nato come una costola di Blackstone e poi diventato autonomo, il fondo Blackrock in Italia controlla, fra gli altri, pacchetti di azioni del 5 per cento ciascuno in Intesa Sanpaolo, Unicredit, Snam, Prysmian ed Enel. Nel 2016, inoltre, sempre con un partecipazione del 5 per cento, era arrivato a essere il secondo azionista di Tim. Negli anni successivi il fondo si è progressivamente ritirato da Telecom: il suo posto è stato preso di fatto da un altra società d’investimento a stelle e strisce, il fondo Elliott, guidato da Paul Singer (che in Italia ha interessi anche nel calcio: possiede il Milan). Nel 2019 Elliott era arrivato a controllare più del 9 per cento di Tim, poi – da aprile 2020 – anche Singer è uscito di scena.
Oggi Tim è in mano ai francesi di Vivendi, gigante delle media company. L’ex monopolista di Stato non gode di buona salute: rispetto a cinque anni fa i ricavi sono in calo del 20 per cento e il valore del titolo in Borsa si è praticamente dimezzato. È l’intero settore delle telecomunicazioni a essere in difficoltà: come documentato da un recente rapporto dell’Area Studi di Mediobanca, i 10 big player europei del comparto telco hanno visto calare i propri fatturati del 7 per cento rispetto al 2016. Ma Tim – che ha chiuso il 2020 con 23 miliardi di euro di debiti a fronte di 15,8 miliardi di fatturato – è tra quelle messe peggio. L’ultimo flop è stata l’alleanza con la piattaforma streaming Dazn per trasmettere in tv le partite della serie A: l’atteso boom di abbonamenti non c’è stato. Un fallimento che Vivendi ha imputato tutto all’amministratore delegato Luigi Gubitosi, che ora rischia seriamente di essere sfiduciato dal consiglio d’amministrazione.
Alla porta di Tim adesso sta bussando il fondo americano Kkr, acronimo di Jerome Kohlberg, Henry Kravis e George R. Roberts, i tre banchieri d’affari che lo fondarono nel 1976 a Manhattan. Kkr oggi ha in gestione oltre 400 miliardi di dollari e – nel nome del mantra finanziario “diversificare” – ha in ballo investimenti in varie direzioni, dalla cosmetica (Wella) all’editoria (Axel Springer). Sabato 20 novembre questo fondo ha messo sul piatto per Tim una valutazione più alta del 46 per cento rispetto al valore con cui il titolo aveva chiuso in Borsa il giorno precedente.
Da dove nasce un interesse così forte per un’azienda che non sta certo brillando per redditività? La risposta, tutto sommato, è semplice. In primis ci sono le prospettive di guadagno connesse al completamento della rete in fibra ottica su tutto il territorio nazionale, finanziato dal Piano nazionale di Ripresa e Resilienza (Pnrr).
Già nell’aprile scorso Kkr era entrata con il 37,5 per cento nel capitale di FiberCop, società creata da Tim proprio con la missione di accelerare la modernizzazione della rete. Ma chi si occuperà materialmente di portare la banda ultralarga e il 5G nelle case degli italiani non è ancora chiaro. Oltre a Tim, infatti, c’è in campo anche un altro attore: Open Fiber, il player pubblico-privato voluto nel 2015 dall’allora governo Renzi. Fino a pochi mesi fa la società era al 50 e 50 di Cdp ed Enel. Quest’ultima però ha di recente fatto un passo indietro e ora il nuovo assetto vede Cdp al 60 per cento e l’altro 40 per cento in mano a – indovinate chi? – il solito fondo: Macquarie, lo stesso che è socio di Autostrade per l’Italia. Starà al governo, nei prossimi mesi, fare ordine in questo caos e stabilire chi dovrà gestire la modernizzazione della rete.
A parte la fibra ottica, peraltro, c’è anche un altro motivo per cui Tim ha solleticato l’interesse di Kkr: la partita del cloud. L’azienda guidata da Gubitosi, infatti, fa parte insieme a Cdp, Leonardo e Sogin di una cordata che, sempre nell’ambito del Pnrr, punta ad aggiudicarsi la gestione del Polo Strategico Nazionale, ossia dei dati delle Pubbliche Amministrazioni. Una partita da circa 2 miliardi di euro in cui la cordata di Tim è la grande favorita, anche perché – come abbiamo raccontato su TPI – il ministero dell’Economia ha fatto pressioni sui concorrenti affinché si facciano da parte.
Massimo D’Antoni, professore di Scienza delle Finanze all’Università di Siena, ritiene che la gestione dei dati dei cittadini ponga “una questione di sicurezza nazionale”. “L’idea che ora il settore delle telecomunicazioni possa finire in mano a un fondo americano desta giustamente preoccupazione”, osserva il professore. “Qui c’è un aspetto strategico. Ed è cruciale quindi che ci sia una politica industriale, se non un controllo pubblico”. D’Antoni chiarisce: “In un mondo che si integra è normale che i capitali si muovano e non c’è nulla di male in linea di principio”. Ma quando si parla di aziende strategiche il discorso cambia: “I fondi potrebbero orientare le scelte dell’azienda verso una profittabilità di breve periodo anziché su obiettivi di lungo termine, che per il Paese sono quelli più importanti”.
Secondo Stefano Fassina, deputato di Liberi e Uguali, è “inevitabile confrontarsi con questi soggetti. Ma lo Stato deve essere attrezzato per poter avere una funziona attiva e non subire”. Se l’operazione di Kkr su Tim andrà in porto avverte il parlamentare, l’azienda andrà incontro a “operazioni finanziarie di corto respiro che potrebbero danneggiare in modo irreversibile anche le prospettive del Paese”. “Attenzione però a vedere il male soltanto in questi fondi. Da Tim ad Austostrade, non è che gli azionisti privati italiani in questi anni abbiano operato per il bene dell’Italia”. Il problema, allora, secondo Fassina, è “di strategia industriale da parte dello Stato. Strategia che si porta avanti attraverso una presenza consistente nell’azionariato, attraverso la scelta di un management adeguato e anche attraverso l’utilizzo del golden power”.