Andrea Fontana, sociologo della comunicazione e dei media narrativi, ci ha abituati con i suoi libri a guardare avanti, riuscendo sempre ad anticipare i bisogni e cercando di indicare una strada alla collettività; il suo Ballando con l’Apocalisse, uscito solo 20 giorni prima dello scoppio della pandemia, ne è un chiaro esempio. E’ stato il pioniere dello storytelling in Italia, con le sue ricerche e i suoi lavori ha introdotto nel nostro Paese il dibattito teorico e operativo sulla “narrazione d’impresa” e oggi, in un periodo cruciale per tutti, puntuale torna a parlarci proprio di narrazione con un nuovo manuale, una guida verso lo storymaking: Storytelling d’impresa.
Riflettere sul tema è quantomai importante: viviamo in un tempo in cui si compete narrativamente. Si racconta per posizionare un prodotto, per dare significato commerciale a una marca, per ottimizzare un’identità digitale, per coinvolgere su un progetto di vita. Si racconta per collocare un politico in un mercato elettorale, per orientare un’economia, per gestire una pandemia. E ora che viviamo in mercati così drammatici, fatti di pubblici che non hanno fiducia in nulla, è dura raccogliere attenzione, ascolto.
Tra febbraio e maggio del 2020 il mondo ha subito un trauma enorme. Un grande e radicale cambiamento catastrofico. Una rivoluzione che ha generato un enorme cambio tematico nel nostro immaginario collettivo, che dovremo portare con noi per molto tempo ancora. Da racconti di impresa basati sul successo, sulla forza, il divertimento, il viaggio, la scoperta di sé e del mondo, siamo passati – e per un certo periodo di tempo non abbiamo visto altro – a narrazioni basate sulla cura, sulla reciprocità, sull’elaborazione del dolore, sulla prudenza (dello stare a distanza, ma non solo).
Una rivoluzione su tanti fronti, un esempio è la campagna di McDonald’s: la celeberrima multinazionale, per suscitare attenzione sulla necessità di tenersi fisicamente distanti, ha diviso i suoi famosi archi, un’eresia in termini di marketing classico. Fare storytelling significa dare vita a un universo narrativo, a una sorta di habitat creato da un soggetto-autore che invita altri soggetti a partecipare a un destino. Per fare narrazione è fondamentale partire da importanti motivazioni e occorre sapere che nel raccontarsi si assumono posizioni esistenziali e si indicano destini o destinazioni di vita di cui si diventa responsabili.
Oggi le storie sono cose molto serie. I racconti ancora di più. Senza un problema da risolvere, una tensione da sopportare, un mistero da svelare, un conflitto da gestire, non c’è racconto che tenga. Proprio da qui comincia il nostro incontro con Andrea Fontana.
Nel suo libro si affronta anche il posizionamento “politico” di alcuni brand, come ad esempio Nike. Cosa pensa del sempre più marcato trend della “politicizzazione” del marketing?
Credo sia una tendenza inevitabile. Però più che di “politicizzazione” del marketing parlerei di una necessaria tendenza alla presa di posizione esistenziale nel marketing: quello che viene definitivo brand activism. Vuol dire che i brand e le marche sono chiamate a raccontare cause esistenziali e sociali (non solo inerenti il dibattito politico) e a vivere in coerenza con i loro nuovi credo, che poi rimandano a quelle cause. Questo perché finalmente ci si sta rendendo conto che è finito il tempo dei “target da colpire”. Non c’è nessun bersaglio da abbattere – in una visione machista del branding stesso – piuttosto esistono persone che esprimono diversi temi e problemi di vita che vanno coinvolte. Persone, clienti o consumatori, che sono biografie in movimento e che oggi hanno bisogno di “sentirsi parte” di qualcosa di più grande di loro. Ecco quindi che le marche – in un periodo in cui molti miti politici e istituzionali crollano – si ritrovano in una posizione “politica” non per proporre ideologie ma per provare a coinvolgere su destini e missioni di vita. Una vera rivoluzione – che vede nel sapersi raccontare – una delle nuove competenze cardine.
Oltre allo “storytelling” si va affermando lo “storymaking”: cosa cambia per le imprese?
È la rivoluzione di cui accennavamo prima. Cambia tutto: non basta più avere un buon messaggio da proporre, sempre uguale a se stesso su tutti i canali di comunicazione (carta, web, tv, social, ecc). Piuttosto devi avere una serie di narrazioni significative e diversificate per ogni pubblico specifico a cui ti rivolgi: messaggi personalizzati sulle storie di vita delle tue audience. Questo è lo storytelling. Ma in più devi anche dare testimonianza di questi messaggi personalizzati e questo diventa lo storymaking. Essere un testimone del tuo racconto, il portatore di una nuova visione di esistenza. È un cambio di prospettiva radicale. Prima comunicavi e vendevi sempre la stessa cosa nello stesso modo, ora ogni volta devi trovare nuovo senso di vita per coinvolgere chi ti segue (la cura, il potere, la trasformazione, il divertimento, lo svago, ecc). Altrimenti non ti segue più. Una attività continua di ascolto e ridefinizione della narrativa di marca e prodotto. Le imprese indicheranno nuovi destini, nuovi visioni del mondo, persino nuovi credo a cui seguiranno comportamenti specifici delle aziende e dei consumatori.
Quali sono i confini tra uno storytelling bene organizzato e una comunicazione fasulla, che tende a raggirare il cliente?
Direi due cose: la professionalità e la testimonianza. La professionalità perché non puoi improvvisarti in questo momento storico e di mercato nel fare storytelling e storymaking. Per evitare la comunicazione fasulla devi organizzare progetti e iniziative in un certo modo. Trovare le competenze e i professionisti capaci, prenderti il tempo per ascoltare i tuoi pubblici, capire quali bisogni manifestano, definire le narrazioni adatte per loro senza pensare di doverli colpire, ma coinvolgere. È una parte integrante del branding contemporaneo e va fatto bene con risorse e tempi adeguati. Poi c’è la testimonianza. Una volta trovato il racconto, il destino significativo che vuoi proporre a chi ti segue o compra, devi portarlo in vita e farlo vedere in prima persona su tutti i tuoi canali di comunicazione e azione; assumendoti anche le responsabilità che questo comporta. Il tempo di chi predica bene e razzola male è terminato. Se ti comporti non in coerenza con la tua narrativa arriva l’epic fail immediato.
Può citare alcune imprese che, a suo modo di vedere, rappresentano best practice dello storytelling di impresa?
All’estero molte, da Nike a Samsung, da Apple a Tesla, passando per Ikea. A livello internazionale, le questioni di cui stiamo parlando sono ormai un must. In Italia, prima del Covid-19 la maggior parte delle aziende era prigioniera di un marketing stereotipato: il racconto fondamentale era basato su persone che ballavano, stavano insieme e si divertivano e il marchio era sempre il totem intorno a cui queste persone gioivano e giocavano. L’azienda sempre bella, il pubblico sempre stupido. Dal Covid-19 in poi anche in Italia stiamo cambiando passo. Abbiamo iniziato a vedere negli spot e nelle narrazioni di marca persone più riflessive, consapevoli, partecipi, con nuovi temi come la cura di sé e degli altri, la gentilezza, la gratitudine, la vicinanza che sono diventate nuove argomentazioni commerciali. Un vero salto quantico. Così dai brand che prima del Covid-19 dicevano: “Amami, ti insegno a vivere, per cui comprami” stiamo passando ai brand che ti dicono: “So che siamo nei guai, ma credo di capire i tuoi problemi, che sono anche i miei, proverò a starti a fianco per fare con te un pezzo di strada insieme”. In questo senso ho visto diversi marchi italiani – sia nel mercato B2C che in quello B2B – fare la differenza negli ultimi mesi: da Barilla a Mediolanum, da Vodafone Italia a Mutti, da Lavazza a FCA Group, da Intesa Sanpaolo a Angelo Po… tanti davvero. Segnalo due esperienze Italiane in particolare: Phyd, una piattaforma basata sull’Intelligenza Artificiale che aiuta a orientarsi nel mondo del lavoro, che sta modificando la narrazione dell’occupabilità. E poi Flowe, una better being plat-firm che sta cambiando la narrazione nel settore bancario. Lascio ai lettori il piacere di scoprire queste due realtà che usano lo storytelling e lo storymaking per distinguersi.
Leggi anche: Smart working frontiera del futuro? Forse, ma a danno di migliaia di aziende (e di lavoratori)
Leggi l'articolo originale su TPI.it