Incontriamo Giuseppe Guzzetti nel suo studio al Centro Congressi della Fondazione Cariplo, in via Monte di Pietà a Milano. L’interno è il numero 34, come il suo anno di nascita: lo scorso 27 maggio, infatti, il banchiere filantropo ex Dc ha spento 90 candeline.
Sulla sua scrivania c’è un presepe realizzato con la legna dei barconi di migranti naufragati al largo di Lampedusa. Da buon cattolico, la solidarietà è sempre stata uno dei suoi valori cardine.
Guzzetti viene da Turate, provincia di Como, storico feudo democristiano: una terra che per certi versi ricorda la Baviera governata da sempre dall’Unione Cristiano Sociale. Dal 1979 al 1987 è stato presidente della Regione Lombardia con la Dc, dopodiché ha retto il timone di Fondazione Cariplo per quasi mezzo secolo, dal 1997 al 2019.
È sotto la sua presidenza che si è completata la cessione di Cariplo al Banco Ambroveneto: da quell’operazione nacque Banca Intesa, che nove anni dopo si sarebbe fusa con il Gruppo Sanpaolo dando vita al colosso di oggi, Intesa Sanpaolo.
Laureato in Giurisprudenza, una volta, da avvocato, difese un parroco di fronte a Roberto Calvi, presidente del Banco Ambrosiano, che non voleva concedere l’accesso a una cappella nella sua villa: il banchiere alla fine cedette, accettando di liberare la strada una volta l’anno per la festa dell’Assunta.
La carriera politica di Guzzetti inizia nel 1953, ad appena 19 anni. Diventa segretario della federazione di Como della Democrazia Cristiana, poi entra nel Consiglio regionale della Lombardia, quindi viene eletto presidente della Regione, incarico che mantiene per otto anni, e infine è senatore per due legislature a cavallo tra gli anni Ottanta e Novanta.
Nel 1985 dice di sé: «In quindici anni ho sviluppato il rilancio degli interessi della Lombardia nei rapporti nazionali e con l’Europa».
Nelle fila della Dc faceva parte della corrente di sinistra “La Base”, aperta al dialogo con i socialisti: da quell’area nascerà in seguito il Partito Popolare Italiano, che avrà tra i suoi esponenti di punta l’attuale presidente della Repubblica Sergio Mattarella e il più volte ministro Beniamino Andreatta.
Conclusa l’esperienza politica, Guzzetti entra nel vero cuore del sistema creditizio ed economico del Paese: le fondazioni bancarie, centro di importanza cruciale per la composizione degli equilibri di potere e per l’allocazione degli investimenti. Nel 1997 conquista la presidenza della Fondazione Cariplo, la più grande, ricca e potente fondazione bancaria italiana. Viene nominato su indicazione della Provincia di Como, all’epoca guidata dal leghista Armando Selva, e nonostante i veti incrociati di Umberto Bossi e Silvio Berlusconi.
E così l’ex presidente della Regione Lombardia diventa un protagonista anche della storia finanziaria italiana. E in quanto tale inizia a rappresentare un’attrattiva irresistibile per la politica, che va continuamente a bussare alla sua porta.
Alla guida di Fondazione Cariplo, svolge un ruolo fondamentale nelle fasi di aggregazioni tra istituti di credito avvenuta all’inizio degli anni Duemila. Grande amico di Giovanni Bazoli, il “papa laico” della finanza, Guzzetti porta avanti l’auto-riforma delle fondazioni senza farle scomparire dagli assetti proprietari delle banche italiane, garantendo un adeguato livello di erogazione al territorio in vista di un ruolo più attivo degli enti sul fronte del terzo settore.
Guzzetti, la sua attività alla guida della Fondazione Cariplo è stata interamente ispirata al principio dell’economia del bene comune. Ma cos’è per lei il bene comune?
«Lavorare per una società in cui chiunque si senta pienamente realizzato indipendentemente dal fatto che sia nato in una famiglia agiata o in una povera».
Da dove bisogna partire?
«Dai bambini, perché siamo noi adulti a determinare il loro futuro. In Italia abbiamo 1,3 milioni di minorenni che vivono in condizioni di povertà assoluta. Quei bambini sono condannati a finire tra i “Neet”, ossia tra coloro che non studiano né lavorano».
Un destino tristemente già scritto?
«La Fondazione Cariplo ha svolto l’anno scorso una ricerca da cui è emerso che, se un bambino parte da condizioni di svantaggio, nella sua vita futura avrà tendenzialmente meno opportunità degli altri. Purtroppo la scuola non funge più da ascensore sociale».
La Banca d’Italia ha rilevato che il 5% delle famiglie più ricche possiede circa il 46% della ricchezza netta totale, mentre il 50% più povero ha in mano meno dell’8%.
«È la dimostrazione che il vero problema dell’Italia sono le disuguaglianze: bisogna lavorare per ridurle».
Come si contrastano le disuguaglianze?
«Bisogna partire, come dicevo, dalla povertà infantile. E poi da ogni forma di disparità sociale. Dalla questione dei salari, ad esempio».
È favorevole al salario minimo legale?
«Certo, è fondamentale. Chi si oppone al salario minimo dice che bisogna agire attraverso la contrattazione collettiva, ma ci sono decine di contratti nazionali che sono scaduti e non vengono rinnovati da anni. E che quindi non sono più al passo con il costo della vita. Così la povertà si allarga: i poveri sono sempre più poveri e i ricchi sempre più ricchi. Le sembra accettabile che ci siano manager che guadagnano svariati milioni di euro all’anno mentre magari i loro dipendenti faticano ad arrivare a fine mese?».
Come si può riequilibrare il gap di stipendio tra quei manager e quei lavoratori?
«La politica deve stabilire un limite: il rapporto tra quei due stipendi non può superare un certo multiplo».
Ma i manager non lo accetterebbero mai.
«E cosa se ne fanno di tutti quei milioni? Mica possono portarseli nella tomba quando muoiono… Le cito l’esempio di Carlo Messina, amministratore delegato di Intesa Sanpaolo: tra i manager delle grandi banche, la sua remunerazione è fra le più basse. E quando realizza degli utili, alza lo stipendio ai lavoratori. Bisogna estendere il più possibile questo tipo di approccio, questa cultura. Molte aziende, per la verità, lo stanno già facendo».
Nell’aprile 2019, quando ha dato l’addio alla presidenza della Fondazione Cariplo, lei ha detto: «Il potere pubblico deve rispettare i corpi intermedi, perché quando questi sono fragili la democrazia è a rischio». Oggi vede questi pericoli in Italia?
«Direi di no. Anche perché il volontariato si autodifende ed è stato approvato il Codice del terzo settore, che all’articolo 55 parla di coprogettazione, coprogrammazione, cogestione. C’è insomma un riconoscimento di legge: adesso bisogna che gli enti locali e lo Stato lo attuino».
Uno dei progetti a cui lei è più legato è quello dell’housing socialeì. Perché?
«L’housing sociale l’ho inventato io venticinque anni fa, da presidente della Fondazione Cariplo. A Milano c’era una forte domanda di alloggi da parte di persone che per il loro reddito non riuscivano ad accedere al mercato degli affitti: studenti universitari, giovani coppie, anziani, migranti che lavorano. Secondo molti si trattava di un problema non risolvibile, ma io feci fare una ricerca dal Politecnico e venne fuori l’idea dell’edilizia sociale».
Lei cita spesso una frase di Don Milani: «Il problema degli altri è uguale al mio. Sortirne da soli è l’avarizia, sortirne tutti insieme è la politica». Che fine ha fatto oggi questo messaggio?
«Oggi lo porta avanti Papa Francesco. Guardi, io ho avuto come professore di Economia politica Francesco Vito, che già prima della guerra insegnava che l’economia deve essere messa al servizio dell’uomo. L’economia non è neutrale: prima viene l’uomo, che sulla base dei propri valori orienta le scelte politiche ed economiche dei governi».
A parte Papa Francesco, vede qualcun altro che va in questa direzione?
«Le democrazie occidentali si reggono su tre pilastri: lo Stato, il mercato, il privato sociale, cioè il volontariato. Quando il volontariato entra in crisi significa che la società non sta andando dalla parte giusta. Ma stanno accadendo alcune cose importanti positive: il mercato, che prima rispondeva solo alla logica del profitto per remunerare gli azionisti, oggi pensa anche al sociale: basta vedere l’importanza che viene data all’acronimo Esg (“Environmental, social, and corporate governance”, ossia “governance ambientale, sociale e aziendale”, ndr)».
Lei si è sempre definito federalista. Lo è anche oggi, in tempo di Autonomia differenziata?
«Continuo a pensare che uno Stato che teme le autonomie sia uno Stato fragile, ma la mia idea di federalismo non ha nulla a che vedere con quella leghista. Io vengo dalla cultura di Don Luigi Sturzo, che diceva che le diversità sono un valore, a patto che collaborino in modo tale da consentire di crescere a tutti e di ridurre le distanze».
È questo l’insegnamento più importante che le ha lasciato Sturzo?
«Assolutamente sì, ancora oggi sono un regionalista convinto. Ma con l’Autonomia differenziata rischiamo che le Regioni più “forti” vadano per conto loro. Così le disuguaglianze si allargano, non si riducono».
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