Il 14 ottobre 1965 a New York un marchingegno italiano catturò l’attenzione degli americani. Tra gli espositori e i visitatori del Bema, la fiera internazionale dei prodotti da ufficio, non si parlava d’altro che di quel visionario apparecchio progettato e realizzato da un’azienda di Ivrea, la Olivetti. Si chiamava P101 (Programma101) ed era un calcolatore da tavolo programmabile, ma la stampa locale ne parlò subito come di un rivoluzionario computer da scrivania («the first desk top computer of the world»).
Il New York Journal American scrisse affascinato: «Potremmo vedere un computer in ogni ufficio prima che due automobili in ogni garage». E aggiunse: «Un manager ora può avere sul proprio tavolo una segretaria con velocità istantanea». Quei pazzi degli italiani avevano appena inventato il primo personal computer della storia.
Il prodotto – studiato da un team guidato dall’ingegner Pier Giorgio Perotto – ebbe un successo tale che persino la Nasa ne acquistò alcuni esemplari, che negli anni successivi saranno utilizzati anche per pianificare lo sbarco sulla Luna della missione Apollo 11.
Il P101 è tutt’ora esposto al Moma di New York come pezzo leggendario del design e della tecnologia del Novecento. Quanto alla Olivetti, invece, quello che all’epoca era un marchio di respiro internazionale con oltre 70mila dipendenti, oggi è un’anonima società che conta appena poche centinaia di lavoratori e che è inglobata nel Gruppo Tim, a sua volta erede di un’altra nobile decaduta dell’industria italiana: la Sip.
Già negli anni Sessanta, per la verità, il gioiello piemontese incontrò le prime difficoltà finanziarie. La famiglia Olivetti fu costretta a far entrare nuovi azionisti – su tutti Mediobanca, Fiat e Pirelli – che decisero di abbandonare il ramo dell’elettronica per restare solo in quello della meccanica, finché nel 1978 il timone dell’azienda passò nelle mani di Carlo De Benedetti.
L’Ingegnere inizialmente recuperò terreno sul piano industriale puntando tutto sull’informatica, ma poi finì schiacciato dalla crisi del settore e da un indebitamento che si fece progressivamente insostenibile. Gli anni Novanta, prima con lo sbarco nella telefonia e poi con l’Opa su Telecom capeggiata da Roberto Colaninno, furono disastrosi. Il resto è storia di oggi: l’ex gigante italiano dei computer si è trasformato in un nano che non tocca palla nel mercato dell’Internet of things.
Quella della Olivetti è una parabola discendente che racconta molto del declino della grande industria del nostro Paese. Gli occupati nel settore secondario, che nel 1977 rappresentavano secondo l’Istat il 38% del totale, oggi oscillano intorno al 20%.
Si dirà: è andata così un po’ per tutti, nell’Europa occidentale sempre più “terziarizzata”. E in effetti è vero che è l’intera industria del Vecchio Continente ad aver dismesso o delocalizzato molte delle sue produzioni, avendo lasciato, ormai vent’anni fa, che la Cina diventasse la “fabbrica del mondo”: in Italia il manifatturiero è sceso dal 19% del Pil nel 1992 al 14% nel 2022, ma anche in Germania e in Francia si è registrato un calo simile, rispettivamente dal 23 al 18% e dal 16 al 9% (dati della Banca Mondiale). Siamo in buona compagnia, insomma. Tuttavia alle nostre latitudini la caduta è stata più rumorosa che altrove. Perché ha visto crollare dei colossi.
Emblematico è il caso dell’automotive, l’industria manifatturiera per eccellenza: fino all’inizio degli anni Novanta eravamo terzi in Europa per numero di vetture assemblate, dietro solo a tedeschi e francesi; adesso siamo scivolati al settimo posto, superati non solo da Spagna e Regno Unito ma pure da Repubblica Ceca e Slovacchia.
Catena di smontaggio
La Germania ha ancora saldamente le mani sui volanti di Audi, Volkswagen, Bmw, Porsche. La Francia ha mantenuto nel garage di casa le sue Renault, Peugeot, Citroen. L’Italia, invece, ha ormai perso il controllo sul suo ex campione nazionale, Fiat, di fatto venduta proprio ai nostri cugini d’Oltralpe, segnatamente al Gruppo Peugeot, insieme a marchi un tempo iconici e oggi impolverati come Alfa Romeo e Lancia.
Negli anni Sessanta la Fiat aveva 160mila dipendenti nel nostro Paese, oggi la sua erede Stellantis ne conta meno di un terzo. E, per giunta, vuole scendere ancora: dal 2021, infatti, l’azienda ha avviato un poderoso piano di tagli basato sugli esodi incentivati (dimissioni in cambio di assegno di buonuscita) che ha già convinto finora 7mila addetti ad andarsene.
L’Italia è sempre più ai margini nelle strategie industriali del Gruppo. Gli investimenti su nuovi modelli vengono concessi col contagocce. Da Mirafiori a Pomigliano, passando per Cassino e Melfi, nessuna fabbrica è pienamente saturata (significa che i volumi produttivi sono sottodimensionati rispetto alla forza lavoro) e da anni ormai si fa ovunque stabilmente ricorso alla cassa integrazione. In compenso, la Cinquecento ibrida sarà prodotta in Algeria, il remake della Topolino in Marocco, la nuova Seicento in Polonia e la Panda elettrica in Serbia.
Ma c’è poco da stupirsi, se si considera che Stellantis è una multinazionale a trazione transalpina (lo Stato francese è anche azionista) e con sede legale ad Amsterdam (per pagare meno tasse).
Nemmeno l’amministratore delegato del marchio Fiat è italiano: si chiama Olivier François, ha 62 anni ed è nato a Parigi. François è sbarcato a Torino nel 2005 su chiamata di Sergio Marchionne, che gli affidò il rilancio (non fortunatissimo) del marchio Lancia.
A proposito dell’ex manager italo-canadese: sarà stato anche un fenomeno nel generare dividendi per i suoi azionisti, ma è anche per colpa delle sue resistenze se in questi anni la filiera dell’automotive italiano è rimasta tanto indietro sul fronte dei veicoli elettrici.
Oggi la transizione ecologica pone sfide difficili per il settore delle quattro ruote. Il mercato va spedito in quella direzione e se non si investe adesso nella produzione e nel riciclo delle batterie o nello sviluppo di software per la mobilità, si rischia di perdere il treno che porta nel futuro. In casa Stellantis, va detto, qualcosina si muove: lo scorso settembre a Mirafiori è stato inaugurato un polo di ricerca per testare le batterie, mentre nel 2026 dovrebbe aprire la gigafactory di Termoli. Quel che manca disperatamente è una regia politica.
Negli ultimi due anni sindacati e Federmeccanica hanno unito le voci per implorare chi governa il Paese di elaborare un piano per gestire il passaggio all’auto green, avvertendo del «rischio di deindustrializzazione di un settore chiave dell’economia italiana».
In ballo ci sono oltre 70mila posti di lavoro, la maggioranza dei quali si trovano in aziende di dimensioni piccole e medie della componentistica. Tra Piemonte e Lombardia ci sono officine d’eccellenza che esportano in mezzo mondo: in media il 30% dei pezzi che compongono un’auto tedesca proviene da qui, mentre l’ex Fiat guarda sempre più ai fornitori francesi. Insomma, siamo ormai per lo più un’industria di contoterzisti.
E in gran parte è proprio grazie a queste multinazionali tascabili se l’Italia è ancora la seconda manifattura d’Europa per valore aggiunto. Sono casi virtuosi come la bergamasca Brembo o la torinese Facet nell’automotive, o come Ima nel packaging, Mapei nella chimica per edilizia, Chiesi nella farmaceutica, a tenere alto il nome del nostro Paese, assieme – certo – ad alcuni grandi gruppi rimasti in piedi come Luxottica, Barilla, Ferrero, Armani.
Rispetto a una trentina d’anni fa, però, alcuni top player del Made in Italy si sono persi per strada. In certi casi falliti, in altri ridimensionati, in altri ancora venduti a grandi gruppi stranieri.
Padroni forestieri
Un’indagine pubblicata l’anno scorso da Confindustria in collaborazione con l’Università Luiss ha rilevato che nel decennio 2009-2019 il valore aggiunto generato dalle imprese italiane a capitale estero è aumentato del 70% passando da 79 a 134 miliardi di euro. Nella manifattura si parla di poco più di 4.500 aziende, che rappresentano circa l’1% del totale dell’industria nazionale eppure producono il 17% del fatturato.
Gli esempi noti di gemme del Made in Italy passate in mani forestiere sono tanti: Parmalat è diventata francese, così come Gucci, mentre Valentino appartiene all’emiro del Qatar, Pirelli è cinese, Lamborghini e Ducati parlano tedesco e la ceramica Marazzi è americana.
In certi casi, inoltre, proprietà straniera fa rima con chiusura: per informazioni chiedere agli operai della Timken di Brescia (acciaio) o a quelli della Gkn di Firenze o della Marelli di Crevalcore (componentistica auto), tutti o quasi rimasti senza lavoro dopo essere stati acquisiti da fondi d’investimento stranieri, quelli che il sociologo Luciano Gallino chiamerebbe «finanzcapitalisti» perché estraggono valore dal lavoro, anziché crearlo.
All’Ilva dal 2018 comandano gli indiani di Arcelor Mittal, che però adesso si rifiutano di iniettare capitale per salvare l’azienda, ormai arrivata a pochi centimetri dall’abisso. Già prima del loro arrivo in scena la situazione era critica, fra tiramolla giudiziari e una città, Taranto, alle prese con la scelta impossibile fra lavoro e salute pubblica. Negli ultimi mesi però la situazione è precipitata.
Nell’acciaieria salentina – la più grande d’Europa – si producono appena 3 milioni di tonnellate l’anno a fronte di una capacità di 8. La scorsa settimana si è fermato per manutenzione anche l’Altoforno 2, ma il problema più urgente è che i soldi in cassa sono finiti: le banche non concedono più finanziamenti, i creditori bussano alla porta, le forniture di gas vanno avanti in via straordinaria. La chiusura non è mai stata così vicina. Brutta fine, per quello che un tempo era il gruppo siderurgico numero uno del Vecchio Continente. Un fallimento su cui gravano enormi responsabilità anche della politica, incapace per undici anni di trovare una soluzione per tenere in vita un settore strategico come l’acciaio.
Anche il Governo Meloni è inciampato sull’Ilva, che per il 40% fa capo all’agenzia pubblica Invitalia. Dapprima l’esecutivo sembrava intenzionato a dar corso al piano di nazionalizzazione che era stato varato dal Governo Conte 2, poi è stato fatto trapelare che era in corso una trattativa con Arcelor Mittal per lasciare il controllo, ora la multinazionale asiatica fa i capricci e Palazzo Chigi non sa che fare: da un lato c’è un’industria che sta per andare definitivamente gambe all’aria, dall’altra – se gli indiani non cambiano idea – l’unica opzione è un salvataggio con fondi statali.
Il ritorno dello Stato
Anche su un piano più generale, la cosiddetta “Melonomics” non sta funzionando granché. Nei primi nove mesi del 2023 la produzione industriale in Italia è calata quasi del 3% rispetto all’anno precedente. Il Governo paga certamente una congiuntura non facile a livello internazionale, ma ha anche fatto ben poco di concreto per invertire la rotta.
Chi si attendeva un maggior dirigismo con l’avvento dei patrioti è rimasto deluso: i Fratelli d’Italia proseguono nel solco del liberismo già scavato dai precedenti esecutivi. Del resto, la presidente del Consiglio lo aveva annunciato fin dal giorno del suo insediamento: «Il nostro motto sarà “non disturbare chi vuole fare”».
Peccato che la politica del laissez faire, almeno nel nostro Paese, abbia portato a un drastico crollo degli investimenti pubblici e privati, che nel 2000 assorbivano ancora il 21% del Pil e nel 2019 – cioè appena prima del Covid – erano scesi al 18%, ben cinque punti sotto la media Ue.
E pensare che proprio dalla culla del capitalismo, gli Stati Uniti, arriva forte e chiaro il messaggio che è ora di invertire la rotta. Che cioè la globalizzazione è finita, o quantomeno cambiata. E che dunque occorre riportare in casa propria le fabbriche, e finanziarle con robuste iniezioni pubbliche.
L’Inflaction Reduction Act varato dall’Amministrazione di Joe Biden vale 740 miliardi di dollari: denaro pubblico pompato alle imprese per stimolare la ricostruzione di un’industria all’avanguardia degna di una superpotenza mondiale. E l’Unione europea ha risposto, oltreché con il Next Generation Eu, con il Net Zero Industry Act, un pacchetto analogo da 600 miliardi di euro.
Intanto, sul fronte interno, si registrano incoraggianti passi verso il futuro da parte di un manipolo di aziende illuminate, come Lavazza, Essilor Luxottica e Lamborghini (quest’ultima controllata dai tedeschi di Audi), che hanno deciso di sperimentare la settimana lavorativa di quattro giorni. Chi l’ha già testata all’estero ne ha ricavato risultati positivi non solo in termini di soddisfazione tra i dipendenti ma anche dal punto di vista della produttività. In un mondo che cambia chi si ferma è perduto.