In Italia, così come in molti altri paesi, per far fronte alla pandemia sono stati ampliati, rifinanziati ed estesi gli strumenti di sostegno al reddito e all’occupazione. In particolare, è stata introdotta la possibilità di utilizzare i sistemi di integrazione salariale (CIG ordinaria, in deroga e FIS) per far fronte alla riduzione di attività dovuta alle chiusure rese necessarie dall’emergenza. Queste misure sono state prorogate nel corso del 2020 dai decreti anticrisi e dall’ultima legge di bilancio, visto il perdurare della pandemia.
Grazie a queste estensioni, secondo i dati Inps, il numero di ore di cassa integrazione autorizzate dal primo aprile 2020 al 31 gennaio 2021 è arrivato a 4.238,4 milioni, di cui 1.957,4 milioni di CIG ordinaria, 1.434,3 milioni per l’assegno ordinario dei fondi di solidarietà e 846,7 milioni di CIG in deroga. Il numero di richieste giunte è stato di 20 volte superiore rispetto a quello del 2019 e i lavoratori ai quali è stata fornita la prestazione (tramite erogazione diretta ai lavoratori o alle imprese che ne hanno fatto richiesta) sono stati, dall’inizio dell’emergenza, 7 milioni, che corrispondono attualmente a circa il 57 per cento del totale dei lavoratori dipendenti.
Il diffuso utilizzo delle misure è stato accompagnato in Italia da un blocco generale dei licenziamenti economici. Come visto in una precedente nota, anche Spagna e Grecia hanno imposto blocchi parziali dei licenziamenti. Gli altri paesi hanno invece adottato solamente misure di integrazione salariale senza vietare i licenziamenti. Questa scelta potrebbe dipendere anche dalle caratteristiche dei programmi di sostegno all’occupazione utilizzati nei diversi paesi. Che differenze ci sono tra queste misure?
La maggior parte dei paesi europei ha esteso o introdotto da zero i cosiddetti schemi di Short Time Work (STW), ovvero programmi per sovvenzionare direttamente le ore non lavorate a causa delle restrizioni. Alcuni Stati membri hanno cercato di semplificare le procedure di accesso a questi programmi. In Francia, Italia, Belgio, Norvegia, Svizzera, Lussemburgo, Austria e Spagna è ora sufficiente invocare la crisi sanitaria come “forza maggiore” per usufruire dei sostegni.
Altri paesi richiedono invece dei requisiti maggiori per accedere ai programmi, anche se in alcuni casi tali requisiti sono stati allentati. In Germania, ad esempio, da marzo 2020 è possibile accedere al sistema di integrazione salariale se l’azienda ha una riduzione dell’orario lavorativo del 10 per cento, e non più del 30 per cento come in precedenza. In Portogallo è possibile accedere solo in caso di riduzione del 40 per cento del fatturato o di interruzione della catena di produzione, mentre in Grecia solo in caso di riduzione del fatturato del 20 per cento.
Per quanto riguarda le tipologie di lavoratori ammessi, Italia, Spagna, Svizzera, Norvegia, Francia e Germania hanno ampliato i preesistenti schemi di integrazione per estenderli alle tipologie di lavoro atipico; fa eccezione l’Austria, che anche nella nuova normativa esclude i lavoratori interinali. Il nuovo sistema introdotto dalla Grecia, invece, è rivolto solo ai lavoratori a tempo pieno.
Per confrontare la generosità dei contributi, è stato preso in considerazione il caso di un individuo senza figli che percepisce un reddito medio e le cui ore lavorate vengono ridotte a zero. Applicando al salario medio l’aliquota di integrazione e i massimali previsti dalle normative nazionali è stata calcolata l’integrazione mensile e, quindi, la percentuale di salario medio effettivamente coperta.
Alcuni paesi hanno introdotto sussidi meno generosi (tramite aliquote più basse o con l’imposizione di contributi massimi erogabili meno elevati), finalizzati a sostenere lavoratori con salari inferiori. Altri paesi invece hanno adottato misure più generose, senza massimali o con massimali più elevati, per supportare il benessere generale delle famiglie, abbassando la volatilità del reddito, in modo da sostenere la domanda di beni e i consumi.
Per esempio, come si vede nella Tavola 1, in Italia e Spagna le percentuali di copertura previste dalla normativa sono rispettivamente dell’80 e 70 per cento, ma entrambi i paesi hanno posto un limite massimo, pari a 1.199 o 998 euro in Italia (per redditi superiori o inferiori a 2.159 euro) e pari a circa 940 euro per la Spagna (ovvero il 175 per cento dell’IPREM di 537,84 euro).
Per un percettore di reddito medio, ciò si traduce in una copertura effettiva pari al 41 per cento per la Spagna e al 48 per cento per l’Italia. In Svizzera, Lussemburgo, Portogallo, Norvegia e Germania sono stati previsti limiti massimi all’integrazione che, però, non limitano il contributo previsto per il percettore di reddito medio, la cui percentuale effettiva resta pari all’aliquota di integrazione prevista.
Ad esempio, in Lussemburgo il limite massimo è pari a 2,5 volte il salario minimo, cioè circa 5.505 euro; un lavoratore che percepisce un salario medio, pari a 5.487, riceve quindi un’integrazione completa dell’80 per cento, ovvero 4.390 euro.
Dal confronto dei sistemi adottati, sembra che i paesi che hanno introdotto un blocco sui licenziamenti, cioè Italia, Spagna e Grecia, abbiano anche previsto misure di integrazione salariale meno generose rispetto ai paesi che non hanno previsto alcun divieto.
Nel dettaglio, Italia e Spagna, che hanno introdotto stringenti blocchi sui licenziamenti, prevedono percentuali di copertura effettiva tra le più basse in Europa (48 e 41 per cento). In Grecia, invece, è stata prevista una integrazione più generosa di Italia e Spagna (seppur meno elevata di altri paesi europei, quali Francia, Svizzera, Lussemburgo, Portogallo e Norvegia) ed è anche stato imposto un blocco sui licenziamenti meno stringente.
Detto questo, le limitazioni ai licenziamenti potrebbero essersi rese necessarie in Italia e Spagna per i prevedibili ritardi nell’erogazione, mentre in Grecia per l’imposizione di limite massimo all’utilizzo della cassa integrazione in termini di monte ore (la riduzione dell’orario di lavoro massima è del 50 per cento).
n’altra caratteristica rilevante in termini di generosità è il costo a carico del datore di lavoro. Come mostrato in Tavola 2, in quasi tutti i principali paesi europei che hanno adottato da zero o esteso i programmi di STW il costo a carico dei datori di lavoro è nullo; tuttavia in Austria e Francia il contributo dello Stato è riconosciuto ai datori di lavoro fino a un limite massimo rispettivamente pari a 4.296 euro e 4,5 volte il salario minimo (circa 6.956 euro).
Ciò vuol dire che il costo a carico dei datori di lavoro francesi si manifesta solo per salari oltre il doppio del salario medio, mentre in Austria il datore di lavoro deve contribuire all’integrazione per salari poco superiori al salario medio. In Portogallo, invece, il datore di lavoro deve sempre contribuire per il 30 per cento dei due terzi del salario dei propri dipendenti.
La presenza di un costo a carico del datore di lavoro potrebbe incidere sulla scelta delle aziende di partecipare o meno agli schemi di integrazione salariale, visto che in quasi tutti i paesi analizzati (tranne Svizzera, Germania e Austria) non è richiesto il consenso del lavoratore che, comunque, preferirebbe il lavoro ridotto al licenziamento. Tuttavia, i dati sul tasso di utilizzo degli schemi di lavoro ridotto non confortano questa ipotesi. Portogallo, Austria e Francia sono tra i paesi che hanno maggiormente utilizzato gli schemi di integrazione salariale, nonostante la previsione di un costo a carico del datore di lavoro.
In particolare, la Francia presenta la percentuale di lavoratori che hanno aderito allo schema maggiore tra tutti i paesi, pari al 55 per cento; in Austria e Portogallo la quota è inferiore, rispettivamente 37 e 32 per cento, ma comunque elevata e simile ad altri paesi in cui il costo a carico del datore è nullo, come Belgio, Svizzera e Germania (34, 33 e 30 per cento).
Grecia e Norvegia, invece, sono i paesi con i tassi di utilizzo più bassi, pari al 2 e 9 per cento, pur avendo un costo pari a zero. Non sembra, quindi, possibile sulla base dei dati disponibili identificare una relazione tra il costo del lavoro a carico del datore, l’utilizzo delle integrazioni salariali e, dunque, la variazione dell’occupazione.
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