Il mito del deficit: recensione
È appena arrivata in Italia la traduzione del saggio dell’economista americana Stephanie Kelton sulla Teoria Monetaria Moderna, che più o meno suona come un Rino Gaetano d’annata: spendi, spandi (e se i soldi finiscono, stampane ancora). Si tratta di una lettura parecchio interessante perché in un anno in cui così spesso l’economia ha assunto un ruolo centrale nel dibattito pubblico, quasi mai – almeno nel nostro Paese – si è cercato di andare al fondo della questione.
Se con la pandemia sono esplose, a tutte le latitudini, criticità e contraddizioni vecchie di anni, se ci siamo resi conto solo ora che la sanità era stata privatizzata, che i rider sono i nuovi schiavi, che il sistema capitalismo pretende che spendiamo anche mentre dormiamo, nessuno ha osato dire che anche le nostre politiche economiche non se la passano tanto bene, e non certo a causa delle chiusure, come magari pensa il presidente della Confindustria di Macerata.
Il mito del deficit (Fazi Editore, 458 pagine, 20 euro) spiega ai non addetti ai lavori, utilizzando un linguaggio sufficientemente chiaro, come e perché si dovrebbe considerare superata, una volta per tutte, la teoria economica dominante per la quale lo Stato paga come paga pantalone.
A differenza di quanto ci hanno ripetuto fino alla nausea negli ultimi decenni, infatti, gli Stati che dispongono della sovranità monetaria “possono creare dal nulla tutto il denaro che vogliono” e cioè, a differenza dei comuni mortali, possono spendere più di quanto in teoria possano permettersi perché potenzialmente i loro soldi non finiranno mai.
Il libro di Kelton scardina una serie di false credenze delle quali la politica si è servita, più o meno ovunque in Occidente e soprattutto in questi anni di crisi nera, per poter abdicare al suo ruolo di decisore: “Ogni volta che si arrivava a discutere di previdenza sociale o che qualcuno nel Congresso voleva mettere più soldi nell’istruzione o nelle cure sanitarie – spiega infatti l’economista – venivano fuori grandi discussioni su come avremmo mai potuto ‘pagare’ per tutte queste cose senza far andare in deficit il bilancio dello Stato. Ma avete mai notato – domanda retoricamente – che questo non sembra mai essere un problema quando si tratta di espandere il bilancio a favore della difesa, per salvare le banche o per concedere generosi tagli delle tasse agli americani più facoltosi?”.
Anche se la lente utilizzata dall’autrice è quella degli Stati Uniti, il tasto è molto dolente anche qui in Italia: la sanità pubblica svenduta ai privati ma le banche in terapia intensiva, il costo del lavoro tre metri sotto terra ma gli F35 sempre in pista, pronti per il decollo. E così via.
Insomma Kelton riparte dalle basi: spendere o non spendere attiene sempre e solo al campo della decisione politica e mai veramente al conto economico. Ne sappiamo tutti qualcosa, anche se forse non ci sembra.
Il libro è suddiviso in otto capitoli, sei dei quali servono a smontare pezzo per pezzo i miti legati al deficit. Primo: lo Stato non è una famiglia e quindi non dovrebbe gestire il proprio bilancio allo stesso modo di una famiglia visto che, a differenza di Tizio, Caio e Sempronio, lo Stato emette il denaro che spende, produce moneta.
Secondo: se vuoi capire se il tuo Paese sta spendendo troppo, o male, devi guardare all’inflazione, e non al disavanzo pubblico. Terzo: fare deficit non significa lasciare in eredità un fardello alle generazioni future perché il debito pubblico non comporta alcun onere finanziario.
Quarto: non è vero che i debiti pubblici erodono una parte dei soldi che altrimenti verrebbero investiti in iniziative del settore privato, tutto all’opposto i deficit fiscali incrementano i risparmi e gli investimenti privati. Quinto: i deficit non rendono i paesi debitori dipendenti da altri Stati.
Sesto: quella del deficit pubblico non è una crisi reale. Le disuguaglianze crescenti, la povertà in aumento, la bolla dei debiti studenteschi, i salari fermi al palo da vent’anni, l’emergenza climatica, queste sì che sono crisi reali e che rappresentano deficit che contano e che dovrebbero contare davvero.
Le tesi del libro sono molto interessanti, soprattutto nelle parti in cui gli Stati vengono chiamati dalla Mmt ad assumersi la responsabilità della loro funzione politica e a mettere l’economia al servizio del popolo invece che alla mercé dei diavoli della finanza. Ma tutto questo non può essere vero in Italia perché, avendo rinunciato alla nostra sovranità monetaria aderendo all’Euro, ci troviamo a utilizzare oggi, a tutti gli effetti, una valuta estera.
In altre parole, a differenza degli Stati Uniti di cui parla Kelton, ma anche del Regno Unito, del Giappone, del Canada o dell’Australia, ci indebitiamo in una valuta che non stampiamo e quindi non siamo esenti dal rischio di insolvenza. L’economista si tiene alla larga dal dibattito italico sulla moneta unica (anche perché, in effetti, sarà tutta colpa del Coronavirus ma sembra un secolo che l’Italexit non tiene più banco tra i sovranisti nostrani), tuttavia afferma in maniera nemmeno troppo sibillina, che “rinunciare al potere di emissione della moneta significa, di fatto, rinunciare alla possibilità di poter perseguire un’agenda politico-economica che serva al meglio gli interessi dei cittadini”.
È chiaro insomma che per le rockstar dell’economia progressista d’Oltreoceano qualcosa debba essere cambiato, e in tempi brevi, nella zona euro, perché anche qui possa essere applicata efficacemente quella che definiscono “un’economia al servizio del popolo”.
Chiarisce Kelton: “Le nazioni che fanno parte dell’eurozona […] non possono né fissare i tassi di interesse né rinnovare il debito emettendo nuova moneta e questo li relega al rango di semplici utilizzatori di valuta”.Come qualsiasi altra famiglia, quindi, se gli Stati europei non vogliono finire sul lastrico (vi ricordate la Grecia?) non possono spendere più di quanto riusciranno a ripagare.
Dobbiamo quindi rassegnarci? Così stanno le cose e così devono andare? Nella scelta tra finanziare la sanità pubblica e imprese quotate in borsa in piena salute, non ci saranno mai abbastanza soldi per la prima, ma quelli per sostenere le seconde si continueranno a trovare?
No, nel suo libro Stephanie Kelton spiega sommariamente anche quale dovrebbe essere la strategia europea per un superamento del vecchio paradigma economico: secondo gli studiosi della Mmt, il problema cruciale dell’euro sta nell’aver reciso il legame fondamentale tra autorità monetarie e politiche “che nelle democrazie consistono in rappresentanti eletti dal popolo”.
Le conseguenze sono da tempo sotto gli occhi di tutti: “Abbiamo un’autorità monetaria molto potente priva di legittimità democratica, la Bce, e delle autorità politiche nazionali democraticamente legittimate che non hanno pressoché nessun controllo sulle leve di politica economica”.
Come colmare questo divario di rappresentanza? Per Kelton ci sono solo due modi, e in entrambi i casi l’impresa sarebbe irta di ostacoli: o si trasforma l’Unione europea in uno Stato federale, con organi eletti dai cittadini, oppure si restituisce alle singole nazioni la sovranità monetaria.
Torna alla mente Dani Rodrik, economista turco, che nel 2000 ha introdotto per primo il concetto di “trilemma politico dell’economia mondiale”, il quale suggerisce che democrazia, sovranità nazionale e globalizzazione dei flussi finanziari non possano coesistere e che occorra dunque rinunciare ad una delle tre opzioni.
Quale? Considerando, per forze di cose, irrinunciabile la struttura democratica dell’Occidente avanzato, in Europa il conflitto in atto vede scontrarsi da una parte la sovranità dei singoli Stati e dall’altra gli enti sovrannazionali non eletti che assumono decisioni di natura economica guidati solo dagli indici borsistici e dai mercati.
È difficile capire quando accadrà, ma è lampante che il paradigma economico dominante sia ad un punto di frattura epocale. Basti pensare al Recovery Fund e a come la Bce stia sfornando denaro per permettere agli Stati membri di superare la crisi innescata dalla pandemia: questa, scrive Kelton nel suo saggio, è la prova provata che la Banca centrale europea “avrebbe potuto fare lo stesso in passato per aiutare i governi a combattere la disoccupazione e altre piaghe sociali invece di insistere perché riducessero i loro livelli di deficit e di debito”.
Il mito del deficit è diventato subito un bestseller in giro per il mondo, e anche in Italia sta avendo un discreto successo (ad una settimana dall’uscita è già andato in ristampa) ma, come accade spesso nel nostro Paese, quando si parla di cose molto serie finisce che l’unica letteratura sul tema l’hanno prodotta degli autori satirici.
In questo caso, ad esempio, l’unico che in questi mesi abbia aperto vagamente una discussione sull’euro è stato Giacomo Papi nel suo ultimo romanzo tragicomico, Happydemia.
Ad un certo punto, tra gli appunti di “un anonimo imbucato al summit dei 27 dell’Unione europea”, si legge: “Dove troviamo i soldi? Tassando o stampando? E come blocchiamo l’inflazione? Ce ne freghiamo?”. Segue una vivace conversazione tra capi di Stato con il greco che infine grida “Eureka!”. Questo nome sarà infine quello scelto per la nuova moneta europea. Insomma, ha ragione Papi, ci vorrebbe qualcuno in grado di trovare una soluzione, perché il problema, per chi ha voglia di vederlo, esiste già.
Leggi anche: Non è vero che i poveri sono poveri perché hanno preso decisioni sbagliate
Leggi l'articolo originale su TPI.it