Luca Bianchi, direttore dello Svimez, dal vostro ultimo rapporto emerge un paradosso: tra 2021 e 2022 il Pil e l’occupazione nel Mezzogiorno crescono a un ritmo pari a quello del Nord, ma allo stesso tempo al Sud aumenta anche la povertà. Com’è possibile?
«La crescita, soprattutto al Sud, si è concentrata in settori a basso valore aggiunto come le costruzioni e i servizi del comparto turismo, mentre c’è stato un basso contributo da parte dell’industria. L’occupazione, così, è aumentata prevalentemente in settori caratterizzati da bassi salari e da una forte precarietà del mercato del lavoro. In questo quadro, a cui va aggiunta anche un’inflazione crescente, spesso il reddito di lavoro non consente l’uscita dalla povertà».
Quanto ha pesato l’inflazione?
«Nel Mezzogiorno gli effetti dell’inflazione sono stati più intensi. Non perché i prezzi, lì, siano cresciuti di più, ma perché questo tipo di inflazione, concentrata su energia e beni alimentari, morde di più sulle famiglie a basso reddito che destinano gran parte del proprio reddito per pagare le bollette o per acquistare beni alimentari».
Che impatto sta avendo e avrà il superamento del Reddito di cittadinanza?
«La nostra indagine si ferma 2022, quando il Reddito di cittadinanza era ancora in vigore. Per il 2023 ci aspettiamo un ulteriore incremento della povertà proprio per effetto della riforma del Rdc. Noi in passato abbiamo evidenziato aspetti da correggere in quella misura, ma non possiamo dimenticare che il Reddito ha avuto un impatto significativo nel contenere la povertà soprattutto durante la pandemia».
E intanto i giovani laureati scappano dal Sud…
«Qui il fatto nuovo non è tanto il flusso dell’emigrazione, che è sostanzialmente stabile, ma è che la quota dei laureati rispetto ai giovani che se ne vanno aumenta: siamo passati da una media del 30% negli ultimi anni al 50%. È un’emigrazione stabile nei numeri ma sempre più di qualità. E questo preoccupa».
Perché da un secolo ormai il Mezzogiorno viaggi a una velocità più bassa?
«Le motivazioni sono storiche e consolidate negli anni. Io credo che per capire il Mezzogiorno si debba superare la teoria delle due Italie. I dati ci dicono che il Sud non è un luogo diverso dal resto del Paese: è semmai il luogo in cui alcuni problemi di carattere nazionale assumono una dimensione maggiore. Anche al Nord, ad esempio, c’è un tema di fuga di cervelli. La storia ci dimostra che Sud e Nord non vanno mai in controtendenza: tendenzialmente vanno nella stessa direzione, solo che spesso il Sud cala di più nelle crisi e cresce di meno quando l’economia va bene».
Perché?
«Perché è mancata una politica nazionale che guardasse al Sud. Bisognerebbe superare le politiche specifiche per il Sud, come se si trattasse di un alto Paese, e aumentare l’intensità degli interventi nel Mezzogiorno».
Voi dello Svimez rimarcate come il Pnrr sia vitale per agganciare la ripresa nei prossimi anni. A che punto siamo con il Piano al Sud?
«Siamo in una fase difficile. Soprattutto si conferma una minore capacità attuativa da parte delle amministrazioni locali del Mezzogiorno: siamo intorno a poco più del 30% delle risorse messe a bando nel Sud contro circa il 50% nel Centro-Nord. Ma questo non è un problema genetico meridionale: è un problema di difficoltà attuative che riguardano tutto il Paese a cui si è aggiunto, in particolare nel Sud, un processo di indebolimento della Pubblica Amministrazione che è andato avanti per circa vent’anni e che ha ridotto e de-qualificato il personale. Inoltre c’è stato un difetto di fondo all’inizio nell’impostazione del Pnrr: il meccanismo dei bandi competitivi fra amministrazioni – cioè pensare che bastasse mettere i soldi a bando perché i Comuni partecipassero e spendessero – è stato un errore. Le aree in cui c’era più bisogno di investimento sono anche quelle con minore qualità amministrativa».
Voi lamentate anche come nel Pnrr manchi una visione d’insieme.
«Si è visto che in Italia non si faceva strategia da anni. Il tema più eclatante è la politica industriale: manca nel Pnrr un disegno di politica industriale che sappia cogliere le enormi opportunità che esistono per il Paese. Abbiamo schiacciato il Piano su strumenti automatici, come i crediti d’imposta, che aiutano le imprese dove già ci sono ma non creano nuova offerta e non permettono di cogliere nuove opportunità».
Perché il Sud è così indietro rispetto al Nord in termini di sviluppo industriale?
«Da un lato la politica nazionale non ha colmato i divari in termini di condizioni di contesto: infrastrutture, energia… Dall’altro le classi dirigenti meridionali hanno attuato politiche di distribuzione delle risorse all’insegna dell’“un po’ per uno” senza focalizzare gli interventi. Oggi la politica industriale sta riacquistando centralità in Europa, negli Stati Uniti, in Cina: favorire la nascita di impianti in settori industriali strategici potrebbe aprire una nuova stagione per il Mezzogiorno. Ma bisogna avere il coraggio e l’intelligenza di farlo».
E lo vede, oggi, questo coraggio?
«Parlo di coraggio proprio perché non lo vedo. Si parla molto di centralizzazione delle politiche, ma il tema non è se le politiche debbano essere fatte a livello centrale o locale: il problema è la responsabilità di scelta. Scegliere dove mettere i soli e non redistribuirli un po’ per uno. Vedo poco coraggio, ma non solo nell’ultima fase: in tutti i governi che si sono succeduti negli ultimi anni».
Durante i quali la politica industriale è stata, di fatto, appaltata alle multinazionali.
«Sì, c’è stata una teorizzazione ideologica molto forte anche nel nostro Paese per cui bisognava da un lato mettere l’acqua dove il cavallo beve e dall’altro lasciare che fossero automaticamente i meccanismi di mercato a orientare tutto. Ma mi sembra che l’orientamento internazionale sia quello di un nuovo protagonismo del settore pubblico».
Quali sono le filiere con più potenzialità al Sud?
«Intanto chiariamo che il Sud non è un deserto industriale. Nonostante il processo di indebolimento dell’industria, alcuni pezzi di alcune filiere strategiche italiane sono fortemente collocate nel Mezzogiorno: oltre il 30% della filiera agroalimentare, il 26% della filiera dell’energia, il 25% della farmaceutica… Non sono quelle eccellenze di cui si è molto parlato negli ultimi anni: non sono, cioè, imprese slegate fra loro, ma pezzi di filiere strategiche. È su quelle che bisogna puntare, investire, costruire nuove politiche industriali. Anche per recuperare il concetto di una politica per il Sud utile al rafforzamento del sistema produttiva nazionale ed europeo».
Il Governo punta sul Piano Mattei. Ma lei ha capito di cosa si tratta?
«Non si ha minimamente contezza di cosa sia. Non solo: non mi sembra che la politica nazionale stia dando seguito all’opzione mediterranea, che è poi il tema centrale attorno a cui dovrebbe girare il piano Mattei. Mi riferisco al tema dei porti, dei grandi collegamenti infrastrutturali, della logistica, su cui non notiamo passi avanti».
Favorevole o contrario al Ponte sullo Stretto?
«Uscirei da questa impostazione ideologica tra pro e contro. Io lo vedo come un lotto della Palermo-Berlino: è un’opera utile se collocata all’interno di un grande piano infrastrutturale. Non ne farei la panacea di tutti i mali del Mezzogiorno ma è una grande opera che il Paese, dal punto di vista finanziario, si può permettere di realizzare».
E l’Autonomia differenziata che impatto può avere sul Mezzogiorno?
«È un errore strategico, perché porta a una frammentazione delle politiche pubbliche. Indebolirebbe il Nord nella sua capacità competitiva e sancirebbe la rinuncia dell’obiettivo di ridurre il divario di cittadinanza tra le varie aree del Paese».
È fiducioso sulla possibilità che il Sud possa finalmente rilanciarsi?
«Sì. I processi della globalizzazione stanno cambiando, si parla di accorciamento delle filiere: in questo contesto ri-assumono grande centralità le filiere strategiche europee, all’interno delle quali il Sud può partecipare. Se la politica non coglie questa opportunità, non andrà male solo il Sud: sarà un indebolimento complessivo del Paese.