Tornato in spirito, come una ombra che prima di abbandonare il mondo decida di dettare il proprio epitaffio, lo scrittore russo-francese Gabriel Matzneff ha fatto circolare una autentica samizdat, ‘Vanessavirus’; risposta in stile barocco e sofferto allo stritolamento delle proprie ossa, messo in scena dal mondo letterario mondiale dopo che si è scoperto l’ovvio, e cioè che al letterato piacevano le ragazzine.
Lo sapevano tutti, ma tutti fingevano di non vedere. Tra ori e allori di premi letterari, e recensioni entusiastiche, era tutta una gara a stringere le mani di Matzneff, nascondendo e celando sotto la coltre spessa delle giustificazioni morali quei peccatucci. E però poi arriva il romanzo memoir di Vanessa Springora, trasvolato anche in Italia, edito da Nave di Teseo col titolo ‘Il consenso’, e tutti, in quel preciso istante, fan cadere a terra il velo di Maya e si dicono sconvolti, oltraggiati, feriti, disgustati, aggiungete pure altri verbi a piacere purché tutti aumentino il raccapriccio per il fetido orco.
Oh, un pedofilo. Lo scoprono ora. Adesso, non è più Gabriel Matzneff, scrittore. Ora è Gabriel Matzneff, scrittore e pedofilo. Colui che ha dato alle stampe il volume ‘I minori di sedici anni’, una delle poche cose arrivate anche da noi per i benemeriti tipi editoriali della ES.
Colui che aveva composto con scrupolosa diligenza tutte le sue scorribande sessuali in esotiche località tanto francesi quanto orientali, e impilate parola dopo parola, ferita dopo ferita, squallido bordello dopo squallido bordello, le avventure con ragazzini e ragazzine di undici, dodici, tredici anni, si riscopriva alla nuda e calda luce del giorno per un mostro: se lo rimiravano, indignati e scaltramente contriti, gli amici di un tempo, le amanti maggiorenni, i giornalisti, gli apologeti, i politici e quel mondo che tutto aveva perdonato ai Foucault e ai Sartre, e che per lui stesso era rimasto in silenzio, facendo finta di non leggere e di non vedere.
Ci aveva scritto sopra un fluviale diario di perversioni e raccapriccio, uno dei cui volumi recita a mò di titolo ‘Mes amours decomposes’, edito da Gallimard e che in Italia non è mai arrivato, se non nella forma obliqua, parziale e collaterale di stralci, frammenti e smozzicamenti ripresi da quei paperback di criminologia e di indignazione terzomondiale che potevi comprare di notte alla Stazione Termini, come ad esempio ‘Bambini di vita’, di Marie-France Botte, una analisi del turismo sessuale in Thailandia in cui Matzneff è plurimamente citato e alcuni stralci dei suoi diari sono tradotti.
‘Vanessavirus’, che nessuno ha voluto pubblicare in Francia e che in Italia è stato coraggiosamente edito in questo 2021 dalla Liberilibri, con traduzione di Giuliano Ferrara, in una sorta di curioso rovesciamento di tutte le altre opere, non è una risposta, una replica o una presa di posizione cronachistica su quanto ha scritto la sua ex amica ed amante, che sull’onda emotiva di indignazione collettiva da Me Too scopre decenni dopo il fattaccio di aver consumato una relazione non d’amore ma d’abuso.
E già l’incipit del libretto è colmo di sepolcrale consapevolezza, quella di chi ha l’occhio fisso verso l’orizzonte nero della notte e della morte, la descrizione analiticamente crudele di una autentica caccia all’uomo: e pure Matzneff, che è uomo sagace, di mondo, lo dice subito, chiaro, dimenticatevi il Me Too e le consapevolezze tardive perché di quell’amore, di quella relazione con l’allora quattordicenne, se ne era scritto, se ne era recensito, e tutti, ma proprio tutti, sapevano.
Lo scrittore, questo libertino metafisico che si aggira in carne macilenta e fratturata tra le aule silenziose di un mondo che lo respinge, scrive in apertura di essere sopravvissuto al Coronavirus, ma che, con lucida consapevolezza, non sopravviverà al Vanessavirus.
In ritiro, non spirituale, a Bordighera, in Italia, lontano dalla Francia dove infuria la polemica per la pubblicazione del libro della Springora, Matzneff sente la fine farsi drammaticamente vicina: anzianità e un cancro, e il peso di una solitudine da reietto, proscritto, scacciato dal consesso civile, ripudiato e rinnegato in fretta da chi prima gli stendeva non metaforici tappeti rossi.
Ma la cosa peggiore che potrebbe fare, e Matzneff è troppo lucido e crudamente intelligente per commettere quell’errore, è compatirsi e dirsi vittima. Per questo, respinge al mittente qualunque inferma patente di vittimismo, o peggio ancora si evita di accodarsi agli indovini ciechi che già elogiarono i Sartre o i Foucault, obliando i peccatucci collaterali ardenti sotto la cenere: perché Matzneff non ha propriamente quella sovrastruttura progressista da doppio standard morale nel cui nome tutto santificare e perdonare.
Lo scrittore non sottovaluta la tempesta che va annunciandosi lungo la linea d’orizzonte, ma con enfasi ortodossa e spirito aristocratico se ne rimane fermo, immobile, indurito per la gioia dell’eternità, insensibile a quel che si dice di lui: un vezzo acquisito dopo le prime sbronze autoreferenziali, collimate con il consiglio di Montherlant di informarsi su cosa si dicesse e scrivesse delle sue opere, e che poi una volta virato l’interesse dal letterario all’esistenziale e al sessuale, Matzneff superò, chiudendosi a riccio nel non interesse per recensioni e pettegolezzi.
E se questa metodologia, unita al pietoso contegno dei pochi amici rimasti che gli evitano di venir in contatto con la parte peggiore, con la faccia feroce, della polemica che monta ed arde, lo preserva nel suo soggiorno in una Italia sconvolta dall’infuriare selvaggio della pandemia, ad un punto la corda si spezza e gli argini si frantumano, e il fiume di bile nera, di odio, di risentimento cade sulle spalle dello scrittore: minacce di morte, una manifestazione sotto la sua casa francese agevolata, scrive Matzneff, da un quotidiano che non ha trovato di meglio che pubblicare il suo indirizzo. Amici che lo rinnegano alla velocità della luce, e che anzi, convertiti al verbo di Vanessa, fanno a gara nell’accusarlo e nel descriverlo da vicino, come entomologi del disgusto antropologico.
Ma Matzneff non rimane semplicemente sulla difensiva, come se questo librino fosse un memoriale pronto ad un qualche uso processuale: perché le pagine più intense, più poeticamente ctonie e dolorose, sono quelle in cui viene ricostruito il tempo dell’amore, intenso, vibrante, con la quattordicenne Vanessa, un amore che tutto ha travolto, compreso il comprensibile ostracismo dell’ambiente sociale e della famiglia.
E leggere di quelle pagine, di quel tempo spezzato, la sospensione delle emozioni e lo sgorgare del sangue in un intricato arabesco di ferite e tagli che, per Bataille, erano il senso stesso della letteratura, lascia con uno strano moto alla bocca dello stomaco: c’è qualcosa di sbagliato, viene da pensare, eppure è tutto così deliziosamente articolato, così intenso, così vero.
E quando leggiamo di Cioran tentato uomo di pace, pontiere che cerca di ricucire lo strappo di Vanessa ancora ragazzina nei confronti di Matzneff, ci sentiamo catapultati in un mondo che forse è solo onirico e trasognato, lo spereremmo quasi, e che invece sappiamo esserci davvero stato. E pure ci augureremmo una fine migliore rispetto al dramma della dissoluzione che fu dell’Humbert Humbert affrescato da Nabokov.
Matzneff si situa su quella immaginifica scia ellittica che ha accomunato il dolore viscerale di una esistenza inquieta, sofferta, caotica e di una penna brillante, quella pattuglia inaccettabile di autori che il mondo della letteratura preferirebbe saper alle prese solo con la scrittura, e non avere alcuna aderenza a un progetto di vita reale: automi dalla scrittura sagace, senza vita vissuta, perché addentrarsi nelle pieghe ombrose di quella esistenza sarebbe troppo sconvolgente, troppo inaccettabile appunto.
L’abisso dentro cui guardare e da cui esser riguardati, fino a divenire una cosa sola con quella soglia di tenebra. I Tony Duvert e i Jean Genet, i Pierre Guyotat, i Peter Sotos e i Dennis Cooper, e prima a monte già Sade, quella furiosa accelerazione che avanza come un deserto dell’anima e che tutto travolge, a cominciare dalle loro stesse urgenze interiori.
E se abbassi il tuo naso, puoi sentirla quasi quella disperazione. Come nelle foto sgranate, granulose, confuse, disperate di un Antoine D’Agata, tra corpi macilenti e una perenne scoperta, epifania tra camere in disordine, sudore e malattie di corpo e mente, il turismo sessuale sospeso tra cielo e inferno, perché proprio come scriveva William Blake, la strada dell’eccesso conduce al palazzo della saggezza.
E chiunque conosca quella solitudine, quel senso imponente di nausea che travolge le viscere, quando rimani in silenzio, il fiato corto delle tue passioni, delle tue allucinazioni, delle tue sensazioni amplificate dal non poter avere nessuno a cui rivelarle, ecco che emerge la letteratura, il senso di squartarsi cioranianamente da soli: gli annunci, il mettere tutto solo il sole di rame di ogni giorno, e Matzneff non si è mai nascosto in questo, non ha occultato tra spesse pieghe di giustificazioni latamente politiche i suoi amori ‘malati’, la decomposizione del senso stesso dello stare al mondo.
E difatti Matzneff regola i conti con il rinnovato spirito puritano di quel progressismo ontologicamente ipocrita che ora gli macina le ossa senza alcuna forma di empatia e di umanità, perché chiunque ben sa non c’è mai nulla di umano in chi predica ad ogni piè sospinto il valore della umanità: e lo dice in maniera cristallina, feroce, infilzando il costato di questa armata di bacchettoni quaccheri con le opere di Derrida e Deleuze in una mano, e gli appelli per il riconoscimento dell’amore con i bambini che furon firmati dal gotha degli intellò di sinistra in quei caldi anni del sessantotto, nell’altra.
Come si può accettare una lezione morale da chi dimostra, storicamente, questo livello di inumana, insostenibile, insopportabile ipocrisia? E infatti Matzneff non lo accetta. Preferisce, come viene ricordato dai suoi esordi sulla prestigiosa Combat, che fu patria di carta di Camus, farsi un nemico ad ogni paragrafo, per gusto di provocazione certo ma anche per sbattere sul grugno di una società che spesso indulge negli stessi capricci quella melmosa ipocrisia.
Una lezione essenziale, specie in questo sfilacciato momento storico fatto di obblighi all’inginocchiatoio e di penitenze per colonialismi passati e per la eradicazione di qualunque forma di intelligenza critica, di asperità, di complessità: questo delirio di politicamente corretto e di dogmi che nascondono sotto il tappeto la cultura stessa, e ci dicono che è sconveniente insegnare greco o latino o che Mark Twain era un razzista e simili amenità.
Figuriamoci se c’è un posto, anche solo un posticino, per uno come Matzneff. E certo, non mi sfugge la più troneggiante tra tutte le obiezioni possibili: Matzneff dimentica Vanessa, e quando ne parla, e ne parla per praticamente tutto il libro, la rende oggetto della sua passione, la filtra e la riduce a elemento egoriferito del suo amore, unilaterale e crudele.
Si dice, c’era questo amore scintillante, barocco, intessuto di attenzioni, di sesso e di lettere, come una appendice di Colette o un romanzo epistolare gotico e color rubino, e in tutto questo si perde il senso della asimmetria relazionale, l’età così diversa, la possibilità impossibile di una maturità davvero acquisita.
La Springora nel suo libro ricostruisce in effetti rovesciando quanto Matzneff disse, scrisse e fece di quel loro amore; e se lo scrittore sublimò ogni istante, nelle pagine della Springora quella diventa metodologia di manipolazione e di alterazione della realtà dei fatti. Ed è proprio la negazione assoluta di poter definire amore quell’atto continuo, permanente di abuso a spezzare per sempre il vincolo che si era eretto tra i due.
Ma questo non è un processo, non abbiamo il peso della verità e della crudeltà del verdetto, non dobbiamo assegnare ragioni o risarcimenti. Dobbiamo solo prendere atto della confessione sanguinante di Matzneff, del suo essere uno scrittore geniale e del suo ormai dirsi scomparso dal mondo.
Perché la cosa peggiore che chiunque potrebbe fare è giudicare l’uomo e non lo scrittore, avanzare nella nebbia nel nome di una valutazione morale di quanto scritto e di quanto letto, e dovremmo infine sempre ricordare che come ha scritto Kundera vivere non è altro che portare il proprio io dolente per il mondo.
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