Confindustria Lombardia: intervista al presidente Bonometti
“Abbiamo chiesto liquidità immediata al Governo e la sospensione delle scadenze fiscali, perché esiste il rischio reale che il 50 per cento delle aziende lombarde che rappresento non riapra mai più. Sembra che siamo stati ascoltati”. Marco Bonometti, presidente di Confindustria Lombardia, commenta a caldo a TPI l’approvazione di ieri del decreto “liquidità” e l’annuncio del governo di un intervento “poderoso” da 400 miliardi di euro alle imprese. “Tuttavia mi riservo di leggere a fondo il decreto – aggiunge il capo degli industriali lombardi – per capire se le nostre richieste sono state recepite fino in fondo. Non vorrei fossero solo annunci”. È passato oltre un mese da quando Bonometti (era il 29 febbraio) parlava di “danno di immagine” con “l’Italia isolata” e con la zona rossa “che crea danni economici anche alle altre aziende” e sono passate oltre tre settimane da quando ha pubblicato un documento per ribadire il no alla chiusura delle industrie. A un mese dal lockdown nazionale deciso dal Governo il presidente degli industriali lombardi accetta di fare il punto con noi.
Quante imprese stanno lavorando ora in Lombardia?
Delle 13.900 aziende che rappresento, solo il 30 per cento sta continuando a lavorare.
Immagino che abbia letto i dati Istat, con gli incrementi del 1.000-2.000 per cento dei decessi nelle zone della mancata zona rossa. Secondo lei è stato un errore non aver chiuso subito Alzano Lombardo e Nembro, non aver interrotto le attività produttive?
Le polemiche le facciamo alla fine. Adesso serve salvare le vite umane e salvare l’economia. Il vero errore è stato quello di lasciare che la gente andasse in giro, andasse nei bar, nei ristoranti, nelle discoteche.
Oggi però in Lombardia sono molti quelli che si muovono ancora per lavoro ed erano molti di più quelli che lo hanno fatto prima della chiusura totale.
Dovrebbero andare a controllare questi movimenti, perché per esempio il codice di autoregolamentazione che ci siamo dati per salvaguardare la salute dei dipendenti è proprio quello di utilizzare i guanti, le mascherine, il distanziamento.
Abbiamo ricevuto molte segnalazioni di aziende che non mettono in sicurezza i propri dipendenti e li costringono a lavorare senza le protezioni adeguate.
Se le aziende non sono in grado di mettere in sicurezza i propri lavoratori non possono lavorare. Noi abbiamo fatto di tutto per dotare le aziende dei dispositivi, però se una azienda non ha i requisiti che ci siamo dati non può lavorare. Noi di Confindustria Lombardia ci stiamo muovendo per procurare e garantire il fabbisogno a tutti, con lo sblocco delle dogane, con la centrale che è stata fatta a Milano per individuare i fornitori di mascherine e di tutti i dispositivi. Lo abbiamo fatto sia per l’industria, sia per la sanità privata. Lo Stato su questo tema però ha sbagliato, le mascherine non ci sono, è chiaro che c’è stato un buco.
Lei come se li spiega tutti questi morti in Lombardia e soprattutto nella bergamasca?
Ci sono diverse le ragioni: innanzitutto qui c’è una presenza massiccia di animali e quindi c’è stata una movimentazione degli animali che ha favorito il contagio, parlo degli allevamenti, e questa potrebbe essere una causa.
In che senso, mi scusi? Gli animali non sono considerati veicolo di contagio di questo virus.
Se non sono stati ritenuti veicolo di contagio, non c’è spiegazione, anche se un’altra causa è che si tratta di zone densamente popolate da industrie e quindi la movimentazione delle merci e della gente ha certamente favorito. Non all’interno delle fabbriche, però, perché le fabbriche sono considerate per noi i luoghi più sicuri.
Considerando questo intenso scambio commerciale che lei mi conferma, soprattutto in Val Seriana, non crede che sarebbe stato meglio chiudere tutto come a Codogno per limitare il contagio, in particolare dopo l’allarme lanciato dall’Istituto Superiore di Sanità i primi di marzo?
Per fortuna che non abbiamo fermato le attività essenziali, perché sennò i morti sarebbero aumentati. Le faccio un esempio: il problema dell’ossigeno, il problema delle aziende farmaceutiche, che stanno lavorando a pieno ritmo. Lo sbaglio è stato di non considerare nel codice Ateco anche le filiere dei servizi essenziali. Io ho sempre sostenuto che bisognava salvaguardare le vite umane e dall’altra parte salvaguardare la produzione essenziale, che permetteva di dare il sostentamento di salute e sicurezza ai cittadini. La verità è che buona parte di questa classe politica è incompetente. Basti pensare che per fare gli acquisti ci sono ancora le gare. Bisognava fare come prima cosa un commissario con pieni poteri.
Lei mi conferma che i primi di marzo ci sia stata in Regione una riunione con i rappresentanti delle industrie lombarde, il presidente Fontana e alcuni tra i principali imprenditori della bergamasca per parlare proprio della zona rossa?
Ci siamo confrontati, ma non si potevano fare zone rosse. Non si poteva fermare la produzione. Le faccio un esempio: se oggi la Dalmine non lavorasse, io ho insistito per tenerla aperta, le bombole per l’ossigeno non ci sarebbero. Ma le bombole per l’ossigeno sono una filiera che parte dall’acciaio, alla calandratura, dalla saldatura, alla meccanica. Per fortuna che sono rimaste aperte certe attività. Se non ci fossero state le imprese aperte con l’utilizzo e lo sfruttamento dell’ossigeno che diamo agli ospedali, la gente sarebbe morta.
Quindi lei rivendica la sua contrarietà a creare una zona rossa in Val Seriana?
Noi eravamo contrari a fare una chiusura tout court così senza senso.
Eravate contrari a un chiusura modello Codogno, per intenderci?
Codogno è un paesino, capisce che non fa testo.
Insomma, non proprio, Codogno ha più abitanti di Alzano e di Nembro, ovviamente non ha la loro densità di fabbriche e di industrie.
Appunto. Però ora non farei il processo alle intenzioni, bisogna salvare il salvabile, altrimenti saremo morti prima e saremo morti dopo.
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