Il fallimento dell’Ilva è lo specchio di un Sud che muore tra clientelismo e mala politica
“Guardo dal terrazzo della casa dove sono cresciuto le ciminiere dell’Ilva che si stagliano davanti a me, le gru immobili del porto, le navi ormeggiate in attesa di scaricare il minerale o caricare i laminati, il golfo che si allarga all’orizzonte, le isole di San Pietro e di San Paolo, e poi ancora la città vecchia, il traffico incolonnato della sera, i palazzoni che si susseguono quartiere dopo quartiere spesso identici tra loro, l’inizio della campagna e la strada che corre dritta verso la collina di Martina Franca”: si chiudeva così “Fumo sulla città”, il libro che Alessandro Leogrande – giornalista prematuramente scomparso – dedicava alla sua città. Taranto.
Una delle menti più lucide dei nostri tempi riusciva a raccontare la frustrazione della sua generazione verso una città simbolo di un’Italia che cercava nell’industrializzazione del Sud l’occasione per il suo riscatto e nella privatizzazione delle industrie l’ancora di salvezza contro sprechi e corruzione pubblica.
Leogrande descrive la storia della città dagli anni Cinquanta al primo decennio del nuovo secolo con il passaggio di consegne dalla Marina all’Italsider-Ilva, con l’incremento della disoccupazione e dello spopolamento del tessuto urbano, con il reclutamento di operai e impiegati nella palazzina Lafcon, con la desertificazione sociale della città vecchia e dei nuovi quartieri (Paolo VI, Salinella), terreno di conquista delle bande criminali e del nuovo ceto politico (la famiglia Modeo e Cito).
La città nutriva speranze di una crescita felice ma le ha viste subito morire con la spaventosa quantità di incidenti sul lavoro, di tumori diffusi come epidemie, di malattie polmonari, di diossina inalata da persone e animali e un intero quartiere, i Tamburi, sommerso di polveri cancerogene.
Una vicenda drammatica e molto seria con un punto di ricaduta ancora più serio, che oggi tocca il picco con l’ennesima aspettativa tradita – in questo caso da Ancelor Mittal – che espone il declino del Sud e del Paese anche agli occhi internazionali.
Perché il Sud è rimasto indietro. Ieri il rapporto Svimez ha raccontato un’emorragia di risorse umane dal Sud, oltre che l’assenza di politiche industriali.
Oltre 2 milioni, ossia quasi la metà dei giovani sotto i 30 anni che se ne sono andati a partire dall’inizio di questo secolo, di cui un quinto laureati.
C’è chi dice che difficilmente ci saranno di nuovo soldi pubblici su Ancelor Mittal e in effetti c’è da considerare un danno reputazionale nei confronti del Sud e dell’Italia intera oggi come luogo di investimenti: il mancato rispetto degli accordi, il balletto che è stato fatto sulla questione dello scudo penale nei confronti della dirigenza di Ancelor Mittal nel caso di reati commessi da dirigenze precedenti compromettono l’immagine di un intero Paese e l’immagine non è una questione di forma. Difficile immaginare un gruppo privato che voglia tornare sul territorio.
Bisogna guardare la vicenda dell’ex Ilva anche e proprio alla luce dei dati Svimez usciti ieri, ma anche dal punto di vista dell’investimento infrastrutturale.
È giusto collocare questa storia dentro una storia più grande. Ricordiamo che la scelta di questo polo siderurgico era sbagliata fin dall’inizio, fin dagli anni 50 il management Iri era contrario, fu il governo Fanfani a volerlo fare, inaugurando una politica di industrializzazione dall’alto, clientelare e incurante dell’ambiente.
La tormentata storia dell’Ilva racconta una parabola che da più di 50 anni trascina assieme una fabbrica e una città nell’evoluzione della siderurgia italiana e di un Sud alla perenne ricerca di sé stesso.
La storia dell’Ilva va inserita nell’ambito di una strategia complessiva per il Sud, ma contro il Sud in realtà; dove i 5 Stelle arrivano per ultimi a peggiorare le cose.
Un fallimento trasversale che non si può certo imputare a una sola classe politica oggi al governo, o a un’altra. Nessuno è esente da critiche perché è un fallimento di più lungo periodo.
Quando l’Ilva fu costruita, senza alcun rispetto per i vincoli ambientali, in realtà in altre parti d’Italia quei vincoli ambientali e quelle preoccupazioni, c’erano.
L’ex Ilva rappresenta in modo plastico i risultati delle opere realizzate con la complicità delle classi dirigenti locali, che hanno commesso errori molto gravi annessi a quelli degli industriali italiani e del governo di allora che impose una scelta dettata da logiche molto lontane rispetto agli interessi reali della popolazione.
Come ben affermava Paolo Bricco sul Sole 24 Ore già lo scorso giugno, l’ombra di una nuova Bagnoli che si allunga su tutta Taranto era ( e purtroppo è) ben visibile. “Senza protezione legale, il 6 settembre l’Ilva chiuderà. La politica, anche stavolta, ha realizzato la sua vocazione distruttrice. Geert Van Poelvoorde, amministratore delegato di Arcelor Mittal Europa, è stato chiaro. Ed è stato prevedibile”.
Ora il Sud trema in attesa che quella previsione possa realizzarsi. Ancora.
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