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Il vento dell’Est – Storie di un mondo in rivolta

Un estratto del libro di Paolo Brogi, Ce n'est qu'un début, storie di un mondo in rivolta

Di Paolo Brogi
Pubblicato il 21 Nov. 2017 alle 18:14 Aggiornato il 28 Mar. 2018 alle 19:34

Praga, 1 novembre 1967. Il comitato centrale del partito comunista viene sospeso, una delegazione deve partire per Mosca dove deve assistere alla commemorazione del cinquantenario della rivoluzione d’ottobre.

Ma prima che la delegazione parta giunge la notizia di una massiccia manifestazione degli studenti dell’università che protestano per l’ennesimo black out elettrico con conseguente mancanza anche dell’acqua calda. Stanno sfilando con migliaia di candele in mano…

Antonin Novotny, il capo conservatore del partito, non ha tempo per verificare la situazione. L’aereo per Mosca deve decollare.

Gli studenti della cittadella universitaria di Strahov si trovano all’improvviso di fronte la polizia. E’ la prima volta che una manifestazione improvvisata e spontanea si svolge a Praga. Il regime è preso in contropiede. La polizia carica ed esagera in brutalità. I feriti sono parecchi.

Il quotidiano “Prace”, organo ufficiale dei sindacati, il giorno successivo ceca di gettare acqua sul fuoco: “Praga non parlava che di questo ieri: l’enorme manifestazione degli studenti. Una manifestazione contro chi e contro cosa?  E come questa pretesa manifestazione si è svolta?

Verso le 20 i portavoce degli studenti interni si erano incontrati per ascoltare le difficoltà materiali sopraggiunte neri dormitori di Strahov, difficoltà che non erano nuove, e che si erano ripetute per tutto l’anno. Per esempio gli studenti non avevano né luce né riscaldamento. Nel corso della riunione le luci del resto si sono spente mezz’ora dopo l’inizio. Una grande confusione è seguita. Gli studenti hanno marciato intorno agli edifici reggendo candele e all’improvviso qualcuno ha gridato: “Scendiamo in città!”, “Vogliamo la luce elettrica!”, “Vogliamo studiare!”. Sono andati fino alla via Neruda e hanno fatto dietrofront. Alcuni di loro che erano rimasti sul posto sono stati arrestati dalla polizia ma sono stati rilasciati di lì a poco….”.

Su “Reporter”, settimanale dell’Unione dei giornalisti, compaiono però queste testimonianze assai meno banalizzanti:

“J- Un membro della sicurezza ha sfondato la porta e mi ha spruzzato, a un metro di distanza, un getto di gas lacrimogeno negli occhi. Un altro mi colpito col suo manganello sulla scapola…

H- Ho sentito un violento colpo sulla schiena e, sorpreso, mi sono voltato. Per riflesso ho sollevato il braccio destro e subito ho sentito sull’avambraccio un secondo colpo, diretto al volto…

K- Mi sono seduto per terra…Ho visto dei membri della Sicurezza avanzare per colpirmi. Il giorno dopo ho contato i colpi: ne avevo ricevuti otto…

H (ragazza) – Il membro della Sicurezza distribuiva i colpi alla cieca e ne ho ricevuti anch’io.

N (studente straniero) – Il membro della Sicurezza mi ha urlato: “Vai a dormire, negro”. Quando ho chiesto cosa succedesse mi ha assestato una manganellata sul cranio.

H (studente straniero)- L’agente si è messo a colpirmi, colpiva anche sui denti, bastonava terribilmente come su un cane e questo non era abbastanza, ne è arrivato un altro che mi ha colpito ancor più forte…

T (studente straniero) –Mi sono avvicinato, mi hanno acchiappato e si sono messi a manganellarmi dicendo: “Oggi ti abbiamo preso, faccia di negro, e avrai quello che ti meriti!”. Io stavo solo tornando dal cinema…

J – Sono stato afferrato da parecchie braccia e sono stato percosso. Ho ricevuto un colpo sul braccio e subito dopo colpi al viso. Ho cominciato a sanguinare. Li ho pregati di smettere, avrei fatto quello che volevano, ma senza risultato: menandomi mi hanno portato all’esterno della città universitaria. Fuori sono stato afferrato da altri due che mi hanno picchiato ancora. I colpi mi piovevano addosso senza sosta e mi hanno trascinato un po’ più lontano. Sulla spianata un colpo in testa mi ha fatto quasi perdere conoscenza e sono caduto per terra dove ho ricevuto pugni e pedate. Trascinandomi verso un’auto mi hanno minacciato dicendomi che era la fine dei miei studi, che sarei stato processato e inviato ai lavori stradali…”.

Forse la vera primavera di Praga inizia così, con le candele in mano, gli studenti, la brutalità poliziesca. Il resto continua ad agitarsi meno pubblicamente, dentro il partito e nel comitato centrale, lo scontro tra i conservatori di Antonin Novotny e il nuovo corso di Alexander Dubcek.

Novotny al ritorno da Mosca si dà malato. I suoi guai con i rinnovatori sono in piena crescita. Neanche Leonid Breznev che fa una capatina l’8 dicembre riesce a mettere ordine. Il 12 dicembre agli ordini del generale stalinista Janko si effettuano manovre militari. Seguono vari complotti e in gennaio Novotny deve dare forfait: lascia la guida del governo.

Poco dopo scoppia anche l’affare Sejna, un oligarca (Jan Sejna) che per malversazioni fugge in Occidente. La vicenda è alla ribalta, uno dei primi effetti della primavera di Praga è la fine della censura.

Poi ecco che dalle università il nuovo corso viene accompagnato dalla nascita di una associazione del tutto nuovo all’Est, si chiama K.A.N. (Klub Angazovanych Nestraniku, Associazione dei senza partito impegnati).

Il 5 aprile i “nestraniku” si riuniscono in 144 sotto la guida di un comitato preparatorio composto dall’insieme di docenti universitari legati ai vari istituti delle scienze cecoslovacchi.

“Obiettivo del Club dei senza partito – proclama il manifesto programmatico – è di raggruppare i cittadini che non appartengono a nessuna organizzazione politica per avere la possibilità di prendere parte attiva nella vita politica”.

Ivan Svitak, filosofo di rango, intervenendo il 29 marzo del ’68 alla conferenza dell’Unione degli artisti cecoslovacchi del cinema e della televisione afferma con grande chiarezza: “La burocrazia di una dittatura totalitaria ammette abbastanza facilmente cambi di persona, ma teme i cambiamenti di struttura che combatterà con tutte le sue forze…”.

In molti paesi dell’Est il vento del ’68 è arrivato.

Lo capisce la Polonia quando in gennaio registra l’arresto di cinquanta studenti a Varsavia. Fanno parte di un massiccio assembramento che si è creato contro la proibizione della messa in scena di “Dziady” (Gli avi), un testo teatrale dell’800 di Adam Mickiewicz. Qual è il problema? Il testo contiene un’ode contro la sopraffazione zarista. Il regime teme che lo spettacolo inneschi una protesta antisovietica. Per il partito al potere e il segretario Wladyslaw  Gomulka questo rischio è da evitare. Il 15 febbraio comunque Irena Lasota presenta una petizione contro la censura sottoscritta da studenti e intellettuali. Il 29 c’è una manifestazione a cui aderisce l’Unione degli scrittori polacchi, il 4 marzo la risposta è repressiva: vengono arrestati Adam Michnik e Henryk Szlajfer, due figure di riferimento del movimento di protesta.

Gli studenti universitari di Varsavia però non subiscono in silenzio. Alla prima manifestazione, l’8 gennaio, sono in mille. Si verificano scontri con la polizia che entra dentro l’università di Varsavia. Per tre giorni si susseguono scontri che poi dilagano nel centro della capitale polacca. L’agitazione si estende a tutte le università polacche, i media riportano i fatti malamente e vengono attaccati. Gli studenti manifestano l’11 marzo a Varsavia, a  Cracovia e nel resto del paese, a Gliwice, Lodz, Lublin, Katowice, Poznan, Opole, Wroclaw. A Gdansk il 15 marzo sono in 20 mila, presenti anche numerosi operai. In poco tempo, dal 7 marzo al 6 aprile, vengono arrestate 2.725 persone. Ma ormai sono coinvolti anche i nomi prestigiosi della cultura, da Leswzek Kolakovski a Wlodzimierz Brus, da Bronislaw Baczko ad Adam Schaff. La richiesta è libertà di informazione, di discussione, di critica e di partecipazione politica.

Gomulka si rivolge agli studenti puntando il dito contro gli studenti ebrei e i professori riformisti: sono loro a fomentare i disordini. Tra gli accusati ci sono intellettuali famosi come Zigmunt Bauman.

Il 21 marzo vengono occupate le sedi universitarie di Cracovia, Lublino e Varsavia. Il giorno successivo a Varsavia gli studenti fanno un sit-in assediato dalla polizia e ascoltano Chopin. A notte fonda devono abbandonare l’università dopo un nuovo ultimatum della polizia, i professori coinvolti vengono licenziati. Ebrei come Bauman lasciano il paese: da quel momento e per tre anni l’esodo di ebrei non si arresta più. La popolazione ebraica sopravvissuta all’immane Shoah nazista viene dimezzata, la presenza di ebrei in Polonia passa da 30 mila a 15 mila. E dei 15 mila fuoriusciti 1832 erano legati alle università. Intanto nei campus polacchi la protesta continua.

La Polonia si ricorderà di tutto questo alla fine del decennio successivo dando vita a Solidarnosc.

In giugno tocca alla Jugoslavia di Tito. Il 2 giugno, a Belgrado, i giovani vengono cacciati da uno spettacolo a Studentski Grad  in cui vogliono entrare gratis.

Dalla periferia in massa tornano a piedi in centro, fanno sei km al grido: “Abbasso la borghesia rossa”. Qualche raro esponente della Lega dei Comunisti, come Veliko Vlahovic leader degli studenti prima della guerra, cerca di frenarli. Una ragazza salta su un mezzo dei pompieri, arringa i poliziotti che fronteggiano gli studenti. Niente da fare. La polizia carica. ”La studentessa Mostarac è restata ferita alle gambe…”, si legge nei primi resoconti.

L’indomani i giornali scrivono di disordini provocati da hooligans. E’ troppo.

Scatta allora l’occupazione dell’università,si occupano filosofia, giurisprudenza, ingegneria meccanica, le accademie d’arte. Il 4 giugno un’assemblea generale ribattezza l’ateneo “Cvreni univerzitet Karl Marks” (Università rossa Karl Marx). Il richiamo agli studenti tedeschi dell’Sds e alla loro università a Berlino Karl Marx è diretto. Gli studenti affiggono cartelli e striscioni. Si legge: “Basta con la corruzione”, “I nostri problemi sono anche i problemi dei lavoratori”.

Dal quartier generale che è la facoltà di filosofia si chiede anche la rimozione del ministro dell’interno e dei dirigenti radiotelevisivi che li hanno trattati come teppisti. Inoltre si chiede libertà di stampa e di riunione, lo smantellamento della burocrazia, la punizione dei poliziotti brutali. Vengono occupate anche altre facoltà.

Le autorità chiudono i giornali studenteschi come il settimanale degli universitari, gli studenti leggono gli articoli censurati col megafono.

Molti professori solidarizzano con loro. Entrano in agitazione anche le università di Zagabria, Lubiana e Sarajevo..

Il 9 giugno il presidente Tito in tv appoggia le richieste degli studenti, criticando governo e partito per non saper accogliere le richieste di democratizzazione, di abolizione dei privilegi, di misure contro la disoccupazione. Dice anche: “Nessuno è insostituibile, neanche io”.

Mentre alcune facoltà smobilitano a filosofia si tiene duro. Intellettuali prestigiosi si schierano con gli studenti. Parte4ggiano apertamente la poetessa Desanka Maksimovic e la scrittrice Mira Maksimovic, il regista Dusan Makavejev, lo scrittore Borislav Mihajlović Mihiz, l’attore Bata Paskaljevic, il regista Živojin Pavlović, lo scrittore Borislav Pekic, il poeta Dusan Radovic, lo scrittore Slobodan Selenic, l’attore Danilo Stojkovic, l’attrice di teatro Mira Stupica, il giornalista e saggista Bogdan Tirnanić…

Il compositore Vuk Stambolic compone una canzone il cui ritornello è “le…leva…leva” (sinistra…sinistra…sinistra). Infine il grande attore Stefan Stevo Zigon mette in scena dentro l’università tra grandi ovazioni “La morte di Danton”.

La misura è colma. 

Il 10 luglio Tito cambia tattica e attacca gli studenti definiti estremisti, la polizia procede allo sgombero degli edifici occupati, la Lega dei comunisti espelle i docenti che si erano schierati con gli studenti.

Il gruppo della rivista “Praxis”, da sempre cenacolo intellettuale critico del sistema, viene fatto fuori dall’università. Tra gli allontanati i filosofi Mihailo Markovic e Ljubomir Tadic, soprattutto il riferimento di tutti Miladin Zuvotic. Zuvotic rientrerà nell’università sette anni dopo la morte di Tito, nel 1987.

L’Est non sopporta critiche, neanche in Iugoslavia.

Il tallone di ferro scatta il 21 agosto con i carri armati del Patto di Varsavia che entrano dentro Praga. Il 23, da Praga, esce questa lettera-appello lanciata da uno studente:

“Praga 23 agosto 1968

Sono uno studente cecoslovacco e ho ventun anni. Mentre scrivo questo appello sotto le mie finestre staziona un gran numero di carri armati sovietici con cannoni puntati sul palazzo del governo, da dove campeggia la scritta “Per la pace e il socialismo”. Questa scritta io ricordo di averla vista su quel palazzo fin dal tempo in cui la mia coscienza si apriva al mondo. Solo sette mesi sono tuttavia passati da quando questa frase ha assunto il suo originario significato. Per sette mesi il mio paese è stato governato da quanti, forse per la prima volta nella storia, avevano intrapreso il tentativo di conciliare tra loro democrazia e socialismo. Ma al momento attuale non sappiamo dove costoro siano stati condotti; non sappiamo nemmeno se li rivedremo o potremo ascoltarli ancora. Molte

sono le cose di cui non so nulla. Non so ad esempio quando le libere trasmissioni radiofoniche che ci tengono informati della verità saranno messe definitivamente a tacere dai soldati sovietici. Non posso sapere se riuscirò mai più a mettermi in contatto con i miei amici all’estero e se comunque potrò, come era mia intenzione, finire gli studi universitari; ma da questo momento ogni cosa perde il significato che aveva prima. Alle tre del mattino del 21 agosto 1968 mi sono risvegliato in un mondo completamente diverso da quello nel quale mi ero addormentato poche ore prima.

Forse penserete che i cechi si siano comportati da codardi, perché non hanno combattuto. Ma non si possono fronteggiare i carri armati a mani nude. Voglio invece assicurarvi che cechi e slovacchi si sono comportati da persone politicamente mature che possono essere piegate fisicamente ma non moralmente; questo mai.

E’ per questo che vi scrivo. Potete esserci di aiuto soltanto in un modo: non dimenticate la Cecoslovacchia. Vi chiediamo di sostenere la nostra resistenza passiva e rafforzare gradualmente la pressione dell’opinione pubblica del mondo intero.

Pensate alla Cecoslovacchia anche quando non farà più sensazione sui giornali.

La sola Cecoslovacchia che riconosciamo è la Cecoslovacchia libera e neutrale.

Uno studente”.

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