L’allarme del ministro dell’Interno Luciana Lamorgese sulla recrudescenza degli episodi di usura (soprattutto a Roma e Milano) non deve essere sottovalutato. È un fenomeno che rischia di travolgere la vita stessa di migliaia di piccoli esercenti, artigiani, bottegai. Con un’economia in ginocchio, e mentre tardano intollerabilmente a entrare nelle loro tasche i soldi promessi per la ripresa dell’attività, la domanda e l’offerta di denaro possono incontrarsi su un mercato sommerso e illegale che cresce in misura esponenziale. All’usuraio non interessa tanto la restituzione immediata del prestito, quanto massimizzare il valore delle sue garanzie. Non solo cambiali, assegni post-datati e oggetti d’oro, dunque, ma immobili, aziende e attività commerciali.
Ecco perché l’usura è diventata un business della criminalità organizzata, e non solo delle tradizionali figure, come lo strozzino o il “cravattaro”, che si aggirano nei loro bassifondi. Negli ultimi due decenni le mafie hanno utilizzato l’usura per impossessarsi di imprese e attività commerciali che servono per rafforzare il controllo del territorio e riciclare denaro sporco, imporre forniture e appalti, entrare silenziosamente – ma con prepotenza- nel mercato legale. La storia dell’usura, che è stata definita da Papa Bergoglio “una piaga purulenta che ferisce la dignità inviolabile della persona umana” (prima di lui Benedetto XVI l’aveva condannata come “un immane flagello sociale, una umiliante schiavitù”), è magistralmente ricostruita in un celebre saggio di Jacques Le Goff (“La borsa e la vita. Dall’usuraio al banchiere”, Laterza, 2013).
Secondo il grande medievista francese, chi leggesse quel fenomeno con le lenti del “pawnbroker”, il prestatore a pegno descritto nei romanzi inglesi dell’Ottocento o nei film hollywoodiani (per tutti, “L’uomo del banco dei pegni” di Sidney Lumet), si metterebbe però fuori strada. Non sarebbe in grado, cioè, di comprendere fino in fondo questo “Nosferatu della società cristiana”: vampiro terrificante, un succhiatore di denaro spesso paragonato all’ebreo deicida e profanatore dell’ostia.Un radicato pregiudizio storico, infatti, lega strettamente l’immagine dell’usuraio a quella dell’ebreo. Le Goff lo smonta in un paio di pagine da far leggere in tutte le scuole italiane. Fino al dodicesimo secolo, il prestito a interesse che non metteva in gioco somme considerevoli era in effetti nelle mani degli ebrei, in quanto non avevano libero accesso alle attività produttive. Non restava loro altro, con l’eccezione di alcune professioni liberali come la medicina, che far rendere il denaro.
Il quadro si modifica quando il progresso degli scambi sollecita un forte sviluppo del credito. Va aggiunto che la condizione degli ebrei era peggiorata già verso l’anno Mille e poi nel periodo delle crociate, ad opera soprattutto delle masse in cerca di capri espiatori delle calamità – guerre, carestie, epidemie – che devastavano il continente europeo. L’esplosione delle rivolte popolari aveva rinfocolato l’ostilità della chiesa all’ebraismo, prestando il fianco a un antisemitismo ante litteram. Gli usurai cristiani erano giudicati dalle “Ufficialità”, tribunali ecclesiastici di solito indulgenti nei loro confronti, che lasciavano a Dio il compito di punirli con la dannazione. Ma ebrei e stranieri dipendevano dalla giustizia laica, assai più dura e intransigente. La repressione parallela dell’ebraismo e dell’usura, pertanto, contribuiva sia ad alimentare spinte antisemite, sia a rendere ancor più tetra l’iconografia dell’usuraio ebreo.
L’Alto Medioevo, in verità, aveva messo all’indice anche altri mestieri, legati agli ancestrali tabù del sangue, della sporcizia e del denaro: osti, macellai, chirurghi, prostitute, notai, mercanti; ma anche sellai, calzolai, giardinieri, cambiavalute, sarti, mugnai. Un altro criterio, più strettamente cristiano, faceva riferimento ai sette peccati capitali. Albergatori, tavernieri e giocolieri favorivano la dissolutezza. L’avarizia caratterizzava i mercanti e gli uomini di legge, la gola il cuoco, la superbia il cavaliere, l’accidia il mendicante. Il tredicesimo secolo e il suo sistema teoretico – la Scolastica – si preoccupano invece di venire incontro all’evoluzione dei costumi e riabilitano molteplici occupazioni, distinguendo quelle illecite per natura da quelle che lo erano solo occasionalmente.
Quanto all’usuraio, si comincia ad ammettere che il rischio sopportato per l’eventuale insolvenza o la malafede del debitore (“periculum sortis”) meritava di essere remunerato. In ogni caso, anche lui può adesso sfuggire al Purgatorio e all’Inferno. Bastava che restituisse il maltolto e si confessasse. Con un pentimento sincero l’usuraio poteva salvarsi anche in punto di morte. Del resto, il pentimento senza penitenza conduceva al Purgatorio, in cui le afflizioni non mancavano. Non c’era dunque ragione per dubitare della sua buona fede. In fondo, il Purgatorio non era che uno dei modi in cui la chiesa strizzava l’occhio all’usuraio riconoscendone surrettiziamente la funzione sociale. Come una rondine non fa primavera, conclude Le Goff, così un usuraio in Purgatorio non fa il capitalismo. Ma un sistema economico non ne sostituisce un altro se non alla fine di una faticosa corsa ad ostacoli.
La storia sono gli uomini, e “gli iniziatori del capitalismo sono gli usurai, mercanti dell’avvenire”. Mercanti di quel bene, il tempo, che nel secolo decimoquinto Leon Battista Alberti chiamerà denaro. Questi uomini erano dei cristiani. Ciò che tratteneva le loro energie non erano le scomuniche papali. Era “la paura, la paura angosciosa dell’Inferno”. In una società in cui ogni forma di coscienza era anzitutto una forma di coscienza religiosa, la speranza di sfuggire all’Inferno grazie al Purgatorio permetterà all’usuraio di essere un protagonista del passaggio dal feudalesimo al capitalismo.
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