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    Il difficile compromesso tra maternità e carriera

    Nel bel paese le donne sono ancora costrette a dover scegliere tra lavoro e maternità. Spesso, rinunciare al lavoro, significa rinunciare anche alle proprie ambizioni

    Di Alice Possidente
    Pubblicato il 30 Set. 2019 alle 22:07

    Lavoratrici madri, il difficile divario

    In Italia conciliare maternità e lavoro è ancora difficile. Come riporta Il Fatto Quotidiano, nel 2018 sono state quasi 36mila le donne che hanno dovuto lasciare il lavoro per la nascita di un figlio.  Nel 2011 i licenziamenti sono stati 17.175. Da allora, c’è stato un incremento costante, fino ad arrivare a una impennata che sfiora il 110 per cento.

    Per le lavoratrici madri è difficile trovare un compromesso tra la carriera e la cura di un figlio piccolo. E spesso le donne si trovano di fronte a scelte frustranti. Dopo percorsi accademici brillanti, lauree col massimo dei voti, esperienze decennali, la costrizione a dover rinunciare a tutto per assenza di garanzie significa anche un annientamento psicologico. Perché licenziarsi, spesso, non è solo rinunciare alla retribuzione ma anche alle proprie ambizioni.

    Trovare una soluzione che consenta di far combaciare la professione con la famiglia non è semplice. Così come è difficile, il più delle volte, trovare un compromesso con l’azienda. Come riporta Il Fatto Quotidiano, le norme che regolano il part time, in Italia, sono più rigide rispetto al resto dell’Europa. Nel 2018 solo un quinto delle donne che lo ha chiesto lo ha ottenuto.

    Le rette dei nidi privati vanno dai 500 ai 600 euro al mese e le liste d’attesa per gli asili pubblici sono spesso troppo lunghe. Il Paese, pertanto, appare sempre più distante dalle esigenze delle lavoratrici madri.

    Crescono però anche i papà che si dimettono, per far fronte alle esigenze familiari. Segno che il modello sociale sta gradualmente cambiando. Se otto anni fa i papà che si licenziavano erano appena 506, nel 2018 sono saliti a 13.500. Ma è sempre sulle donne che grava il peso maggiore della genitorialità. Come riporta l’Ispettorato nazionale del lavoro nel suo rapporto annuale, le donne costituiscono il 73 per cento del totale dei dimissionari (circa 49.500).

    Quello che manca alle famiglie in cui le donne lavoratrici sono costrette a dimettersi è soprattutto una rete parentale di supporto, un welfare efficiente e accessibile a tutti, una organizzazione del lavoro che si concili con la cura di un bambino. I servizi pubblici all’infanzia arretrano e i nonni sono sempre meno disponibili perché spesso sono anche loro ancora al lavoro.

    Italia fanalino di coda d’Europa

    In Italia il tasso di occupazione femminile non arriva al 50 per cento e l’Italia nella classifica europea è avanti solo alla Grecia. Paesi come la Svezia o la Germania arrivano a percentuali superiori del 75 per cento.

    È cosi che mentre la Commissione europea prende come punto di riferimento l’esperienza della Finlandia – dove è stato stabilito che tutti i genitori hanno il diritto di avere a disposizione un asilo con orari elastici – l’Italia resta in coda. Non si salvano nemmeno le regioni del Settentrione, che storicamente possono vantare un alto tasso di occupazione femminile.

    In Emilia Romagna le dimissioni alla nascita di un figlio sono aumentate del 23 per cento in un anno. In Veneto del 29 per cento. Al Sud i dati sono allarmanti. In Campania i licenziamenti volontari sono cresciuti in un anno del 104 per cento, in Puglia dell’ 88 per cento.

    Il Trentino fa eccezione: nel 2018, le dimissioni sono state solo 731. La Provincia autonoma nel 2011 ha approvato una legge sul benessere della famiglia e ha attuato provvedimenti a supporto della maternità per abbattere le rette dei nidi fino al 90 per cento.

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