“Siamo abituati a un dibattito anche duro all’interno degli Stati, lo siamo meno su scala europea”: se n’è uscito così, il ministro degli Esteri Moavero Milanesi per provare ad appoggiare una coltre sugli urlati scomposti del governo gialloverde contro la Francia e i suoi interessi neocoloniali che favorirebbero l’immigrazione come se invece le aziende italiane in Africa (petrolifere in primis) fossero un’accolita di opere pie.
Dovremo abituarci dice Moavero. E invece no. Non ci abitueremo agli urlacci di qualche barbaro che sogna di distruggere l’Europa per manie di protagonismo e incapacità di relazioni. Non ci abitueremo, e faremo tutto quello che serve perché la rissa greve, il bullismo lessicale e la banalizzazione spiccia vengano utilizzate per aizzare le tifoserie.
Qualcuno, lassù, al governo, dovrebbe autoconvocarsi alla prossima riunione degli ultrà e riconoscere molto sinceramente che se è un atteggiamento da stadio inventarsi uno sfottò al giorno per irridere l’avversario o se conta dividere il mondo tra alleati e avversari allora i vicepremier concorrono a pieno titolo al grado di capo-tifoso oltre che di qualche ministero.
La politica trasformata in una catena di nemici (più o meno immaginari) da dare in pasto alla folla inferocita è una pratica che racimola voti ma lascia solo macerie: prima furono i terroni, poi i fannulloni statali, poi i manager troppo pagati, poi i professoroni, poi gli odiati tedeschi, poi i cenciosi, poi i poveri, poi i negri, poi le banche (tutte, indistintamente) e infine i francesi. Una sequela continua, ininterrotta, praticamente quotidiana, di nemici utili a coprire il sotto vuoto spinto di un sovranismo declamato che per ora ha provocato soltanto isolamento.
E così la storia si ripete: strillano i piccoli incendiari e poi accorrono i compiti pompieri, Conte e Moavero a ricucire con la Francia mentre Di Maio e Salvini si godono il chiasso. E allora qualcuno, da fuori, potrebbe chiedersi? Cosa potrebbe succedere di peggio? Lino Banfi è la risposta.
Sia chiaro: il problema non è Lino Banfi (simpatico nelle sue comparaste che hanno accompagnato le nostre infanzie) e non è nemmeno la nomina all’Unesco che Di Maio e compagnia cantante hanno deciso di comunicare come fiore all’occhiello di un’alta operazione culturale.
Il tema vero è che Lino Banfi (oggi lui ma domani sarò qualcun altro) è l’anabolizzante che serve per banalizzare il dibattito, buttarla in caciara e trascinare ancora per qualche giorno la nebbia su aspetti ben più importanti.
Le grasse risate che hanno accolto le parole dell’attore, “commissioni fatte con persone plurilaureate” pronunciato con il disprezzo per i professoroni e per la cultura e per il sapere, sono la fotografia di una continua ricerca di livellamento verso il basso.
Per capirsi: il problema non è tanto Lino Banfi all’Unesco quanto l’esibito disprezzi verso il sapere. A forza di voler essere “uno di noi” il governo gialloverde si è adagiato su un modello di cittadino che fa della propria ignoranza un modello culturale da sfoggiare con fierezza, uno di quelli che ritiene le mediazioni, gli approfondimenti, lo studio, la meritocrazia e la realizzazione professionale qualcosa di cui vergognarsi.
L’università della vita misurata con i like sui social e gli spettatori delle dirette Facebook è il metro di giudizio di una politica basata sugli algoritmi compiacenti di un TripAdvisor qualsiasi in cui andare in trend è sintomo di una giornata sostanzialmente positiva. Ciò che prima era la politica piazzista e porta a porta di un certo berlusconismo ora è diventata una vetrina di isterismi virali che riempiono il dibattito e annullano l’analisi e la normale discussione.
Lino Banfi è perfetto, se ci pensate: si adatta ad ogni meme, sta simpaticissimo dentro un tweet, può essere derubricato a simpatico scherzo e soprattutto è molto più interessante di un approfondimento sulle bufale internazionali che ci propinano ogni giorno.
E allora, caro ministro Moavero, l’augurio è che no, non ci abitueremo a questo lurido giochetto da mercati che sputano sulla merce pur di vendere qualche pezzo in più. La politica, prima di Salvini e Di Maio e lo sarà anche dopo, è un’arte terribilmente seria che ha bisogno di gente terribilmente seria, profondamente preparata e capace di analizzare e dialogare. Non ci abituiamo, no.