In queste settimane in cui si è costretti a casa per limitare la diffusione del contagio da Coronavirus, molte aziende private e soprattutto molte realtà della pubblica amministrazione stanno finalmente “scoprendo” lo smart working o telelavoro. In realtà c’è chi lavora da casa o da postazioni mobili ormai da molti anni, in Italia e soprattutto all’estero. Programmatori informatici, dipendenti di aziende multinazionali e persino molti giornalisti, già da tempo e ogni giorno, si gestiscono il lavoro in modo più o meno flessibile da postazioni create nelle loro case o in uffici condivisi dove è possibile noleggiare spazi di vario tipo, dalla semplice scrivania a stanze attrezzate per i meeting.
Nel nostro Paese, un tempo fanalino di coda per l’utilizzo di questo tipo di organizzazione del lavoro (forse a causa dell’età elevata dei dirigenti del settore privato e soprattutto di quello pubblico, allergici a tutto ciò che non esisteva nel ‘900), secondo un report dell’’Osservatorio Smart Working del Politecnico di Milano, il suo utilizzo è aumentato del 60% dal 2013 al 2017. Ad oggi, sono circa 480mila i dipendenti che usufruiscono dello smart working.
E sono molti, in questi ultimi anni, gli studi che hanno certificato che lo smart working aumenta la produttività delle aziende che lo praticano e il livello di benessere dei lavoratori che ne usufruiscono. Uno di questi fu condotto nel 2017, con un esperimento sul campo, dal Centro di Ricerca Carlo Dondena dell’Università Bocconi, che valutò, secondo una serie di parametri, il rendimento di due gruppi di 150 lavoratori in Acea, la Spa a partecipazione pubblica che gestisce forniture di acqua e energia a Roma e provincia. Nei nove mesi della rilevazione, i lavoratori “agili” garantirono una produttività maggiore del 3-4% e un tasso di assenze inferiore rispetto ai colleghi presenti in ufficio. Tra gli effetti positivi del lavoro da casa, vi fu un forte aumento della soddisfazione per il bilanciamento tra vita privata e lavoro (+6,6%).
Il problema, tanto per cambiare, è che in Italia il telelavoro diventa spesso uno strumento utilizzato per produrre precariato: l’assenza del luogo fisico diventa anche assenza di tutele e pretesto per sottopagare il lavoratore. Esiste già un esercito di professionisti spesso dimenticati che non avendo un badge da timbrare vanno a creare quel “popolo delle partite IVA” di cui ogni tanto si parla. Spesso la condizione svantaggiata di chi lavora da casa dipende dallo scarso livello di elasticità mentale (o dalla furbizia…) degli stessi datori di lavoro, che non percependo la presenza del dipendente in azienda, tendono a classificarlo come “lavoratore di serie B”, ricorrendo in molti casi a forme di ingaggio di serie B, trasformando di fatto il dipendente in un lavoratore autonomo mascherato.
Di telelavoro si parlerà molto nei prossimi mesi. Dopo la “sperimentazione forzata” causata dal Coronavirus, molte aziende lo proporranno ai dipendenti perché conviene, perché costa meno. E molti lavoratori dovranno accettare loro malgrado la nuova condizione. Far sì che quella che in altri paesi è stata una grande opportunità non diventi l’ennesima maccheronica botta ai diritti dei lavoratori sarà una delle grandi sfide del prossimo futuro.
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