Ex Ilva: il rischio chiusura e l’industria italiana dell’acciaio
La chiusura dell’ex Ilva di Taranto – ipotesi concreta, dopo il ritiro da parte di Arcelor Mittal – infliggerebbe un durissimo colpo all’economia italiana. Non solo per via delle 10.700 persone che di colpo si ritroverebbero senza un lavoro, ma anche perché metterebbe in ginocchio, forse definitivamente, l’industria nazionale dell’acciaio, una delle più importanti del mondo.
La fabbrica tarantina negli ultimi anni ha fatto parlare di sé principalmente come il caso più drammatico e complesso del conflitto tra salute pubblica e occupazione. Se, da un lato, rappresenta da oltre mezzo secolo la principale opportunità lavorativa nella zona, dall’altro produce un inquinamento letale per la popolazione residente (la magistratura ha calcolato 11.500 morti tra il 2004 e il 2010). La chiusura, dunque, secondo alcuni, sarebbe una buona notizia, perché metterebbe fine a una strage.
Il tema, come detto, è di grande complessità. Tuttavia nel ragionare sulle prospettive che si affacciano non si può non tener conto dell’importanza che l’ex Ilva riveste per l’economia complessiva dell’Italia.
L’industria dell’acciaio italiana è la seconda più grande d’Europa (dopo la Germania) e la numero 10 a livello mondiale. Nel 2018 ha fatturato 42,5 miliardi di euro, un volume pari a circa il 2,5 per cento del Pil nazionale (dati Federacciai). A Taranto si mette a segno in un solo stabilimento circa un quinto della produzione italiana d’acciaio (nel 2018: 5 milioni di tonnellate su 24,5 milioni complessivi).
In Italia la domanda di acciaio, sebbene in calo, è molto forte e proviene soprattutto dal settore delle meccanica (anche qui siamo ai vertici insieme alla Germania). Se l’ex Ilva chiudesse, le imprese che hanno bisogno di questo materiale sarebbero costrette ad aumentare le importazioni dall’estero.
Ex Ilva: quanto costa all’Italia la chiusura
Secondo l’ultimo Rapporto Svimez, l’impatto annuo sul Pil nazionale della chiusura dello stabilimento “è stimato, considerando gli effetti diretti, indiretti e indotti, in 3,5 miliardi di euro, pari allo 0,2 per cento del Pil italiano”. Limitando il rapporto al Pil del Mezzogiorno “si sale allo 0,7 per cento”.
Secondo un calcolo riportato da Il Sole 24 Ore, “nei sette anni perduti dell’Ilva, dal sequestro del 2012 fino alla lettera di recesso da parte di Arcelor Mittal, sono andati in fumo 23 miliardi di euro di Pil, l’1,35 per cento cumulato della ricchezza nazionale”.
La crisi dell’acciaio
Arcelor Mittal, multinazionale franco-indiana, è il primo produttore d’acciaio al mondo: nel 2018 ha messo sul mercato 96,42 milioni di tonnellate. Tuttavia nello stesso anno ha perso in Borsa circa il 18 per cento del proprio valore. Questo perché l’industria dell’acciaio vive una fase di profonda crisi a livello globale e in particolare europeo.
Le ragioni di questa crisi sono molteplici: le oscillazioni dei prezzi degli idrocarburi (necessari per la produzione), la guerra dei dazi lungo l’asse Usa-Cina-Ue, la crisi dell’aumotive (da cui proviene gran parte della domanda) e – per i produttori europei – la concorrenza sui prezzi di Cina, Russia e Turchia.
Nei primi nove mesi del 2019 la produzione europea di acciaio ha scontato un -2,8 per cento rispetto allo stesso periodo del 2018, a fronte del -7,2 degli Stati Uniti, del -0,9 della Russia e del +8,4 della Cina.
Arcelor Mittal taglia e accusa l’Ue
Nel maggio 2019 Arcelor Mittal ha annunciato un taglio della produzione in Europa pari a 3 milioni di tonnellate. Sono state chiuse fabbriche in Polonia e sono state ridimensionate quelle nelle Asturie, regione spagnola ricca di minerali.
La multinazionale ha parlato di “decisione sofferta, ma necessaria, dovuta alla combinazione tra l’indebolimento della domanda, l’aumento delle importazioni, associati a un’insufficiente protezione commerciale della Ue, elevati costi energetici e l’aumento dei costi della CO2”.
Arcelor Mittal accusa la Commissione europea di non aver fatto abbastanza per tutelare l’industria dell’acciaio
“Nonostante l’introduzione nel febbraio 2019 delle tariffe di salvaguardia permanenti nella Ue, si è registrato un costante aumento delle importazioni di prodotti piani in Europa”, si legge in una nota della multinazionale. “Nel sistema di scambio di quote di emissioni della Ue (Ets), solo l’acciaio prodotto in Europa è soggetto a una tassa sulla CO2”.
La crisi dell’acciaio in Italia
In Italia, oltre alle vicende dell’ex Ilva, la crisi dell’acciaio è rappresentata dal caso della Arvedi, che a Cremona produce 3,4 milioni di tonnellate all’anno: poche settimane fa l’azienda ha annunciato un taglio della produzione programmata per novembre e dicembre del 70 per cento.
La produzione nazionale negli ultimi anni ha subito forti oscillazioni: 25,7 milioni di tonnellate nel 2010, 28,7 milioni nel 2011, 22 milioni nel 2015 e poi 24,5 nel 2018. Nei primi nove mesi del 2019 si è registrato un calo dei volumi prodotti del 3,9 per cento rispetto allo stesso periodo del 2018 (in Germania -4,4, in Francia -2,1, in Polonia -8,4).
Complessivamente il fatturato dell’industria dell’acciaio italiana nel 2018 – pari a 42,5 miliardi di euro – è aumentato dell’8 per cento rispetto all’anno precedente, ma è ancora ben al di sotto del livello di picco del dopo-crisi, registrato nel 2011, pari a 47 miliardi di euro.
La crisi a livello nazionale ed europeo sta facendo aumentare di molto le importazioni. Come si legge nell’ultima relazione di Federacciai, “nel 2018 le importazioni totali di prodotti siderurgici hanno segnato un nuovo massimo storico dal 2009, confermando il trend in crescita in corso dal 2012”.
In particolare, sono state importate 21,1 milioni di tonnellate di acciaio (+5 per cento rispetto al 2017) e ne sono sono state esportate 17,9 milioni (dato stabile rispetto all’anno precedente). Se venissero meno i circa 5 milioni di tonnellate prodotti dall’ex Ilva lo squilibrio tra import ed export aumenterebbe da 3 a 8 milioni di tonnellate. Più del doppio.