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    “L’inganno del lavoro”: la lezione di De Masi sulla società post-industriale

    Credit: AP

    La società industriale si basava sul produrre beni materiali. Oggi in quella post-industriale prevalgono servizi e mestieri intellettuali. Eppure continuiamo ad applicare i principi che si usavano ai tempi delle catene di montaggio. È un cortocircuito che ci ingabbia

    Di Giulio Gambino
    Pubblicato il 18 Ott. 2024 alle 16:10

    «Tenterò ora, in questa sede, di spiegare come mai, oggi, siamo costantemente tratti in inganno rispetto a come concepiamo il lavoro. L’equazione è semplice e disarmante: in Germania lavorano millequattrocento ore all’anno. E hanno il settantanove per cento di occupati. In Italia lavoriamo milleottocento ore l’anno. E abbiamo il cinquantotto per cento di occupati». 

    E quale dovrebbe essere il giusto orario settimanale?
    «Ah be’, intanto facciamo almeno come la Germania, scendiamo a trentadue ore minimo, cioè millequattrocento ore l’anno. Sarebbe già un grande risultato». 

    Però tu lavori molto più di quaranta ore a settimana, non ti ci avvicini nemmeno alle trentadue ore, no?
    «Stiamo parlando del lavoro esecutivo, non c’entra niente. Ne parlavo l’altro giorno con il segretario generale della Uil: oggi – per la prima volta – dovremmo iniziare a distinguere tra lavoro e lavoro. Noi usiamo sempre e solo una parola. Questo è l’inganno. Usiamo la parola lavoro per dire tutto. E così oggi sosteniamo che un minatore lavora, un facchino lavora, un poeta lavora, un giornalista lavora, un professore lavora. Ma sono cose profondamente diverse e andrebbero organizzate diversamente. Anche nella società post-industriale, e in quella prossima che ci avventuriamo a conoscere, dovremmo diversificare molto tra un impiego e l’altro. E cioè dire che il facchino fatica, che l’impiegato lavora e che noi, giornalisti o scrittori e professori, semplicemente ci esprimiamo. Il grande problema di essere passati in così breve tempo da una società rurale, prima, a una industriale, poi, e infine a una post- industriale oggi, ha fatto sì che la parola lavoro sia rimasta la stessa nella forma ma sia invece cambiata enormemente nella sostanza. E siamo rimasti imbrigliati nelle gabbie che hanno caratterizzato il lavoro nelle società precedenti, senza evolvere e trasformare quelle gabbie nonostante, appunto, l’impiego sia completamente mutato». 

    Davvero interessante e istruttivo.
    «Se tu stasera torni a casa e parli a tua moglie del nostro colloquio, le dirai che hai lavorato con De Masi. Ma siccome anche il minatore quando va a casa dice alla moglie “ho lavorato”, come possiamo tu e io dire che abbiamo lavorato?». 

    Corretto. E perché sono state messe insieme queste due attività, da dove nasce l’inganno?
    «Qui sta la chiave e proprio di questo parleremo nella seconda parte del nostro colloquio: dare forma e sostanza a un modello che contempli lavori che prima non esistevano e che oggi invece sono maggioritari. Quando si dice che i nostri figli faranno lavori che oggi non esistono, non è solo vero dal punto di vista dell’attività che svolgeranno, ma è anche e soprattutto vero perché la società si evolve e il modello di sviluppo, sociale ed economico, su cui si regge ha bisogno di trasformarsi. Il cortocircuito è avvenuto perché abbiamo dato per scontato che i lavori di oggi potessero basarsi ugualmente sui principi e le regole del lavoro manuale, delle fabbriche, della catena di montaggio. Anche perché il lavoro come il mio e il tuo ai tempi di Taylor (l’imprenditore statunitense Frederick Taylor, vissuto a cavallo tra XIX e XX secolo e padre della teoria “taylorista”, ndr) non lo faceva nessuno, a malapena cioè il sei per cento delle persone, mentre il novantaquattro per cento faceva l’operaio a Manchester, la città più industrializzata del mondo. Sia chiaro: non sto dicendo che il nostro lavoro è meno importante. Solo che al lavoratore della catena di montaggio puoi applicare il taylorismo. A me no. A te no. Tu puoi dire a un operaio “Vieni domani mattina alle otto e comincia a produrre bulloni”, ma non puoi dire la stessa cosa a un intellettuale. 

    Però è proprio questo, in fin dei conti, che crea il problema, no? L’impresa intellettuale, come quella editoriale, accademica eccetera, è per definizione anti-taylorista. Nel senso che il taylorismo è inapplicabile. Giusto?
    «Corretto. Qui stiamo parlando del lavoratore, dell’operaio, che fin quando c’è stata la società industriale era il lavoratore per eccellenza». 

    E nella società post-industriale? Iniziamo così a entrare nell’epoca che ci riguarda più direttamente.
    «Questo è il tema: la società industriale, abbiamo detto, è basata sulla produzione di grandi serie di beni materiali (automobili, eccetera). La società post-industriale, invece, è basata sulla produzione di beni immateriali (servizi, informazioni, simboli, valori ed estetica). Quindi è tutta un’altra cosa che si traduce in un altro modo».

    In che anno entra in vigore la società post-industriale?
    «Questo è interessante, perché c’è chi dice che entriamo nella società post-industriale con lo sbarco in Normandia. Altri dicono con la scoperta della struttura del dna. Io direi che intorno alla Seconda guerra mondiale avviene questo passaggio». 

    Be’, però è tutto fuorché immateriale l’era della Seconda guerra mondiale. O no?
    «La Seconda guerra mondiale comincia a essere fortemente immateriale, con la propaganda, la strategia; perché il conflitto non l’hanno fatto solo quelli che hanno combattuto». 

    E dopo la società post-industriale cosa capiterà?
    «Proverò a spiegarlo dopo, nella seconda parte del nostro colloquio. Anche se ovviamente non posso averne la certezza. Dovrei essere Keynes per poterti garantire che ciò che credo che avverrà, e che studio da decenni, è veramente ciò che si verificherà. Keynes, per esempio, riuscì a fare esattamente ciò che tu ora hai chiesto a me di fare: ovvero descrivere alla perfezione la società post-industriale in piena società industriale. Posso fare una previsione per il futuro, ma ci arriveremo».

    Ok, andiamo per gradi. Partiamo da Keynes e la previsione azzeccata sulla società post-industriale.
    «Ti spiego: nel 1930 Keynes tiene una conferenza bellissima a Madrid, intitolata “Prospettive economiche per i nostri nipoti”, in occasione di un incontro della Società delle Nazioni. L’occasione è data dall’invito che gli fece giungere il re di Spagna, il quale volle omaggiare trenta capi di stato con un discorso del grande economista. Keynes – tu pensa – aveva appena quarantacinque minuti di tempo per la sua conferenza su un tema a sua scelta. Considerando che i suoi interlocutori erano capi di stato, ma che i destinatari finali del suo discorso erano “i nostri nipoti”, ovvero i giovani che entreranno nel mercato del lavoro nel 2030, è straordinario considerare come quel discorso fu epocale nell’essere riuscito ad anticipare tutto quanto. Ancora oggi, è profondamente attuale. Fu una rivoluzione straordinaria: è come se adesso tu e io dovessimo provare a indovinare come sarà il mercato del lavoro nel 2130. Io credo che non riusciremmo a riempire nemmeno tre righe». 

    Ah ah.
    «Lui invece riuscì a capire e prevedere tutto. È incredibile. Questo è il pensiero di Keynes in sintesi: abbiamo avuto un enorme progresso negli ultimi decenni, è nata l’automobile, il treno (ovviamente non c’era ancora il computer né altro), ma andando di questo passo, a un certo punto della storia, la riduzione dell’orario del lavoro improvvisamente si realizzerà, liberando – è il caso di dirlo – l’uomo dalla schiavitù del tempo. Quando ciò accadrà – continua Keynes davanti ai capi di stato riuniti – ci sarà un terremoto tale che determinerà una crisi sociale di dimensione straordinaria. Così l’economista azzarda qualcosa che cento anni fa era forse impensabile: la produzione sul posto di lavoro, racconta, verrà realizzata in larga parte dalle macchine, non più dagli esseri umani, così come la ricchezza verrà prodotta dagli automatismi e sempre meno dall’uomo. A quel punto – prosegue Keynes – gli uomini non dovranno lavorare più di tanto e il problema principale sarà cosa potremo far fare agli uomini nel tempo libero». 

    Straordinario.
    «Sì. E tieni conto che all’epoca si lavorava ancora tra le otto e le dieci ore al giorno per almeno sei giorni. Un azzardo incredibile. All’epoca si moriva a sessant’anni. Ora a sessantacinque anni si va in pensione e si muore a ottanta-ottantacinque anni». 

    Come reagirono i capi di stato di fronte al discorso di Keynes?
    «Tutti rimasero colpiti e folgorati. Il discorso avvenne in meno di un’ora. L’uomo aveva già espresso, in soli quarantacinque minuti, il futuro del lavoro dei prossimi cento anni. Una cosa clamorosa. E se avesse potuto parlare altri quindici minuti, probabilmente avrebbe continuato nella sua previsione del futuro. Il fatto fu drammaticamente innovativo e al contempo, per molti, incomprensibile sul momento. Soprattutto se si considera che l’aspetto più innovativo del discorso di Keynes consisteva nell’idea che l’evoluzione del lavoro e il progresso delle macchine facevano sì che l’uomo avrebbe dovuto scollarsi del tutto dal concetto del lavoro manuale che abbiamo sempre conosciuto, concentrandosi invece per la prima volta sulla necessità di far fare all’uomo qualcosa di utile, creativo e stimolante, nel tempo che non impiega nel lavoro. Quindi meno ore di lavoro e più tempo libero. Un po’ come le mogli dei ricchi, ironizzò Keynes». 

    E quindi qual è la strada alternativa da percorrere, nella previsione di Keynes, per liberare l’uomo dall’oppressione del lavoro?
    «La strada indicata è una sola, per di più ancora oggi valida: la cultura. Nella sua accezione più generale. Solo con essa si impedisce che l’uomo, una volta liberato dalla tirannia del tempo, finisca di nuovo in catene, stretto nella morsa della droga o avvelenato dalla depressione. O – diremmo oggi – segregato in altre prigioni virtuali o digitali. Un concetto di una importanza cruciale, apparentemente semplicissimo, e davvero rivoluzionario perché – se davvero passasse e attecchisse – cambierebbe per sempre il modello di sviluppo economico e sociale che ha retto il mercato, il lavoro, l’industria e, più in generale, la nostra società. Ma forse per questo non siamo ancora pronti, sarebbe uno shock enorme».

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