C’è un filo invisibile che collega il signor Rossi, che per fare il pieno alla sua Fiat Cinquecento ha appena speso 85 euro, e Mohammed Bin Salman, il principe ereditario dell’Arabia Saudita. Anche se Rossi forse non lo sa, le sue imprecazioni per il salasso del carburante sono dirette a Riad. Se la benzina e il diesel hanno toccato nelle ultime settimane prezzi alti come non si vedevano dal 2014, infatti, la ragione principale è da ricercarsi nelle decisioni dell’Opec, l’organizzazione dei Paesi esportatori di petrolio, di cui l’Arabia Saudita è uno dei membri più importanti.
Per capire cosa sta accadendo occorre però fare un passo indietro. Nell’aprile 2020, all’inizio della crisi pandemica che ha paralizzato il mondo, la quotazione dell’oro nero era precipitata a 21 dollari al barile (due mesi prima era 55). Per fermare la valanga l’Opec Plus (cioè l’Opec allargata alla Russia e altri Paesi) decise di tagliare del 10 per cento la produzione: vale a dire circa 9 milioni di barili al giorno in meno. In poche settimane la quotazione tornò su livelli più vicini alla normalità (45 dollari).
Ad agosto 2020 Arabia Saudita e soci hanno ricominciato ad aumentare gradualmente la produzione: 400mila barili al giorno in più ogni mese. Il problema è che, col passare del tempo, la domanda di carburante nel mondo, a cominciare dalla Cina, ha ripreso a marciare in modo sostenuto e – come accaduto per il gas – l’offerta ha risposto con rifornimenti centellinati. Così il petrolio a marzo è salito fino a 70 dollari al barile e a luglio è arrivato a 77. Ma il vero choc c’è stato a inizio ottobre, quando l’Opec ha deciso di non alzare il ritmo degli aumenti produttivi: da allora la quotazione del greggio è schizzata in modo repentino fino agli attuali 86 dollari (dato al 26 ottobre)…
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