La paga è poco più di tre euro l’ora. La giornata di lavoro inizia la mattina presto, alle prime luci dell’alba, e finisce la sera tardi. In Capitanata, in Puglia, quella dei lavoratori stagionali è una storia di sfruttamento: assenza di tutele, la morsa del caporalato e gli effetti della distribuzione a basso costo.
Sveglia alle cinque e dodici ore nei campi. A casa si portano, durante il periodo di raccolta dei pomodori, una quarantina di euro. La cifra non è tonda perché va sottratto il costo da pagare ai caporali per il trasporto o gli strumenti di protezione. Come i guanti, che per contratto dovrebbero essere forniti dal datore di lavoro ma che, alla fine, sono gli stagionali a comprare.
I contratti sono pochi, in grigio soprattutto, e non riportano le effettive ore di servizio. Poi, si dorme in un casolare o in un baracca, e si paga anche un affitto. Come a Borgo Mezzanone, il ghetto tra Foggia e Manfredonia, un insediamento informale fatto di abitazioni di lamiera. Lo chiamano “la pista” perché è stato costruito su una vecchia base aerea utilizzata fino alla guerra nei Balcani. Sorge intorno al Cara e nel mese di agosto arriva ad ospitare anche 4mila persone. Le condizioni abitative e sanitarie sono precarie: tre mesi fa Samara Saho, un ragazzo gambiano, ha perso la vita in un incendio divampato nella sua baracca. Aveva 26 anni.
“I ghetti sono luoghi dove ti svegli prima dell’alba per andare a lavorare senza alcuna tutela contrattuale. Il guadagno è minimo per chi lavora e massimo per gli sfruttatori, ai vari livelli. Una condizione che difficilmente le parti offese riescono a denunciare per paura di restare soli, senza lavoro ed esposti a vendette”, spiega a TPI Alessandro Verona, referente medico dell’unità migrazioni di Intersos.
“La provincia di Foggia è una delle più esposte allo sfruttamento agricolo, che interessa soprattutto lavoratori e lavoratrici dell’Africa sub-sahariana. Si trovano nella condizione ideale per gli sfruttatori a causa della precarietà del loro status sociale e giuridico. Subiscono orari lavorativi disumani e paghe umilianti, trasporti pericolosi, assenza di contratti agricoli regolari con un meccanismo di subordinazione rafforzato da un clima di discriminazione e violenza”, prosegue.
Attiva da tredici mesi in Capitanata, Intersos fornisce un sistema di assistenza socio-sanitaria attraverso interventi medici diretti con due unità mobili che lavorano in sette insediamenti. Insieme ai due medici, anche due mediatori culturali. “Parliamo del diritto alla salute affinché possa essere impugnato in base al principio di autodeterminazione, evitando ogni forma di assistenzialismo che invece indebolirebbe la comunità (dei lavoratori migranti, ndr)”, continua Verona.
Il camper con cui si forniscono interventi medici è presente nel ghetto tre volte a settimana e lavora insieme ad Asgi, progetto Presidio della Caritas di Foggia, Iris e Oasi 2. Le uscite sono congiunte e, in tredici mesi di lavoro sul campo, sono state raggiunte più di tremila persone.
“L’applicazione del diritto alla salute spesso trova molti ostacoli, come la mancanza di informazioni della comunità rispetto ad accesso e modalità, di una mediazione linguistico-culturale, dei trasporti per la connessione con i servizi. Si aggiungono le difficoltà nell’anagrafica sanitaria e l’applicazione discrezionale dell’accesso a partire dagli sportelli socio-sanitari”, spiega Verona.
Da qui l’idea di intevenire su due diversi livelli: la comunità, per rafforzare la conoscenza dei diritti, e i servizi socio-sanitari, per aumentare la loro accessibilità e fruibilità attraverso la collaborazione con l’Azienda Sanitaria Locale di Foggia. In un contesto dove, durante l’alta stagione, i migranti lavoratori possono arrivare a 35-40.000 persone, di cui non più della metà sono impiegati in modo regolare, con gli irregolari provenienti soprattutto da Nigeria, Ghana, Senegal e Gambia. Principalmente si tratta di giovani adulti, ma con una componente consistenti di ragazzi tra i 18 e i 21 anni. Ci sono anche donne, molte vittima di tratta o di sfruttamento sessuale.
Contro gli insediamenti informali, il ministro dell’interno Matteo Salvini lo scorso settembre aveva parlato di sgombero.
“L’auspicio è che vi sia una responsabilità istituzionale e non si ripetano gli errori del passato, come nel marzo 2017, quando il Gran Ghetto venne sgomberato senza fornire alternative adeguate. Eccetto una piccola parte, una quota si è riversata in altri insediamenti della Capitanata, e un’altra si è reinsediata immediatamente nello stesso punto dello sgombero. Oggi dalle immagini satellitari è ancora visibile la presenza dei detriti dello sgombero, e del nuovo insediamento costruito a fianco”, spiega Verona.
“Le soluzioni sono possibili solo attraverso un’azione concertata e multidisciplinare, non emergenziale, e che metta al centro il bisogno di chi lavora, e non la semplice questione alloggiativa. Le comunità degli insediamenti più grandi sono organizzate al loro interno, hanno espresso la loro voce in più occasioni scendendo in piazza, e devono essere coinvolte nei processi di costruzione di alternative per renderle efficaci”.
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