Come fosse un film già visto, con la stessa sceneggiatura e i soliti attori e comparse solo un po’ più stanchi, assistiamo increduli e impotenti a un’altra crisi finanziaria e bancaria internazionale. I governi tranquillizzano, le banche centrali balbettano, i mercati scendono e i tassi salgono. Intanto piccoli e grandi predatori della finanza fanno quello che vogliono e incassano il malloppo prima che arrivino, sempre in ritardo, le forze del bene.
Viviamo in un mondo in cui le difficoltà di una banca americana che si regge sulle start up e il venture capital si riverberano immediatamente sul costo dei mutui, dei prestiti, erodono i nostri risparmi.
E mentre cadono le Borse mondiali, dalla pacifica e opulenta Svizzera emerge la crisi di un blasonato istituto di credito come il Credit Suisse, non proprio un esempio di trasparenza e correttezza, in un sistema protetto e segreto come quello delle banche elvetiche che, in passato, ha custodito i patrimoni illegali di gente come Manuel Noriega detto “faccia d’ananas” o i proventi dei mafiosi della Pizza Connection.
Negli ultimi vent’anni e più, la corsa sfrenata al profitto personale e di casta, la drammatica patologia dei nostri tempi, ha creato la squadra senza frontiere dei “manager stockopzionisti”, autoreferenziali e arroganti, responsabili, secondo la definizione del professor Giulio Sapelli, del «colpo di stato mondiale» che abbiamo subito senza ribellarci.
Ma in questa pandemia finanziaria 2023 c’è anche altro. S’insinuano manovre, alleanze, trame di politica internazionale. Tutto si tiene.
Dalla Silicon Valley ai caveaux di Lugano, dalla Cina ai sauditi, che, secondo gli analisti più sospettosi, osserverebbero compiaciuti le difficoltà dei mercati e dell’Occidente. Non è stata forse la Saudi National Bank, importante azionista con quasi il 10% del capitale di Credit Suisse, a negare nuova liquidità alla banca elvetica facendo esplodere la crisi e costringendo la Banca centrale svizzera a erogare un prestito di 50 miliardi?
Non è stata forse la Cina ad avvicinare Arabia Saudita e Iran, dopo anni di scontri, e a pianificare una nuova inquietante alleanza in funzione anti-occidentale e per indebolire il processo degli Accordi di Abramo in Medio Oriente?
E il nuovo capo del governo di Pechino, Li Qiang, non è forse lo stratega cinese per la conquista e il controllo delle tecnologie, il regista che ha condotto e finanziato la mega-fabbrica di auto elettriche di Elon Musk a Shanghai?
Ecco, dunque, che le difficoltà delle banche, il crollo di Big Tech e dei mercati non riguardano solo bilanci, speculazioni o errori, pur rilevanti. Si può leggere questa congiuntura caotica con uno sguardo diverso, seguire alcuni fili senza sapere dove conducono.
Déjà vu
La certezza, ora, è che il capitalismo americano ci presenta lo spettro di un’altra crisi che dalla California travolge i mercati internazionali e ovviamente anche la tenera Europa dove l’Eurogruppo «vigila» e il nostro ministro Giancarlo Giorgetti, il leghista che ha studiato, «monitora la situazione».
Il ricorso al Chapter 11, l’amministrazione controllata, della Silicon Valley Bank (Svb), un istituto di credito che opera soprattutto nell’area dove nascono e muoiono i campioni o i brocchi della Rete, ha prodotto effetti pesantissimi negli Stati Uniti, che godono di un’economia più che brillante, e nel resto del mondo.
La memoria di molti è tornata indietro di qualche anno, tra il 2007 e il 2008, al collasso finanziario partito sempre negli Stati Uniti con la crisi dei subprime, i mutui senza copertura piazzati a sottoscrittori che non potevano sostenere l’impegno.
Barack Obama era appena entrato alla Casa Bianca e si trovò in un mare di guai con la crisi delle banche, della finanza, delle assicurazioni che si estendeva all’industria, al lavoro. Fallì la Lehman Brothers, la banca che non poteva fallire. Le Autorità irrigidirono i controlli, l’amministrazione approvò nuove norme a tutela del regolare funzionamento dei mercati e per rispettare i risparmiatori. Norme che tuttavia non sono servite a niente, perché dopo sono state smantellate.
Chi vuole fare soldi, sempre di più, senza timori, non guarda in faccia nessuno e trascura regole, e sanzioni. È sempre stato così e chi oggi ingenuamente si sorprende dell’ultimo crack con effetti planetari fa la parte di Biancaneve. Una miscela di comportamenti predatori, di arroganza e anche di stupidità caratterizzano queste ultime vicende, ma non è una formula nuova, ricalca quanto già successo con l’«Euforia irrazionale» a cavallo del nuovo secolo, quando scoppiò la bolla delle imprese dot com, oppure la truffa e il fallimento del colosso energetico Enron, che mise sul lastrico migliaia di lavoratori e pensionati, e ancora la raffinata rapina di Bernard Madoff ai miliardari newyorkesi.
Ogni volta la politica e i controllori rassicurano, garantiscono che non succederà più. Ma poi la trama e l’imbroglio si ripetono, sempre uguali. I pirati di Wall Street hanno il potere e la capacità di aggirare le leggi, di superare le nuove norme, di riverniciare continuamente una credibilità inesistente. Il denaro è una tentazione irresistibile, soprattutto quando in giro ce n’+ tantissimo, come è avvenuto negli ultimi anni.
Scelte azzardate
Le regole più severe di Obama sono state smontate da Donald Trump anche su richiesta dei giovani imprenditori digitali, anche su pressione degli stessi vertici della Silicon Valley Bank. La svolta restauratrice del tycoon si è realizzata con la frammentazione dei controlli della Federal Reserve, una deregulation che ha portato ai guai di oggi.
La politica non è mai distante dal potere economico e finanziario, la commistione indebita tra interessi privati e amministrazione pubblica può produrre effetti devastanti. Jerome Powell, consigliere di Trump proprio per addolcire le misure di Obama, è rimasto alla guida della Fed, che nell’ultimo anno ha portato i tassi di interesse da zero a oltre il 4%, seguita su questa linea anche dalla Banca centrale europea.
La Silicon Valley Bank è stata strozzata da investimenti azzardati, dalla stretta monetaria e dalle difficoltà delle società tech che, tra un’ondata di licenziamenti e un calo dei consumi, hanno chiesto i loro depositi. Aveva bisogno di trovare subito oltre 2 miliardi di dollari per riequilibrare una perdita di circa 1,8 miliardi sul mercato obbligazionario.
Con un patrimonio superiore ai 200 miliardi di dollari, la Svb ne aveva oltre la metà investiti in bond a lunga scadenza e quando la Federal Reserve ha iniziato ad alzare i tassi di interesse – e non ha ancora finito – il patrimonio è crollato. La banca non è stata in grado di far fronte alle normali richieste dei clienti, dei correntisti, spesso start up e investitori digitali. Casse in via di svuotamento, al limite del default.
Un cortocircuito tra le difficoltà delle imprese tecnologiche, le scelte temerarie di giovani imprenditori convinti di poter emulare Bill Gates e Steve Jobs, l’arroganza di banchieri troppo liberi e senza controlli adeguati.
Il presidente Joe Biden, che non può pensare di ricandidarsi con questa crisi, assicura che le perdite delle banche «non saranno a carico dei contribuenti americani», che «il sistema bancario è sicuro», che «i depositi dei cittadini saranno lì quando ne avranno bisogno».
La Casa Bianca, facendo un grande favore alla California, bacino elettorale dei democratici, ha assicurato che tutti i correntisti delle banche in crisi riavranno i loro soldi, inclusi coloro che avevano depositi superiori ai 250mila dollari, non garantiti per legge.
Sono attese altre misure per rafforzare il sistema bancario, tra cui un piano interbancario di prestiti per i gruppi in difficoltà coordinato dalla Fed. Ma la sicurezza di Biden è messa a dura prova dai fatti perché, dopo la Svb, anche la Signature Bank ha sospeso l’attività, mentre alcune banche regionali come la First Republic sono a rischio e il sistema creditizio Usa è intervenuto con 30 miliardi di dollari.
Nel Vecchio Continente
L’Europa e l’Italia, che rivendicano un sistema di controlli più severo e una solidità patrimoniale apprezzabile delle banche, sono strettamente legate agli Stati Uniti, nel bene e nel male. Il rialzo dei tassi di interesse oggi è il terreno comune, ma comanda Washington e Francoforte segue.
L’America ha imposto una stretta monetaria durissima per combattere l’inflazione e l’Europa si è adeguata. Il rialzo velocissimo dei tassi d’interesse deciso dalla Fed e poi dalla Bce per contrastare l’inflazione è stato un errore, secondo il premio Nobel Joseph Stiglitz, perché le banche centrali in questo modo stanno portando l’economia dritta dritta verso una nuova recessione.
D’altra parte, però, si può affermare che non si poteva pensare che il costo del denaro restasse per sempre vicino allo zero, come è accaduto per un periodo lunghissimo, dalla crisi del 2008 fino all’anno scorso, quando le società, l’economia, la scuola hanno ripreso a vivere dopo il biennio del Covid.
Questo eccesso di liquidità, questa disponibilità di denaro quasi gratis ha alimentato anche fenomeni come quello delle criptovalute, certamente poco edificanti oltre che poco trasparenti. L’Ue e il nostro governo assieme alle autorità monetarie hanno profuso serenità e ottimismo sul superamento di queste difficoltà, spesso generate al di fuori dai nostri confini. Il sistema bancario è sotto pressione anche se i nostri istituti di credito hanno chiuso il 2022 con profitti record.
Ma questa scossa arriva in un momento delicato. I tassi di interesse sono elevati, una linea stigmatizzata pubblicamente persino dal governatore della Banca d’Italia Ignazio Visco. Abbiamo un’inflazione ancora alta sebbene sotto i massimi, mutui e finanziamenti costano di più. E poi c’è la grande minaccia, finora tenuta in secondo piano: l’Italia ha un debito pubblico record di 2.762 miliardi di euro, il 134 per cento del Pil.
Che fare? Giorgia Meloni e il suo esecutivo dei patrioti sono felici perché l’ultimo Btp tricolore ha riscontrato una grande adesione anche tra i risparmiatori italiani premiati con interessi più congrui. Debito italiano, sottoscrittori italiani, una bella soddisfazione. Alla fine chi paga? Sempre i soliti. Speriamo che ci vada bene.
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