Fca Renault fusione
Avete sentito qualche ministro o qualche leader di governo, o di opposizione dire una parola sulla fusione più importante del decennio? Macché, silenzio di tomba. Abbiamo scritto chilometri di articoli sulla Tav, ma stranamente detto poco o nulla sulla principale azienda nata in Italia nel secolo Novecento.
Eppure la Fiat è così importante, per l’Italia, che se un singolo modello prodotto a Melfi va bene o male – per dire – si muove mezzo punto di Pil. Tuttavia, malgrado questo, negli ultimi anni abbiamo registrato una strana costante: tutti i governi che si sono succeduti, di ogni segno e colore – compreso questo – si sono sostanzialmente disinteressati (della Fiat prima, e del Fca poi) lasciando mano libera alla proprietà, forse in nome di una malintesa idea della libertà di mercato.
Una concezione molto strana, se è vero che Angela Merkel e i Lander decisero sul futuro della Opel quando Sergio Marchionne la voleva comprare (e come è noto risposero “nein”) mentre lo stato francese oggi è addirittura l’azionista che decide strategicamente cosa fare della Reanault grazie ad un pacchetto del 15% (con cui però controllava il 20% in nome di un ben studiato patto di sindacatura). Il motivo è semplice e lo ha detto un confindustriale avveduto come Alberto Bombassei: “Nel mondo dell’auto si decide il futuro di un milione di posti di lavoro in Europa, che potrebbero andare persino”. E lo ha detto Bombassei, non Maurizio Landini.
È per questo che la fusione “alla pari” tra Fca e Renault è diventata una cartina di tornasole che rende evidente in modo lampante questa asimmetria e questa debolezza. Davanti all’altare dove si celebra questa cerimonia tra due famiglie decadute ma ancora ricche, a un lato c’è “l’Etat” francese, con la sua visione strategica e il suo peso. Dall’altro una famiglia di eredi che sta spargendo dividendi tra gli azionisti e un amministratore delegato che parla americano. Una famiglia che per sua fortuna gode di ottima stampa (se non altro perché in Italia due giornali lì possiede, e questo come è noto aiuta). In Italia i commentatori scrivono che si tratta di una alleanza strategica che potrebbe far crescere il gruppo (vero).
E nel matrimonio con Renault uno degli effetti positivi è che La società francese, al contrario di quella italiana può portare in dote dei brevetti e dei modelli (a partire da quelli elettrici, o dall’erede della Punto) che Fca non ha sviluppato perché non aveva soldi da investire per farlo. Ma questo matrimonio mette anche insieme due famiglie che hanno entrambe un problema/ eccesso di capacità produttiva in Europa, e radicamento in un mercato (sempre quello europeo) in contrazione. Siamo sicuri che si deciderà “alla pari”, nella nuova famiglia, quando si dovrà deliberare sulla sopravvivenza di una regione o di un’altra? Gli Elkann, o quello che rimane di loro, avranno la stessa forza contrattuale di un primo ministro francese o addirittura di un presidente francese?
Dire “gli stabilimenti resteranno aperti”, per esempio, non significa dire “sarà difeso il lavoro”. Perché Il problema di Mirafiori è che la fabbrica ovviamente non ha mai chiuso, ma che – malgrado questo – non fa più nuovi modelli di impatto sul mercato, e produce principalmente un modello: la cassa integrazione. Ecco perché in un momento di svolta così delicato, se in questo paese ci fosse una classe dirigente, bisognerebbe chiedere delle garanzie, e forse persino imporle, alla famiglia Agnelli.
Se ti sposi sulla Francia al matrimonio non ci vai da solo. Se ti stai giocando il futuro dell’Italia, su auell’altare, non puoi pensare solo al peso dei dividendi. Dei pensare al futuro dell’Italia. Cosa che i francesi, quando si tratta del loro paese fanno benissimo, e che invece – evidentemente – non rientra nei compiti di una famiglia con 250 eredi, che legittimamente si preoccupa dei suoi dividendi.
Leggi l'articolo originale su TPI.it