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Il luogo di lavoro sta subendo continue e profonde trasformazioni, spesso dei veri e propri stravolgimenti frutto della costante innovazione tecnologica. Documenti cartacei, scaffalature cariche di faldoni ingialliti e chilometri di cavi lasciano spazio a uffici wireless, tecnologie cloud, tablet e dispositivi touch. Maggiore condivisione e collaborazione, interazioni meno complicate, flessibilità, sicurezza e semplificazione dei processi; il tutto volto ad assicurare un aumento della produttività che accompagni un nuovo stile di vita, dinamico ma allo stesso tempo attento a garantire il cosiddetto work life balance.
Ma in tutto ciò, che cosa accade al lavoratore? È possibile utilizzare la tecnologia per tenerlo sotto controllo? Pensiamo ad esempio al proliferare di telecamere, webcam, monitor e video. Dopo l’avvento del Jobs Act, che ha modificato lo Statuto dei Lavoratori, l’utilizzo di impianti dai quali derivi anche la possibilità di controllo a distanza dell’attività dei lavoratori è lecito “esclusivamente” per “esigenze organizzative e produttive, per la sicurezza del lavoro e per la tutela del patrimonio aziendale”, previo però un accordo sindacale o un’autorizzazione amministrativa. Di certo continua a sussistere il divieto di verifiche dirette sull’adempimento o meno della prestazione lavorativa.
La giurisprudenza in materia è chiara: l’uso delle telecamere è finalizzato a contemperare le esigenze del datore di lavoro, ma deve tutelare dignità e riservatezza del lavoratore per evitare che l’attività lavorativa risulti impropriamente e ingiustificatamente caratterizzata da un controllo continuo e anelastico.
Questo per evitare di ledere ogni forma di autonomia e riservatezza della persona nello svolgimento della prestazione di lavoro. La realtà però – e non quella virtuale – è ben altra. La tecnologia video nei luoghi di lavoro rischia di essere utilizzata in modo invasivo, come fosse una sorta di VAR nei campi da calcio, assoggettando così il lavoratore a un controllo sfibrante e anche poco remunerativo dal punto di vista delle performance individuali.
Vero è che, allo stato attuale, la personale riservatezza viene spesso sacrificata in ogni modo attraverso i social, forse senza neanche diventare famosi per quindici minuti. Ma non è nemmeno possibile poter apprezzare un quarto d’ora di privacy solo dopo aver terminato il proprio lavoro. Per rendere il futuro meno simile agli scenari distopici descritti nei racconti di Philip Kindred Dick, bisogna avere ben chiara la distinzione tra lavoratore e macchina e cessare di pretendere che il primo sia sempre più simile alle attrezzature che utilizza. A maggior ragione se si considera che secondo un report del McKinsey Global Institute (MGI) dello scorso anno, entro il 2030 circa il 22% delle attività lavorative europee (equivalenti più o meno a 53 milioni di posti di lavoro) potrebbe essere automatizzato.
Ciò nonostante, sempre secondo il McKinsey, gli esseri umani saranno ancora e per forza di cose indispensabili, ma sarà necessario un alto grado di cooperazione tra lavoratori e tecnologie. Ben venga quindi un ambiente di lavoro hi-tech profondamente rinnovato, ma stop all’utilizzo indiscriminato delle tecnologie che esasperano i controlli e non tengono conto della dimensione umana del lavoro.
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