«Sono arrivato in Italia nel 1996, su un gommone. Il viaggio è cominciato in Albania l’ultima sera dei miei diciassette anni. Quando ho messo piede in Puglia ero maggiorenne». Ylber Kolonjari nasce nel 1978 a Shënepremte, un paese vicino a Durazzo non troppo distante dal mare.
«Una volta terminate le scuole obbligatorie, ho lavorato per un po’ insieme alla mia famiglia, avevamo un terreno e del bestiame, poi ho deciso di partire con alcuni amici per la Grecia. Abbiamo camminato cinque giorni… Il solo pensiero mi fa rabbrividire tutt’ora. Siamo stati tre mesi, poi la polizia ci ha trovati, picchiati e rimandati indietro. Una volta tornato a casa ho capito che avrei dovuto aspettare per fare il militare, quindi ho deciso di partire per l’Italia in cerca di un futuro migliore, insieme a migliaia di albanesi».
Ylber trova subito lavoro in un maneggio per cavalli da corsa, ad Agnano, in provincia di Napoli, e ci rimane fino al 2001. «La mia vita da imprenditore comincia durante un weekend nel 1994, quando decido di andare a Parma a trovare mio fratello. L’avevo accompagnato nell’officina in cui lavorava e, non appena entrato, ero rimasto sorpreso dai macchinari e dagli strumenti meccanici che c’erano nella stanza: fin da piccolo amavo smontare e rimontare biciclette, quindi per me quello era il paradiso! Ero così emozionato che il titolare si è commosso e mi ha offerto un lavoro».
Ylber mi racconta che durante i primi mesi, i colleghi più grandi – quelli assunti dall’officina da più di dieci anni – si facevano spiegare da lui come andavano fatti certi lavori, perché era l’unico in grado di saperlo. Quando un giorno chiede al titolare uno stipendio maggiore e questo rifiuta, decide di cercarsi un altro posto di lavoro.
«Brutta esperienza», ricorda, «Era l’inizio del 2002 e la metalmeccanica era in crisi. Ho girato più di venti aziende, bussavo e chiedevo di farmi mettere in prova, senza ricevere soldi in cambio… Solo uno mi ha richiamato, il ragazzo aveva ereditato l’azienda dal nonno, ma di metalmeccanica non capiva nulla. Dopo mezza giornata di prova, sono tornato a casa con le chiavi: il lavoro era mio».
«Nel giro di un anno ho comprato un capannone insieme a mio fratello e dopo aver iniziato a collaborare con una grande azienda ne abbiamo acquistato un altro di 700 metri quadrati. Così è nata Specialinox. In meno di dieci anni abbiamo assunto una ventina di persone, tra di loro c’è un solo parmigiano, gli altri dipendenti arrivano da Marocco, Moldavia, Filippine, Santo Domingo, Albania e Tunisia, ma tra di noi parliamo in italiano». Secondo Ylber un vero imprenditore di successo al mattino saluta tutti i dipendenti, anche se qualcuno l’ha fatto arrabbiare la sera prima.
In crescita
In Italia le aziende condotte da stranieri sono una realtà strutturalmente significativa e caratterizzata da una certa vivacità, spesso anche superiore a quella delle imprese autoctone. A metà del 2021 se ne contavano 600mila: una su dieci. Alla fine del 2022 sfioravano le 650mila unità, secondo i dati del Registro delle Imprese delle Camere di Commercio.
Dagli anni Novanta ad oggi, questa componente ha infatti registrato una crescita costante – a fronte di una parallela decrescita di imprese fondate da imprenditori italiani (-12% tra il 2010 e il 2018).
Secondo il rapporto “La mappa dell’imprenditoria immigrata in Italia”, realizzato nel 2018 dal Censis e dall’Università di Roma Tre, la particolare vitalità dell’imprenditoria migrante è legata al fenomeno per cui a lasciare il proprio Paese di origine sarebbero soprattutto i soggetti più aperti e dinamici, dotati di una maggiore capacità di adattamento.
Le aziende straniere hanno infatti un impatto significativo sul territorio in cui sorgono perché hanno aspetti particolarmente validi legati al bagaglio culturale di chi le gestisce, che ne favorisce l’internazionalizzazione.
Il numero più alto di aziende con titolari non italiani si trova nel Nord e nel Centro della penisola (ma si tratta anche di regioni con il maggior numero di stranieri residenti e di territori con più imprese in generale, italiane e non), specialmente in Lombardia. Nel primo semestre del 2021 erano quasi 125mila le imprese a conduzione straniera nella regione.
Profumo di datteri
«I miei genitori hanno aperto la pasticceria all’inizio degli anni Novanta qui a Milano. I primi tempi mia mamma lavorava da casa, per clienti privati e proprietari di negozi di alimentari; solo durante la pandemia da Covid-19 abbiamo inaugurato il punto vendita». Mohamed Mourad gestisce la Pasticceria Mourad, attività di famiglia specializzata in dolci mediorientali, in particolare egiziani, turchi e libanesi. È nato a Mansoura 32 anni fa, una città egiziana situata sulla riva orientale del Nilo, è arrivato in Italia quando aveva pochi mesi.
«Mio papà si era innamorato di questo Paese durante un’estate alla fine degli anni Settanta, è stato uno dei primi stranieri ad arrivare a Milano, spesso mi racconta come le cose sembravano essere più facili e belle di adesso. Lui e mamma hanno aperto l’attività dopo aver fatto un breve corso di pasticceria in Egitto, perché avevano nostalgia di casa e volevano far conoscere agli italiani quanto fosse brava la mamma in cucina!», mi racconta ridendo.
I dipendenti della pasticceria sono una quindicina e sono tutti egiziani perché, secondo Mohamed, la preparazione dei dolci in questione è «cosa da egiziani». «Non abbiamo regole particolari, parliamo tra noi in arabo e spesso concediamo ferie più lunghe quando qualcuno deve tornare in Egitto dalla famiglia. Ci preoccupiamo di inserire nel team persone serie, che abbiano voglia di lavorare. Ci interessa molto l’aspetto umano oltre all’esperienza nel settore».
Quando si entra nella pasticceria di Corso Buenos Aires si ha la sensazione di varcare la soglia di una bottega mediorientale: l’arredamento in stile moresco, il profumo dei datteri e della vaniglia e l’accoglienza calorosa richiamano proprio quella parte di mondo, e per un attimo ci si dimentica di essere a Milano.
L’influenza del background culturale è il fondamento della pasticceria, è il motivo per il quale è stata avviata l’attività. «Se mio padre non avesse aperto il negozio, probabilmente molte persone non avrebbero mai potuto assaggiare i baklawa o i chebakia. Ma soprattutto, se mio padre non fosse egiziano, tutto questo non esisterebbe!».
Teoria dello svantaggio
Le imprese fondate e gestite da immigrati sono la dimostrazione di un percorso di crescita, di incontro e di integrazione nel territorio; sono lo specchio di un’Italia diversificata e multiculturale e dimostrano che le popolazioni straniere sono un potenziale per la contribuzione dello sviluppo nazionale.
Il Gruppo di Ricerca, Migrazione, Lavoro, Impresa (Grimli) dell’Università di Parma, composto da docenti e ricercatori, lavora sul tema della migrazione in connessione con il mondo del lavoro, con l’imprenditoria e i processi di innovazione manageriale, tecnologica, commerciale, e con i processi di sviluppo locale e coesione sociale e territoriale.
«Grimli nasce due anni fa con l’intento di analizzare i processi migratori nell’ambito economico. Si tratta di un lavoro interdisciplinare dalla cui lettura traspare il cambiamento temporale dell’imprenditore immigrato che nel corso degli anni ha superato barriere linguistiche, commerciali e sociali e ha iniziato a dialogare con l’imprenditoria autoctona. Da nucleo culturale chiuso (spesso familiare), a luogo di incontro e laboratorio di sperimentazioni innovative», commenta Alessandro Arrighetti, professore ordinario di economia industriale dell’Università di Parma e membro di Grimli.
Nel contesto italiano, in cui l’imprenditorialità immigrata è caratterizzata dalla prevalenza della microimpresa, il gruppo di ricerca ha anche lo scopo di mettere in luce le storie delle aziende più strutturate e organizzate in società di persone o di capitali, andando oltre a una lettura della realtà convenzionale e limitata, riportando esempi di eccezionalità di imprese straniere.
Dallo studio emerge anche come le condizioni di vita dei soggetti siano spesso centrali nella propensione verso l’imprenditorialità: si parla di teoria dello svantaggio per spiegare l’avviamento di attività autonome da parte dei migranti in risposta alle difficoltà di inserimento sociale, all’ottenimento di posti di lavoro poco qualificati, alla disoccupazione.
La scarsa conoscenza della lingua del Paese ospitante, un basso livello di istruzione e di qualificazione, le forme di discriminazione nell’accesso al lavoro dipendente o nell’avanzamento di carriera spiegherebbero dunque la diffusione dell’iniziativa imprenditoriale presso minoranze immigrate socialmente svantaggiate.
In quest’ottica l’imprenditorialità degli immigrati è stata vista, più che come segno di intraprendenza, ambizione, successo economico e sociale, come l’unica modalità alternativa a loro disposizione per progredire nella scala sociale. Nonostante gli anni di crisi, la pandemia o la debolezza strutturale dovuta alla maggiore vulnerabilità socio-economica dei soggetti coinvolti, i dati mostrano come il numero di nuove imprese gestite da immigrati in Italia sia in costante crescita e di come l’andamento sia in controtendenza rispetto all’imprenditoria autoctona.
L’impresa straniera è infine stata osservata come luogo in cui si consolida l’identità culturale della popolazione migrante: Pasticceria Mourad, per esempio, estende la varietà di prodotti disponibili, crea una nuova nicchia di mercato, rendendo più visibile l’esistenza di un nucleo culturale all’interno della cultura ospitante.
Aiutare gli italiani
Dall’altra parte c’è anche chi ha investito nel “brand Italia” fino ad inglobarlo, al punto da fare di un prodotto prettamente nostrano il core business della sua azienda oltre che della sua integrazione, come nel caso di Shpendi Ndreu, titolare di Lira Sas, azienda che opera sull’intero territorio nazionale nel settore alimentare, con particolare riferimento alla lavorazione delle carni, primo fra tutti il Prosciutto di Parma.
«Se penso che sono nato in un campo di internamento a Shtyllas, un paese del distretto di Fier, nel sud dell’Albania, e ora sono un affermato imprenditore che vive in Italia, beh, stento ancora a crederci. Sono nato nel 1970 e sono rimasto nel campo fino al 1991, quando ho poi deciso di salire su una nave carica di profughi, diretta verso Brindisi».
«Nascere e crescere in un campo di internamento significa portare con sé fin dalla nascita la maledizione di essere il nemico, e imparare a sopravvivere con quel peso per tutta la vita. La vita nel campo era difficile, sotto il controllo e la supervisione delle strutture di sicurezza del Partito Comunista. Il lavoro fisico era molto pesante, in condizioni economiche estremamente difficili. Mancavano molti diritti di cui godevano altri cittadini al di fuori del perimetro dei luoghi di internamento. La separazione dal resto della popolazione generava un pesante senso di isolamento e gravava pesantemente sulla psicologia degli internati: infatti molti di loro si suicidarono».
«In esilio non si poteva nemmeno sognare un’educazione, ma neppure un’occupazione diversa dai lavori agricoli, quali prosciugare paludi, aprire nuove terre e strade. Anche creare una famiglia era estremamente difficile, quasi impossibile per persone che non si trovassero nelle stesse condizioni di vita. Tutto doveva essere concordato tra le stesse famiglie internate».
Shpendi decide di fuggire dal regime dittatoriale albanese insieme a migliaia di persone che, una volta arrivate a Brindisi, vengono smistate su tutto il territorio italiano. Si ritrova in provincia di Parma e fin da subito lavora nel settore alimentare: prima in un’impresa di formaggi, poi con i prosciutti. Fonda a Langhirano Lira Sas all’inizio degli anni Duemila, in cui oggi lavorano centinaia di dipendenti provenienti da tutto il mondo.
Shpendi ricopre inoltre la carica di presidente di Cna Agroalimentare di Parma e di Cna World Albania di Parma, il cui obiettivo è quello di fornire concrete risposte agli imprenditori e ai cittadini di origine albanese che operano sul nostro territorio.
«Fin da subito l’Italia è stata accogliente nei miei riguardi, per questo oltre al mio lavoro mi interesso a iniziative di solidarietà e propongo progetti di generosità: durante l’emergenza sanitaria ho fortemente voluto collaborare e fare squadra con alcune realtà imprenditoriali associate a Cna per raccogliere prodotti alimentari e di prima necessità da donare ai più bisognosi».
«Questa settimana ho convocato una riunione con imprenditori e sindaci della provincia per cercare di supportare le imprese che hanno subito disagi in Romagna. Ho intenzione di salvare i miei colleghi imprenditori, sostituirli temporaneamente e fare in modo che non perdano il lavoro o i clienti. Se hanno il capannone allagato, possiamo portare avanti i loro lavori con costi molto bassi, quasi pari a zero. Certo, noi ci perderemo, ma in questo momento è importante restare uniti, salvare le imprese e dimenticare che si tratta della nostra concorrenza. Questo compito non spetta allo Stato e alla Protezione Civile, ma a noi imprenditori. Italiani e stranieri».