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Sognando Mediterraneo (di G. Cederna)

L’attore e scrittore Giuseppe Cederna ripercorre le tracce del film premio Oscar a trent’anni dall’uscita nelle sale. Il ritorno del soldato Farina a Kastellorizo tra fantasmi, incontri, lacrime e voci dell’isola del presente pubblicato sul sesto numero del settimanale TPI - The Post Internazionale, in edicola dal 22 ottobre

Di Giuseppe Cederna
Pubblicato il 24 Ott. 2021 alle 11:38

Egeo orientale. Traghetto Rodi-Kastellorizo. Esterno notte. Poche ore in mare aperto e un fiato dolce e bruciato che sa di macchia, di fuochi umani e di fango mi salta addosso nel buio. È l’odore della terra, il profumo del continente asiatico ancora invisibile alla nostra sinistra. Un colpo al cuore.Un uragano olfattivo accompagnato da una voce che conosco bene.«È la prima volta, da quel giugno del 1991, che torni a trovarmi per mare».

È vero. Ho perso il conto dei ritorni sull’isola di K ma per un verso o per l’altro, avevo sempre scelto la velocità, quegli squaletti dell’aria che da Rodi in meno di un’ora ti depositano sulla schiena rossa dell’isola. Questa volta invece il viaggio ha scelto la lentezza acquorea per celebrare e ricordare l’infanzia di quel primo arrivo. «Si salpava tra i pescherecci e le barche a vela di Rodi, non dal molo delle navi commerciali, te lo ricordi? Certo. E il traghetto di allora era un traghettino in confronto a questo gigante. Ricordo balaustre in legno lucide di coppale come in un film di altri tempi. Facce pallide e capelli lunghi».

Il canto dell’isola di K

«Eravate dei ragazzini mediterraneamente parlando. Ignari di quello che vi aspettava e giustamente ignoranti non conoscevate né il mio nome né la mia storia e forse non avevate dato nemmeno un’occhiata alle mappe. Dodecaneso era una parola misteriosa per voi.

Eravate presenti al viaggio e spensierati come questo grazioso bastardino qui sul ponte che sbadiglia nella sua gabbietta in transito nella notte egea. Eppure il destino, vestito di cinema, vi stava preparando una bella sorpresa».

Proprio così. E per quasi dieci anni, dall’uscita del film, avevo promesso a me stesso che non ci avrei più messo piede. L’isola di K era diventata famosa. Era l’isola delle odissee e del talento ancora privo dell’ego e del narcisismo degli attori; l’isola dei fantasmi per sempre giovani e fortunati. Avevano persino vinto un premio Oscar quei fantasmi. Roba da sbellicarsi dalle risa pensando alle quattro lire che era costato quel film e agli ostacoli che aveva dovuto superare. Un film di guerra italiano? Non ci credeva nessuno. Altro che effetti speciali.

Eravamo stati abbandonati su quell’isoletta sconosciuta ai confini del Mediterraneo per circa due mesi e mezzo, proprio come i personaggi della sceneggiatura. Da lontano i produttori tramavano già per tagliare alcune scene, avevamo dovuto minacciare uno sciopero per difenderle. E così alla fine, grazie a quella storia di guerra e pace e all’anima vecchia dell’isola – alle sue cicatrici e ai suoi numi generosi e volubili – quel piccolo, magnifico film anomalo e fuoristrada aveva addirittura raggiunto e trionfato a Hollywood. Ricordo ancora la voce stentorea di Rambo Stallone che apre la fatidica busta e pronuncia quelle quattro parole: «The winner is: Italy». Mi ci sono voluti dieci anni per affrontare i fantasmi del passato. Dieci anni per crescere e tornare a casa. Da allora non ne posso più fare a meno. Ora so che l’isola di K è l’isola del tempo presente. L’isola che cade e si rialza, che accoglie e perdona.

A nord-est il pachiderma anatolico si è acceso, greggi di luci gialle lungo la costa, fioche caprette solitarie sulle colline. Dalla murata opposta, improvvisamente vicina, intravedo scorrere una lunga massa scura. È lei. Ecco il promontorio di Aghios Stefanos, la chiesetta bianca accovacciata nella notte e più in alto una luce di cui non vedo la sorgente, come una crepa luminosa nel suo corpo addormentato. C’è qualcosa che mi inquieta in questa prima luminescenza. Scoprirò che si tratta di un riflettore militare per illuminare una grande bandiera greca dipinta sulla pelle dell’isola rivolta alla Turchia. Alcuni mesi fa, l’incursione a sorpresa di un drone turco l’aveva macchiata di vernice rossa in segno di sfida.

Uno sbuffo di aria profumata di pietra e timo mi stringe lo stomaco e io mi sporgo ad annusare l’isola come se la volessi abbracciare. Il traghetto ha cominciato a virare verso sud-ovest, entra nel golfo e poi è lei che mi abbraccia, è il suo fronte del porto che mi salta addosso, quasi mi aspettasse. Un anfiteatro di case a due piani con i balconi di legno e i tetti a spiovente, barche a vela alla fonda e luci colorate che si riflettono nell’acqua, come in un quadro impressionista. Un inconfondibile boccascena su cui è appesa una mezza luna che ora si sfuoca nelle lacrime dell’arrivo.

«Ci sono porti che restano per sempre soltanto degli approdi o ancoraggi, mentre  altri diventano palcoscenici e infine mondi».

È proprio così caro Predrag Matvejvic, sussurro asciugandomi gli occhi, la mia isola è un teatro-mondo, con due palcoscenici. La costa turca e questa mezzaluna di case e di barche. Oriente e occidente. Vicinissimi e lontanissimi per la stupidità e l’arroganza degli uomini al potere. Quest’isoletta greca a un tiro di schioppo dalla Turchia, con cui ha da sempre commerciato e scambiato destini e desideri, ora è contesa e presidiata come una terra di confine.

Depongo sul molo questi pensieri fastidiosi e mi incammino verso le luci del palcoscenico. Mi sembra di conoscerle tutte, una per una. Ogni casa, ogni bar, ogni ristorante, ogni tavolino sull’acqua. E mentre saluto e ritrovo gli uomini e le donne dell’isola anche io vengo ritrovato e riconosciuto. Non più solo come l’attore del film ma come un figlio che ritorna. Come uno di loro. L’isolanza me lo sono guadagnata sul campo. E la consacrazione la devo a mia madre.

Pochi anni fa, all’età di 93 anni, sbarcò sull’isola di K con amici e famiglia per festeggiare il mio sessantesimo compleanno. Fu lei a essere accolta e festeggiata come una regina. Quest’estate mia madre ci ha lasciato e io sono qui per lei. Con lei. La vedo ovunque. La sento vicinissima. Il palcoscenico comincia nuovamente a sfuocarsi. Vado a rifugiarmi da Jorgo, a un tavolino riparato da una colonna fiorita del suo ottimo ristorante. Non batte ciglio quando mi vede ma ha già pronto un bicchiere di ouzo. Me lo posa davanti senza una parola. È il suo carattere, negli anni ho imparato ad apprezzarlo e ora, tra le quinte del suo regno, mi godo lo spettacolo dell’isola di K che nonostante l’ora non vuole andare a dormire.

Siamo alla fine della stagione ma è ancora piena di turisti. Grazie al film, ma negli anni grazie solo a se stessa, è diventata una meta popolare: gruppi di anziani, scolaresche, famiglie con bambini, coppie in luna di miele, ricchi investitori stranieri. Questa sera quello che mi colpisce con un altro scarto di inquietudine, sono le decine di ragazzi muscolosi seduti ai tavolini dei bar. E la quantità di macchine parcheggiate nell’unica piazzetta di un’isola senza macchine. Soldati con mezzi e famiglie. Sono ogni anno di più.

Tra le macerie del tempo

Ho bisogno di stare con lei da solo, di guardarla negli occhi. Di sentire la sua voce. Vado a cercarla la mattina presto, quando la luce e l’aria sono ancora fresche di alba. Vicoli polverosi profumati di foglie secche e fichi schiacciati a terra, scalette deserte e curve a gomito tra i muri di pietra nuda, le soglie delle poche case ancora in rovina libere dal demone della proprietà. È qui, tra le macerie del tempo, che la mia isola si rifugia. È qui che vengo a sedermi, la schiena contro il legno crepato di una vecchia porta. Forse proprio la porta che il sergente Lorusso, alias Diego Abatantuono, sfondava all’inizio del film scomparendo all’interno tra le risa della truppa.

I miei amici fantasmi bisbigliano divertiti. Hanno sempre caldo in quei pesanti panni sudici di guerra e allora, come noi, sudano. Mi verrebbe voglia di abbracciarli uno per uno, di ringraziare quell’eterna giovinezza sudata, quelle facce lisce e ancora vergini. Chiudo gli occhi e ascolto. Batter di campane, una sirena lontana, il fruscio del vento tra i rami di un melograno. Il respiro dell’isola che si avvicina è quanto di più simile al piacere del sentirsi vivi e posati sulla terra. È in quell’attimo di quiete che, ogni volta, ringrazio il ritorno. E capisco che sono qui per ritrovare una parte di me, per fare i conti con quello che se ne va e quello che resta. E, in quell’attimo, l’isola di K sono io.«Sei inquieto, lo sento. E hai ragione, ci sono molti motivi per esserlo. Ma stai tranquillo ce la farò anche questa volta. Sono sopravvissuta a terremoti, devastazioni, incendi e razzie. Ho resistito ai Turchi, ai Francesi, agli Italiani, ai Tedeschi, agli Inglesi, vuoi che mi tradiscano proprio i miei figli? Ce ne sono tra loro di avidi e di sciocchi, ma ci sono anche anime buone pronte a difendermi e a battersi per me. Ho fiducia. Promettimi che li aiuterai e che tornerai a trovarmi come sempre. Promesso?». «Promesso». 

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