Con il decreto legge n. 44/2021 sono state definite le nuove regole per sbloccare i concorsi già banditi, per quelli che saranno banditi durante lo stato di emergenza e per quelli a regime. La principale novità consiste nella riduzione dei concorsi pubblici a due sole prove, una scritta e una orale, con valutazione finale dei titoli per comporre il punteggio definitivo in graduatoria. Niente più preselettive quindi, ma neanche serie concatenate di diverse prove scritte.
Si parla di pubblica amministrazione e, quindi, anche di scuola. Nello specifico dei concorsi scuola, a costituire un “problema” è la modalità con cui applicare questa riforma ai concorsi già banditi: sia perché bisogna decidere cosa fare della seconda prova scritta, sulle discipline psico-pedagogiche e didattiche, alla quale avrebbero avuto accesso solo i candidati con punteggi superiori alla sufficienza nel primo scritto, quello disciplinare (una o più domande, in base al numero di materie afferenti alla classe di concorso), sia perché dovendo eliminare la preselettiva occorre un altro criterio di scrematura iniziale. Sul primo punto la soluzione è intuitiva: basterebbe aggiungere il quesito della seconda prova a quello/i della prima; sulla questione dell’eliminazione della preselettiva si è aperta invece una polemica pretestuosa.
Le slide illustrative pubblicate sul sito del Ministero della Pubblica Amministrazione (qui) spiegano che al posto della preselettiva ci sarebbe una “Fase di valutazione dei titoli legalmente riconosciuti ai fini dell’ammissione alle fasi successive”. Da più parti, ultimi in ordine di tempo gli interventi di Nicola Fratoianni e Tito Boeri, si è lamentato che procedere in quel modo penalizzerebbe i giovani, i neolaureati, perché in quanto tali non possono aver avuto il tempo di conseguire chissà quanti titoli né tantomeno di maturare servizio scolastico. Una critica che sembra più demagogica che fondata. Vediamo perché.
1) Già nel vecchio bando del concorso ordinario (prendiamo come esempio da ora in poi quello per la secondaria di secondo grado) era presente una tabella di valutazione dei titoli culturali e di servizio (Allegato C). Venti erano i punti massimi accumulabili sommando le due categorie di titoli. Già questo punteggio avrebbe naturalmente posto in una situazione di svantaggio un qualsiasi neo-laureato; eppure all’epoca nessuno gridò allo scandalo. Certo, secondo il vecchio bando il conteggio dei titoli sarebbe avvenuto solo alla fine, per i candidati che avessero superato anche l’orale, mentre nell’ipotesi di attuazione della riforma Brunetta questo calcolo avverrebbe preliminarmente: non cambia tuttavia la sostanza, ovvero un neolaureato potrebbe facilmente essere superato, nella graduatoria finale, da candidati anagraficamente “meno giovani” o comunque con più titoli culturali.
2) L’ipotesi di anticipare il conteggio dei titoli dichiarati dai candidati in sede di iscrizione al concorso e di utilizzare questa modalità fin dall’inizio per operare una scrematura in ingresso al concorso è decisamente più meritocratica che affidarsi a una preselettiva. Tre i motivi: anzitutto, la preselettiva introduce una disparità incostituzionale tra i candidati, costringendo solo alcuni a sostenere una prova in più, sulla base della mera sfortuna o casualità di trovarsi a concorrere per una classe di concorso o in una regione troppo affollata. Secondo, non c’è una soglia minima di superamento della preselettiva oltre la quale si è ammessi al concorso, cioè manca una valutazione oggettiva uguale per tutti gli sventurati che sostengono questa prova: la promozione dipende dalle performance dei candidati in quella cdc e regione (su questo si veda questo approfondimento su TPI).
Infine, i contenuti della preselettiva non c’entrano nulla o quasi con le materie oggetto del concorso e vanno a “saggiare” (oltre alla fortuna) competenze molto specifiche (come la logica matematica, geometrica o proposizionale) che nulla dicono circa le effettive capacità disciplinari o pedagogiche degli aspiranti docenti. Del resto, si sa che l’unico senso delle preselettive è quello di ridurre il lavoro delle commissioni, perché anche qualora ci fossero diecimila candidati basterebbe il numero dei posti disponibili a fare la selezione: se sono 30 passano 30 persone, più un tot di riserve, e gli altri ritenteranno (nel caso del concorso scuola conseguono comunque l’abilitazione, e non è male). Non si vede perché le persone (e solo alcune) dovrebbero essere falcidiate preventivamente. Se la preselettiva fosse obbligatoria per tutti e vertesse, per ogni classe di concorso, su domande pertinenti alle discipline, oppure se fosse di cultura generale, forse sarebbe giusta. Ma così com’è pensata è un’ingiustizia e una roulette russa, che tuttavia alcuni sembrano preferire ad una giusta selezione per merito.
È giusto di poche ore fa la risposta, sull’Huffington Post, del ministro per la Pubblica amministrazione Renato Brunetta in merito a tutta questa polemica: “(…) devo spiegazioni a chi è spaventato e anche ai tanti – professori universitari, esperti, studiosi, ex presidenti di enti pubblici – che paiono difendere l’attuale apparato concorsuale come l’unico infallibile sistema per reclutare giovani talenti nella PA. A chi sembra sostenere che titoli universitari, dottorati e master non devono contare nulla per la PA di cui tanto lamentiamo lentezza e inefficienza, perché anzi sarebbero ‘discriminatori’, quasi un colpo di fucile alla meritocrazia”.
E prosegue: “La novità è rendere obbligatoria la fase iniziale della valutazione dei titoli di studio legalmente riconosciuti per l’ammissione alle prove successive, al posto dei test preselettivi a crocette. Una decisione coerente con le pratiche internazionali, ad esempio quella europea di Epso. Non saranno invece valutati all’inizio titoli di servizio o esperienza professionale, come erroneamente leggiamo nei volantini diffusi in rete con l’hashtag #ugualiallapartenza”. Vi è inoltre la specifica per cui “per i concorsi già banditi per i quali non sia stata svolta alcuna prova, le amministrazioni possono, non devono, prevedere una fase di valutazione dei titoli di studio legalmente riconosciuti ai fini dell’ammissione alle prove successive”: quella della riforma è quindi, in ogni caso, una proposta, non un obbligo, purtroppo.
Purtroppo, perché sarebbe invece ora di rendere la meritocrazia l’unico standard possibile, come lo stesso ministro auspica visto che il suo intervento rimette al centro l’idea, troppo spesso dimenticata, che il merito dovrebbe venire prima di tutto – prima dell’età, prima degli anni di servizio – e che in un Paese come l’Italia in cui i titoli di studio hanno valore legale, essi sono l’unico merito certificato, in quanto frutto di esami e prove.
L’aspetto più riprovevole della polemica di questi giorni sta proprio nel fatto che invece che chiedersi cosa sia meglio per il Paese e per la qualità delle sue istituzioni, si ricorre ad una delle due facce di una doppia retorica, giocata sull’età anagrafica e sulla “stagionatura” del precariato. In certi periodi, infatti, si grida in difesa di chi ha più di 36 mesi di servizio, i precari storici vittime del sistema, sfruttati da anni per questo meritevoli di stabilizzazione (anche se nessuna istituzione dello Stato ha mai saggiato e valutato la qualità dell’esperienza acquisita e del lavoro svolto), scavalcando chiunque – giovani, meno giovani, più o meno titolati – con concorsi straordinari o riservati.
In altri, ci si erge a paladini dei giovani neolaureati, da tutelare e gettare avanti onde evitare che vengano superati da persone con più titoli culturali o esperienza sul campo – e allora si obietta contro qualunque differenziazione che valorizzi il merito già certificato o un qualche tipo di professionalità acquisita. Posizioni che condannano i cittadini interessati a seguire la politica col fiato sospeso per capire se si è nella fase del “prima i precari” o in quella “prima i giovani” e sperare di appartenere a quella categoria nel momento giusto.
Da una parte l’età anagrafica giovanissima, sbandierata solo quando serve (magari l’Italia valorizzasse davvero i suoi giovani… sono trent’anni che si aspetta e nel frattempo i giovani di ieri sono invecchiati, spesso all’estero, quindi facciamo tanti auguri ai poveri giovani di oggi) ed elevata a titolo di merito, al pari della “stagionatura” del precariato che superati i 36 mesi a quanto pare diventa doc (ma senza alcun controllo qualità) e garantisce la rivendicazione di insondabili meriti e precedenze; dall’altra invece il merito vero, quello già valutato e certificato dai titoli, degradato a cartastraccia.
Il tempo del “prima il merito”, insomma, non arriva mai, e chi è un ex-giovane (cioè un non più ventenne), anche magari con poco o zero servizio ma tanti titoli culturali, non è di alcun interesse per questo Paese, può marcire nel dimenticatoio. Viene da chiedersi che Stato sia quello che trasforma la società e il lavoro in una lotta e lotteria generazionale. La vera giustizia è dare a ciascuno secondo i suoi meriti, non a tutti lo stesso: uguaglianza non è livellamento e appiattimento ma valorizzazione e difesa delle differenze e dei meriti.
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