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    Multa da 1 miliardo ad Amazon: l’Antitrust prova a fermare le Big Tech, ma ora deve muoversi l’Europa

    Credit: AGF
    Di Luca Serafini
    Pubblicato il 9 Dic. 2021 alle 11:13 Aggiornato il 14 Nov. 2024 alle 13:02

    Le Big Tech sono sempre più nella morsa dell’Antitrust italiana. Dopo la sanzione da 200 milioni di euro inflitta ad Amazon e Google, lo scorso 23 novembre, dall’Autorità Garante della Concorrenza e del Mercato (AGCM), stavolta arriva una maxi-stangata da oltre un miliardo di euro al colosso dell’e-commerce. In seguito a  un’istruttoria durata due anni e sette mesi, infatti, l’Antitrust ha stabilito che Amazon penalizzava alcuni rivenditori indipendenti che non utilizzavano il suo servizio di logistica. Proprio per questo motivo, la merce di questi rivenditori risultava meno visibile sulla piattaforma, con conseguenti e rilevanti danni in termini di vendite.

    I rivenditori indipendenti, in sostanza, sceglievano di non utilizzare una serie di servizi messi a disposizione da Amazon: custodia dei pacchi, imballaggio, consegna, svolgendo tutte queste operazioni in proprio. Per questo motivo, però, venivano esclusi dal sistema di consegna rapida di Amazon Prime, e non potevano nemmeno usufruire dell’opzione BuyBox, ovvero il pulsante che permette di acquistare un prodotto con un solo clic.

    Il mancato accesso a queste opportunità portava, secondo quanto sostiene l’AGCM, a numerose penalizzazioni: l’etichetta Prime consente infatti di accedere agli eventi speciali come Black Friday, Cyber Monday, Prime Day, e rende più probabile che il prodotto venga selezionato nelle Offerte in vetrina. Inoltre, la rapidità delle spedizioni con Prime rende più probabile per le aziende avere recensioni positive, che impattano poi sul posizionamento dei prodotti all’interno della piattaforma (poiché l’algoritmo, nell’ordinare i prodotti, tiene conto appunto delle recensioni dei clienti).

    In una nota, l’Antitrust ha spiegato: “Amazon ha impedito ai venditori terzi di associare l’etichetta Prime alle offerte non gestite con FBA (Fulfillment by Amazon, ovvero il servizio di logistica ndr). L’istruttoria ha accertato che si tratta di funzionalità della piattaforma Amazon.it cruciali per il successo dei venditori e per l’aumento delle loro vendite. Infine, ai venditori terzi che utilizzano FBA non viene applicato lo stringente sistema di misurazione delle performance cui Amazon sottopone i venditori non-FBA e il cui mancato superamento può portare anche alla sospensione dell’account del venditore. In tal modo Amazon ha danneggiato gli operatori concorrenti di logistica per e-commerce, impedendo loro di proporsi ai venditori online come fornitori di servizi di qualità paragonabile a quella della logistica di Amazon”.

    Inoltre, il meccanismo messo in piedi da Amazon, secondo l’AGCM, avrebbe provocato danni anche ai marketplace concorrenti, poiché scoraggiava i rivenditori che usano la logistica del colosso e-commerce dal servirsi anche di altre piattaforme online.

    L’Antitrust ha imposto ad Amazon il rispetto di una serie di standard che verranno puntualmente sottoposti a verifica, e volti a garantire pari condizioni anche ai rivenditori che non utilizzano il servizio di logistica del colosso dell’e-commerce. “Amazon dovrà concedere ogni privilegio di vendita e di visibilità sulla propria piattaforma a tutti i venditori terzi che sappiano rispettare standard equi e non discriminatori di evasione dei propri ordini, in linea con il livello di servizio che Amazon intende garantire ai consumatori Prime”.

    Amazon Italia ha commentato così la decisione dell’Antitrust: “Siamo in profondo disaccordo con la decisione dell’Autorità Garante della Concorrenza e del Mercato (AGCM) e presenteremo ricorso. La sanzione e gli obblighi imposti sono ingiustificati e sproporzionati. Più della metà di tutte le vendite annuali su Amazon in Italia sono generate da piccole e medie imprese, e il loro successo è al centro del nostro modello economico. Le piccole e medie imprese hanno molteplici canali per vendere i loro prodotti sia online che offline: Amazon è solo una di queste opzioni. Investiamo costantemente per sostenere la crescita delle 18.000 piccole e medie imprese italiane che vendono su Amazon e forniamo molteplici strumenti ai nostri partner di vendita, anche a quelli che gestiscono autonomamente le spedizioni”.

    L’offensiva europea contro le Big Tech

    Queste sanzioni dell’Antitrust italiana arrivano in un momento decisivo per quanto attiene ai rapporti tra le Big Tech e i sistemi di regolamentazione del mercato. Come stiamo documentando da diverse settimane sul settimanale The Post Internazionale – TPI, l’Unione Europea sta infatti cercando di creare un sistema di controllo delle concorrenza ex ante: le multe dell’Antitrust, per quanto sostanziose, non consentono di eliminare del tutto le pratiche anti-concorrenziali.

    Per questa ragione, l’Ue si appresta a varare il Digital Markets Act (Dma), una legge che vuole stabilire in partenza una serie di regole e di divieti per i colossi del digitale, al fine di evitare la formazione di posizioni monopolistiche. Come vi abbiamo spiegato sul nostro settimanale, tuttavia, il Dma risulta ancora piuttosto carente su alcuni punti, in particolare per quanto riguarda la regolamentazione del mercato del cloud computing.

    Alcuni grandi operatori del settore, infatti, attualmente rischiano di non rientrare nella categoria dei “gatekeeper”, ovvero quelle piattaforme che, a causa delle loro dimensioni e delle quote di mercato coperte, sono in grado di controllare (e potenzialmente bloccare) l’accesso delle aziende concorrenti ad applicazioni, infrastrutture, dati dei consumatori. Chi è individuato come “gatekeeper”, infatti, è sottoposto a regole rigide per evitare che possa sfruttare la propria posizione dominante a danno dei competitor. Chi invece non rientra in questa categoria, può continuare ad agire da monopolista.

    Inoltre, nel Dma  non vengono regolamentate in maniera stringente le licenze software per l’utilizzo dei servizi cloud: al momento, infatti, chi si affida a operatori come Microsoft o Oracle è sottoposto a vincoli di natura sia contrattuale sia tecnologica che gli impediscono di “migrare” verso servizi concorrenti. Si crea così, di fatto, un tappo che impedisce ad altre realtà del settore di crescere e di competere, e che danneggia le stesse aziende che mirano a digitalizzare i propri servizi: queste ultime, infatti, vengono private della possibilità di scegliere a quale operatore affidarsi.

    TPI, nelle ultime settimane, ha raccolto testimonianze da parte di numerosi operatori del settore cloud, sia italiani sia internazionali, che chiedono un miglioramento del Dma al fine di garantire una reale concorrenza in questo settore strategico del mercato digitale. Michele Zunino, amministratore delegato di Netalia, azienda italiana del cloud, ha dichiarato al nostro giornale: “Sarà necessario non replicare modelli in cui il mercato è dominato da sistemi proprietari, come quelli di Microsoft, Oracle o Amazon Web Services. Bisogna garantire la possibilità di scambiare dati tra diversi cloud provider ed eventualmente migrare da un provider all’altro con facilità, senza vincoli tecnologici. Solo l’interoperabilità tra le varie piattaforme può permettere una reale apertura del mercato, che vada a vantaggio sia delle aziende sia degli utenti”.

    Paola Generali, presidente di Assintel, l’associazione nazionale di riferimento delle imprese ICT e digitali, ha chiesto all’Europa un’azione efficace: “Le licenze software rivestono un ruolo chiave nel cloud. Di conseguenza, è imperativo che le cattive pratiche e i comportamenti sleali e anticoncorrenziali vengano considerati parte del DMA. Si tratta di pratiche che danneggiano le imprese, limitandone la scelta e negando ai consumatori il miglior mix di prodotti e servizi. In questo momento, la legge europea è priva di elementi fondamentali che permettano alle aziende cloud e ai loro clienti di fare affidamento su di essa per bloccare gli abusi dei big del software. Un gap che dovrà essere superato al più presto da Parlamento e Consiglio Europeo per continuare a garantire l’innovazione in Europa, e recepito poi in tutti i Paesi membri, inclusa l’Italia».

    Sul prossimo numero di The Post Internazionale – TPI, in edicola da domani, venerdì 10 dicembre, troverete altre testimonianze di operatori europei del cloud che denunciano le pratiche sleali e anti-concorrenziali delle Big Tech, e che chiedono all’Europa di intervenire in maniera decisa, migliorando il Dma e ponendo fine a una situazione che impedisce alle aziende medio-piccole di crescere.

    Leggi l'articolo originale su TPI.it
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