Per quanto attesa, risaputa, quasi cercata dagli attori economici e dai teorici del monetarismo, comunemente definiti “falchi”, l’aumento del costo del denaro europeo che già in Luglio aveva registrato un aumento dello 0,5% accompagnato dalle dichiarazioni di azzeramento del Quantitative Easing, ovvero l’acquisto periodico di quantità di titoli di Stato (il debito) da parte della Banca Centrale Europea (BCE), si è fatta ancora più intensa con un ulteriore aumento dei tassi dello 0,75%. La decisione ricalca le scelte di Jerome Powell, Presidente della Federal Reserve (FED) americana, di aumentare a fine Luglio per una seconda volta – l’aveva già iniziato a fare nel gennaio di quest’anno – i tassi d’interesse sul dollaro, questa volta di uno 0,75% arrivando a un tasso complessivo sul dollaro del 2,25% cosa accaduta l’ultima volta nel 1994. Il segnale lanciato dalla FED crea un clima di estrema preoccupazione su una potenziale crisi del dollaro e sulla probabile recessione degli Stati Uniti, visto che lo stesso Powell che ha recentemente indicato ulteriori rialzi entro fino anno fino al 4%, si appresta il 20 e il 21 Settembre ad un ennesimo rialzo di un ulteriore 0,75%.
Ma concentriamoci sulla UE. Al di là delle stesse dichiarazioni di Christine Lagarde: “Abbiamo fatto errori e come numero uno della Bce me ne prendo la colpa”, la sensazione – ovviamente percepita dai mercati – è che la Presidente della BCE, già Presidente del Fondo Monetario Internazionale, confermi un forte momento di incertezza e una insicurezza nelle decisioni da assumere, mettendo in atto scelte di governance esattamente di segno opposto rispetto al “Whatever it takes”, lanciato proprio da Draghi e prefigurando di fatto un ritorno all’austerity. L’annuncio del Transmission Protection Instrument” (Tpi), definito scudo anti-spread, risulta uno strumento non in grado di dare eccessiva tranquillità ai mercati, visto che a quanto si apprende, sarà uno strumento molto difficile da ottenere, e che porta con se diversi vincoli restrittivi molto simili a quelli già visti nel periodo della crisi dei debiti sovrani. Ad esempio Il paese interessato dallo “scudo” non dovrà essere sottoposto a una procedura per disavanzo eccessivo, né potrà essere soggetto ad una procedura per squilibri macroeconomici, il debito pubblico del paese dovrà rispondere ai termini di sostenibilità, secondo una valutazione fatta dalla Bce stessa, insieme alla Commissione europea, al Meccanismo Europeo di Stabilità (Mes) e al Fmi. Tutto insomma sembra ricalcare il già visto negli anni peggiori dell’austerity europea e il dubbio è che nonostante l’altra frase espressa oggi dalla Lagarde: “Abbiamo capito le cause, e vi posso assicurare che lo staff aggiorna costantemente, integra quello che finora non era stato preso in considerazione”, le vere cause dell’aumento dell’inflazione che era stato valutato come “temporaneo” dalla BCE non “vogliono” o non “possono” essere comprese.
Andiamo per ordine ripercorrendo come si è arrivati a questo punto: ricorderanno tutti che intorno al 2010, dopo la crisi dei mutui Subprime statunitensi, un sistema bancario mondiale quasi in default, fu salvato solo dallo stato federale con emissione senza precedenti di liquidità della FED e l’acquisto in massa dei i titoli tossici emessi dalle grandi banche d’affari. Il risultato di quella grande architettura finanziaria passata sotto il nome di “cartolarizzazione del debito” fu assunto dalla dottrina finanziaria “deregulation” di Alan Greenspan e Bill Clinton, ovvero quella teoria fieramente americana, per cui nessun freno, né regola, dovevano essere imposti all’economia e alla finanza anche a costo di creare un Far West finanziario. L’epilogo fu che le banche dovettero essere salvate da interventi pubblici. La crisi del debito fu trasferita dall’America poi all’Europa, colpendo nel vecchio continente i debiti sovrani. Si iniziò dalla Spagna, vista la forte esposizione che il paese aveva avuto nel primo decennio del 2000 sulla speculazione immobiliare, per poi passare all’Italia, alla Grecia, al Portogallo. Per l’occasione fu anche coniato l’acronimo PIIGS ovvero Portogallo, Italia, Irlanda, Grecia, Spagna, e il concetto di Europa a due velocità, con i Paesi del sud e in generale del Mediterraneo che, potenzialmente a rischio default, visto il rapporto molto alto tra debito e PIL, avrebbero avuto un declassamento all’interno della UE.
Per evitarne il fallimento si richiese a tali stati “sovrani” – si tenga in mente il termine, perché da lì nascerà poi il fenomeno del sovranismo – di fare grandi riforme, tagli al welfare e svendita di asset pubblici. A capo della BCE c’era Jean Claude Trichet; la stessa Lagarde – tra le grandi fautrici delle politiche di austerity – era Presidente del Fondo Monetario Internazionale e al governo in Italia c’era la coppia Berlusconi-Tremonti, non sempre allineata con le disposizioni della UE e piuttosto restia ad applicare le richieste che venivano espresse dall’allora prima Ministra Merkel e dal suo teorico e ministro dell’economia Shauble. Le richieste erano fatte per rispettare il patto di stabilità ovvero un complesso di regole, risalenti al 1997, con il quale l’Europa si dava dei vincoli sulla gestione economica nei quali rientrare rigidamente. L’atteggiamento di Berlusconi verso tali vincoli, elusivo e spesso sfrontato, irritò moltissimo le Cancellerie europee e i vertici della BCE. Dall’estate del 2011 e fino al novembre dello stesso anno si scatenò una tempesta perfetta sul piano finanziario in Italia, con lo spread che in pochi mesi arrivò a superare i 500 pt base (in questi giorni è arrivato a 230) e con le grandi testate giornalistiche che invocarono di “fare in fretta”. Il governo dovette dimettersi, arrivò l’antidoto Monti e Fornero, il taglio delle pensioni e tutto quello che già sappiamo. Gran parte di ciò fu capitalizzato elettoralmente molti anni dopo dalla Lega di Salvini e dal M5S, spesso con slogan anti-europeisti e successivamente dalla stessa Meloni. In Grecia andò molto peggio. Ricorderete Tsipras, Varufakis e il referendum per uscire dall’Euro: furono anni di grande instabilità, caratterizzati dalla Troika (Ue-Bce-Fmi), che in genere esprimeva il suo volto più duro proprio con Christine Lagarde. Sono gli stessi anni in cui l’Ucraina si rivolse alla Troika per avviare la procedura d’ingresso nell’Unione Europea. Il Presidente Yanushenko, poi deposto dalla rivoluzione di Euro Maidan – che molti definirono colpo di stato – dichiarò che le richieste espresse dal FMI all’Ucraina per poter aver i requisiti di ingresso in Europa, erano talmente onerose e devastanti che avrebbero messo in ginocchio il Paese e, pertanto, decise di chiudere le trattative per l’ingresso in EU rivolgendosi alla Russia di Putin. Oggi raccogliamo i risultati anche di quelle scelte. In Grecia, grazie alla rigidità dell’UE e dei falchi della Bundesbank, una politica miope espose il Paese alla speculazione dei mercati, perché dalla Germania vennero indicazioni a che il Paese avrebbe dovuto risollevarsi da solo e senza aiuti. Questo generò una spirale speculativa per la quale a distanza di pochi mesi si dovette intervenire con uno speciale “Fondo salva Stati”, spendendo però molti più soldi e chiedendo di conseguenza molti più sacrifici al Paese. Sull’onda di quel processo di austerità furono ceduti al settore privato i più grandi asset del paese soprattutto nel settore navale, cuore all’occhiello dell’industria ellenica e la popolazione subì un crollo del potere d’acquisto accompagnata da fortissimi livelli di disoccupazione e aumento delle povertà.
L’Italia fu ritenuta – come ancora oggi è – Too Big To Fai (TBTF), termine coniato nel 2008 dopo il crollo della Lehman Brothers, per indicare un asset che, se messo in condizioni di fallimento, farebbe fallire tutto il sistema, in questo caso l’intera Europa. Solo a quel punto arrivò il bazooka di Draghi, ovvero l’impegno da parte della BCE di acquistare titoli di debito (in Italia BOT e BTP) dai vari Stati per tenere a bada la speculazione e dare stabilità allo spread e alle finanze della UE. Il bazooka non aveva nulla di originale. Era stato applicato dalla FED sul debito americano già anni prima della decisione di Draghi. Si chiamava tecnicamente Quantitative Easing e da allora ogni mese per quasi un decennio ha acquistato titoli di stato europei per un valore che oscillava tra i 70 e i 90 mld€, mentre la Federal Reserve americana acquistava 100/120 mld$ di debito USA al mese. In un medio periodo di relativa stabilità (circa un decennio) sul piano economico, le due banche centrali hanno acquistato titoli di stato con moneta stampata in surplus inondando di liquidità il sistema economico occidentale, forti del fatto che nonostante la grande acquisizione di debito emesso dagli Stati da parte delle banche centrali, l’inflazione si manteneva negli anni molto al di sotto dei livelli di guardia.
Dal 2008 al 2021 il debito degli Stati Uniti è triplicato da circa 9,5 ai 29 trilioni $ di oggi con un rapporto debito/PIL del 120%. L’Europa sta leggermente meglio. Dalla crisi dei con un rapporto debito/PIL al 90%.
Ovviamente questi dati hanno fatto ampiamente discutere la comunità scientifica e la classe politica sulla giustezza di questa policy che si vorrebbe keynesiana, ma che poi ha registrato forti limiti negli investimenti sull’economia reale, vista l’impronta emergenziale dell’intervento, volto invece al salvataggio delle grandi banche dai titoli tossici e dunque a un sostegno indiretto alla finanziarizzazione dell’economia.
La questione inflattiva ha sempre preoccupato i falchi del monetarismo tedesco e olandese che per anni hanno agitato lo spettro della stagflazione e il pericolo di una perdita d’acquisto del valore dell’euro con il conseguente arretramento di tutta l’economia della UE in caso di inflazione incontrollata e strutturale.
Questo non è accaduto. Nell’ultimo decennio si è registrato l’opposto: l’Europa ha avuto un’inflazione sotto l’1% con l’indice degli energetici che per ben due anni hanno avuto segno negativo, nel 2015 e nel 2020. Stessa cosa per gli Stati Uniti che, dopo un crollo importante nel 2008 con deflazione fino al -2%, hanno navigato poi fino a inizio 2021 con una soglia stabile e ottimale al 2%.
Questi dati hanno messo a tacere chi invece agitava lo spettro del rischio di iper-inflazione nella UE e hanno permesso una politica di aumento della liquidità che ha fermato le speculazioni dei mercati in Europa e in particolare ha spinto verso un cambio di paradigma politico e culturale, mettendo all’angolo i Paesi del Nord e i cosiddetti “Paesi frugali” e attuando politiche che dall’austerity, a firma Merkel, Lagarde, Shauble, negli anni hanno lasciato il passo a politiche volte alla cooperazione, fino al recente Recovery Fund, con protagonista l’Italia di Conte e un consesso europeo più orientato alla condivisione e alla collettivizzazione della politica economica.
Tutto ciò è durato fino al 2021, l’anno in cui da un mese all’altro si sono invertite tutte le tendenze economiche e le stime di crescita, per un semplice quanto preoccupante motivo: nei primi mesi del 2021 l’inflazione ha avuto un balzo improvviso in tutto il pianeta, in particolare negli States e a seguire in UE. Tra il gennaio e l’aprile del 2021 l’inflazione americana esplode dal 1,4% al 4,2%. Il flusso è anomalo ed ha ha un effetto di trascinamento sull’Europa che segue lo stesso percorso, anche se con tempi più lenti. L’aumento esponenziale dell’inflazione nel 2021 viene interpretata come fenomeno non strutturale e passeggero, così anche gli interventi sulla politica monetaria vengono attuati con estrema calma e cautela.
I motivi dell’aumento incontrollato dell’inflazione stanno nel fatto che le tre principali economie del mondo, America, Europa, Cina, rientrano nel mercato dopo due anni di pandemia e relativo blocco delle produzioni con fortissime aspettative di crescita, e soprattutto lo fanno dopo 2 anni di recessione. Lo scarto percentuale tra il picco della recessione nel giugno del 2020 e della ripresa nel giugno del 2021, passa da -13,8% a +14,2% in Europa, ovvero circa 28% punti di Pil, circa 5 trilioni €. Negli Stati Uniti nello stesso periodo si registra 21,5% del Pil e in Cina 25%.
In totale la pandemia ha causato in un solo anno uno scarto tra il punto più basso dell’economia in pieno lockdown e il punto più alto della ripresa registrato nel giugno del 2021 di circa 13 trilioni $, ovvero una mole enorme di denaro che in un anno ha messo in tilt il sistema di domanda e offerta. Per due anni sono state bloccate le catene del valore, dette “Supply Chains”, ovvero gli asset del personale, del sistema della logistica, delle catene distributive dei distretti industriali, le catene degli indotti. Tutto ciò è stato colto di sorpresa e questo ha generato una difficoltà negli approvvigionamenti e il conseguente aumento dei costi. Il rame, detto “dottor cooper” utilizzato come parametro per le anticipazioni della fornitura della manifattura, è passato da 3mila a 10mila $ per tonnellata. Se il rame cresce, la manifattura di conseguenza ha aspettative di crescita e dunque aumentano gli investimenti in azioni. E i mercati azionari sono cresciuti ai massimi storici, con la manifattura a fare da traino. I costi di noleggio dei container per le navi cargo sono passati da 2000€ a 12000€. Le navi, piuttosto che aspettare il pieno carico per ottimizzare i costi, viste le insostenibili spese di noleggio, oggi partono con la metà della capienza.
Notiamo bene che tutto ciò accade solo in Europa e Negli Stati Uniti; in Cina l’inflazione non ha fatto rilevare nessun balzo e oggi è al 2,1%.
Nonostante l’enormità di questi dati, il fenomeno è stato ritenuto temporaneo, come se si dovesse attendere il passaggio attraverso un collo di bottiglia prima che l’economia riparta come sempre. Infatti, l’inflazione “core”, ovvero quella calcolata sui beni di prima necessità non soggetti a speculazione, era in EU – fino all’inizio della guerra in Ucraina – a livelli ragionevoli, oscillando dall’1 al 2,5%, cioè esattamente al livello consigliato. Questo succedeva però diversamente dagli Stati Uniti e dall’Inghilterra, dove anche l’inflazione core raggiungeva livelli preoccupanti nel 2021, ovvero il 5% circa. Di fatti l’Occidente si affaccia al 2022 con una situazione precaria, ma potenzialmente risolvibile, tanto che, nonostante la FED a fine 2021 avesse già iniziato ad aumentare il costo del dollaro, per tutto l’anno le borse hanno registrato i massimi storici.
È in questo quadro che s’inserisce la guerra in Ucraina.
Il momento dell’invasione arriva dopo un anno di tensioni geopolitiche nell’Europa dell’est. Già nel 2021 si inizia a parlare di guerra del gas russo. E già prima dello scoppio del conflitto il prezzo del gas russo era passato in un anno da 20€ a 180€ al MWh. Un aumento insostenibile che ha portato a un’impennata dell’elettricità, legata al fatto che in Europa l’energia elettrica è generata essenzialmente per combustione dal gas. Tali aumenti, dopo l’invasione dell’Ucraina, non hanno accennato a diminuire e, lentamente quanto inesorabilmente, hanno messo in ginocchio le piccole e medie imprese, e tutto il comparto di produzione dell’industria energivora. Le bollette in tutta Europa hanno subito aumenti insostenibili e l’inflazione europea è oggi trainata quasi interamente dall’aumento del prezzo del gas: diretto, per l’aumento delle bollette, o indotto, cioè l’aumento del prezzo dovuto all’aumento dei costi di produzione.
I motivi che hanno portato a una delle crisi energetiche più dure dagli anni ’70 ad oggi sono molteplici, ma principalmente attengono a questioni geo-politiche tra Russia e Stati Uniti. Sullo scacchiere degli interessi spicca particolarmente la perpetua azione degli Stati Uniti, volta ad ostacolare l’intensificarsi delle relazioni commerciali tra Russia e Europa e tra Europa e Cina. In particolare, nell’ultimo anno si è parlato molto dell’irritazione da parte degli States verso il gasdotto Nord Stream 2, fortemente voluto dai tedeschi, che collega direttamente la Siberia alla Germania attraverso il Mar Baltico. Questo gasdotto non è mai stato attivato, nonostante sia nuovo e utilizzabile da subito e anzi sembra che l’aggravarsi della crisi ucraina si sia sviluppata proprio in concomitanza dei giorni in cui la Germania si apprestava al collaudo di questa enorme infrastruttura di Gazprom. L’opposizione è stata totale da parte sia dell’America sia di tutti i Paesi del gruppo di Visegrád, Polonia in testa, nonché della stessa Ucraina.
Se pensiamo che negli scambi commerciali tra UE e Russia l’indice di esportazione è diminuito da circo 160 mld€ annui agli attuali 100 mld€, con un brusco calo del 30% a cavallo del 2014, ovvero dopo la questione ucraina di Euro Maidan, il referendum in Crimea e l’inizio della guerra in Donbass, è palese come l’obiettivo americano di dirottare gran parte del mercato europeo oltreoceano stesse pienamente riuscendo già prima dell’inizio del conflitto. Oggi dopo le minacce di chiusure dei rubinetti del Gas da parte della Russia e l’intensificarsi degli effetti delle sanzioni occidentali verso Putin, che come sappiamo sono un’arma a doppio taglio che coinvolge moltissime filiere del manifatturiero italiano e tedesco, questo obiettivo è praticamente raggiunto.
La stessa opposizione alla “Via della seta” ne è un perfetto esempio: l’Italia, con il Governo Conte, è stato l’unico Paese dei G7 a firmare il Memorandum of Understanding (MoU) con la Cina sulla Via della Seta; l’unico Paese a prendere quote dell’ Asian Bank. America, Francia e Germania si sono sempre tirati fuori. Tale azione dell’ex-primo ministro è stata deprecata e messa al bando dalle cancellerie occidentali. All’inizio del 2022, a distanza di 2 anni, Biden ha annunciava che varerà la nuova Via della Seta americana per un costo di 1000 mld€ e che toglierà alla Cina i dazi messi dal suo predecessore Trump.
Emerge in maniera chiara da questi passaggi il tema di una premiership degli Stati Uniti e in generale del comparto anglosassone (vedi Brexit) rispetto a un’Europa storicamente tenuta in posizione subalterna nei rapporti commerciali e che in questi mesi si sta manifestando in forme inedite, ovvero attraverso una potenziale recessione di tutto l’Occidente nei confronti dell’asse Russia-Cina-India che in alcuni comparti economici lambisce anche l’Arabia Saudita e che prefigura una nuova egemonia mondiale che sempre più renderà evidente la sua forza, soprattutto nelle politiche monetarie. Già dall’annuncio di Luglio del rialzo dei tassi in UE e per le settimane a seguire, si è assistito a un crollo delle borse europee che hanno registrato nel tempo grandi perdite, in alcuni casi fino al 20%. Negli Stati Uniti le perdite rispetto ai massimi del 2021 sono arrivate anche al 30% del valore. Nel frattempo, mentre si intensifica la guerra del gas, con forti limitazioni nelle forniture da parte della Russia verso l’Europa, che aveva chiesto il pagamento in rubli del gas fornito, si registra un aumento del 67% delle forniture di gas verso la Cina.
Il tema delle sanzioni ha oggettivamente prodotto forti difficoltà al governo russo che oggi viaggia con un’inflazione del 17%. Non dimentichiamo, però, che la Russia è un Paese che ha affrontato ondate inflattive tra le più alte al mondo negli ultimi 30 anni, così come sopporta l’effetto delle sanzioni dal 2014 circa, questo perché possiede una grande mole di materie prime. Sicuramente le sanzioni attuate negli ultimi mesi sono molto forti, ma gli effetti di queste si vedranno forse solo nel medio periodo, in un contesto estremamente precario, in cui variabili come la retrocessione del blocco occidentale, l’intensificarsi delle partnership commerciali tra Russia, Cina e India, possono cambiare, e anche di molto, i risultati attesi.
Di fatto, l’occidente e in particolare l’EU – che riguardo all’inflazione si trova in una posizione migliore rispetto agli Stati Uniti – sta cercando di dare una risposta monetarista a un’inflazione potenzialmente galoppante, trattando il problema come un normale effetto di un’eccessiva immissione di liquidità nel sistema o di domanda eccedente rispetto all’offerta, mentre le cause scatenanti sono da ricercarsi in ben altri scenari.
Quella che era un’inflazione temporanea, dovuta all’eccessivo scarto tra domanda e offerta, dopo la retrocessione e la ripresa dovute alla pandemia, oggi sta sempre di più assumendo un carattere strutturale dovuto alle misure con le quali è stato deciso di affrontare il conflitto in Ucraina. In particolare, la crisi energetica ed altre crisi – come quella del grano di Odessa – hanno creato le condizioni per una stagflazione dell’economia in Occidente. E in tutto ciò, c’è chi a Oriente vede l’opportunità di un cambio epocale di leadership mondiale.
L’attuazione delle sanzioni è un’arma a doppio taglio, perché da un lato mette in crisi la Russia spingendola ad accelerare il processo di partnership commerciale con la Cina, e dall’altra toglie all’Europa significative fette di mercato con una diminuzione delle stime di crescita, proprio nel momento in cui – in difetto di una dipendenza energetica dalla Russia – vede lievitare i costi di tutti i beni, anche quelli di prima necessità. Una spirale pericolosa, perché un’inflazione verso il 10% non sarà contestuale a un aumento degli stipendi.
In tutto ciò, Christine Lagarde decide di dare una cura a una febbre da cavallo che potrebbe aggravare la malattia. Vista la volontà politica di non risolvere il problema alla radice, ristabilendo le bilance commerciali con la Russia pre-Euro Maidan, decide altresì di interrompere l’acquisto di debito dai Paesi in difficoltà, che non sono più solo quelli mediterranei. Questo potenzialmente mette in pericolo il welfare, la sanità, la scuola, l’università, la pubblica amministrazione, generando una crisi che, oltre al privato, andrà a colpire anche il settore pubblico con un potenziale crollo delle economie europee. Tutto ciò mentre si acuiscono gli scontri sociali (vedi la manifestazione di Praga contro il caro vita del 18 giugno), che potrebbero generare instabilità politica.
Forse sarebbe il caso di togliersi l’elmetto e fare un respiro profondo. Oltre alla propaganda di “Capuccetto rosso e il lupo cattivo”, come ha detto Papa Francesco, è urgente analizzare razionalmente la problematica, cercando di leggere gli eventi con un po’ di lungimiranza politica. Così stiamo facendo esattamente il gioco di Putin, il quale intende andare ben oltre l’Ucraina, ma non sul piano militare, bensì sull’egemonia economica, puntando – come ha dichiarato – a un nuovo sistema politico-economico centrato nell’Eurasia, che superi il modello statunitense.
L’Europa dovrebbe essere un attore con una reputazione storica e sociale in grado di giocare un ruolo in questa partita che vada ben oltre la seconda fila dietro gli Stati Uniti di Biden, e dovrebbe puntare a un ruolo di forte mediazione in questi macro-processi. Quello a cui invece siamo rimasti è un fermo immagine tra Macron, Draghi e Shultz in un treno verso l’Ucraina. Siamo prossimi a ospitare il Paese nella UE, come se quello fosse il vero problema, e non il fatto che i morti del popolo ucraino sono sacrificati inutilmente sull’altare dell’egemonia monetaria degli Stati Uniti, mentre Putin punta a creare instabilità politica in Europa, non certo con il pericolo di invasione, ma facendola impoverire con le sue stesse scelte.
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