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Smarriti e schiacciati: per i giovani la felicità è diventata un miraggio

Negata, impedita, tradita, soprattutto per le nuove generazioni. Eppure è indispensabile. Ecco un estratto del libro "Conversazioni sul futuro. L'eredità del più grande sociologo italiano" di Domenico De Masi e Giulio Gambino

Di Giulio Gambino
Pubblicato il 18 Ott. 2024 alle 16:14
Domenico De Masi, tu hai vissuto a pieno almeno tre società: quella rurale, quella industriale e quella post-industriale. Oggi la nostra società si addentra in una nuova epoca: quella del pensiero creativo. Che tu stesso hai coniato ed elaborato. Cercheremo, in questo nostro colloquio rivolto al futuro, di anticiparne l’essenza, il pensiero e le pieghe in cui prenderà forma. C’è una riflessione però che vorrei innanzitutto fare: dalla prima parte del nostro colloquio emerge un fatto: il lavoro, da che era un’attività avvilente e riservata agli schiavi, almeno sino all’inizio dell’Ottocento, diviene col tempo “ciò che dà valore alle cose”, una forma di riscatto per l’essere umano, in parte intrisa anche di fede, che addirittura “nobilita l’uomo” e lo rende libero, in alcuni casi ricco. Oggi, nel pieno della società post-industriale fatta di servizi immateriali, viviamo una fase di regressione che riporta il lavoro a essere visto come opprimente: oberante per la quantità di ore che gli dedichiamo, miope perché pone davanti i soli “bisogni quantitativi” e quasi mai quelli “qualitativi”, alienante perché la dottrina neoliberista ha reso l’uomo vacca da mungere fino alla pensione, precario perché l’intelligenza artificiale ne minaccia l’esistenza, insensato perché molto spesso si vive per lavorare e quasi mai si lavora per vivere.
A tal proposito, se da un lato non c’è dubbio che il mondo in cui oggi viviamo è assai migliore rispetto a quello che hai vissuto nella prima fase della tua vita, è altrettanto vero che nella storia recente c’è stato un momento in cui qualcosa si è incrinato. Sempre più persone, soprattutto appartenenti alla generazione di cui faccio parte e di quelle immediatamente successive alla mia – dunque i ragazzi che oggi hanno tra i venti e i quarant’anni – stanno attraversando una fase introspettiva che li porta, talvolta, a interrogarsi su quanto valga la pena, oggi, vivere una vita così, come quella che gli si prospetta. È un sentimento, quello di cui parlo, molto più forte, radicale e articolato del voler “solo” rinnegare o cancellare tutto ciò che hanno vissuto i nostri genitori, i nostri nonni, le generazioni precedenti, compresi i vantaggi di cui hanno beneficiato e di cui noi non beneficeremo mai: lavoro, previdenza sociale, casa, benessere, tempo libero.
Per la prima volta, o forse più semplicemente in modo nuovo rispetto alle altre occasioni in cui ciò si è già verificato, avviene infatti che oggi nessuno di noi è più disposto ad accettare le regole che per diversi decenni hanno retto l’attuale sistema del lavoro fondato sul mito della produttività, del successo a tutti i costi, del “doversi sacrificare” e del dover avere “fame”, del merito; laddove questi comandamenti erano perlopiù costruiti su una narrazione tossica che, nello stesso periodo di tempo, ha generato più danni che benefici. In una parola: infelicità. Dunque vengono messi in discussione gli equilibri di vita tra vita e lavoro, tra impiego e svago. Questo fenomeno introspettivo va ben oltre le conseguenze derivanti dall’impatto della pandemia e delle conseguenti Grandi Dimissioni. In gioco c’è soprattutto la consapevolezza di una generazione intera che, da Roma a Berlino passando per Parigi, non ha più interesse a perpetrare il modello di sviluppo che tutti noi abbiamo conosciuto sin qui, perché ne riconosce i suoi limiti, ne ha compreso le problematicità, ne ha scovato i trucchi, le trappole, le ipocrisie. Soprattutto ne ha compreso la sua non-sostenibilità.
Vale la pena guadagnare tra i diecimila e i quindicimila euro netti l’anno, lavorare cinquantacinque-sessanta ore la settimana (che con il lavoro da remoto diventano anche ottanta), impiegare circa dieci-dodici ore la settimana nel traffico spostandosi tra casa e posto di lavoro, andare presto al mattino, tornare tardi la sera, dormire e re-iniziare il ciclo daccapo il giorno dopo, per di più consapevoli del fatto che ciò che stiamo facendo non ci arricchisce? Con la consapevolezza che, nel frattempo, non stiamo costruendo un bel nulla: non stiamo gettando le basi per una prima casa, non beneficiamo di una condizione stabile per mettere su famiglia, non abbiamo una pensione garantita, non esiste tempo libero per emancipare la propria dimensione di essere umano.

Così oggi il lavoro non è altro che una clava senza la quale è impossibile sopravvivere.

Ciò genera disagio, preoccupazione, smarrimento di senso: la fragilità di vivere una vita appesa al momento, e sempre e comunque superficiale, per necessità, perché legata alla circostanza del momento e mai a un progetto di vita di lunga durata.
Tu dopo questo nostro colloquio parti e vai a Napoli. Hai una cultura, una dimensione, relazioni, amicizie, amori. Hai figli. Hai nipoti. Vivi il senso della vita. Questa è una vita.

La mia generazione, a trentacinque anni, non ha nulla. I ragazzi, ancora più giovani, che sono scesi in piazza a manifestare per l’alternanza scuola-lavoro dopo la morte di Lorenzo Parelli gridavano: «Non protestiamo contro questi prof, protestiamo contro un modello che da scuola ci butta nel tritacarne a fare l’alternanza scuola-lavoro». E poi, magari, accade che uno ci rimane pure. Proprio non funziona.
Ecco perché oggi viene messo in discussione questo modello di sviluppo sociale ed economico. Un modello che sta a pezzi.

«Caro Giulio, vedi, se noi con questo libro riuscissimo a rispondere a queste cose che hai descritto tu adesso e ne facessimo il cuore, insieme all’elaborazione di un modello alternativo che possa guardare al futuro di milioni di nuove generazioni, credo che un sacco di gente sentirebbe il bisogno di leggerlo. Io sono anni che esploro questo quesito.

Partiamo da un fatto: all’epoca tu nascevi in una casa, crescevi in quella casa, i tuoi genitori ti educavano, poi tuo padre era falegname, tu facevi l’apprendista falegname. Poi tuo padre moriva, tu prendevi il suo posto e poi morivi pure tu. Al contrario – pensa a te, intendo proprio te – la situazione tua è che sei nato in una città, sei andato a studiare in un’altra città e hai fatto tante cose. Ora, in cosa consisteva l’estetica di quella società pre-industriale? In una cosa, essenzialmente: fuggire dalla tradizione. Perché ti svegliavi sempre nella stessa casa, lavoravi nella stessa casa, con le stesse persone. Avvertivi il pericolo di percepirti come concluso e definito, senza un’evoluzione.

Al contrario, invece, qual è il tuo problema? È dare un senso agli spezzoni della tua vita. Sono due cose completamente diverse».

Quando avviene questo cambiamento?

«Questo è interessantissimo. Ti spiego perché: il problema che hai posto tu è quello che da centocinquant’anni si pongono tutti i pensatori. Mi spiego meglio. La struttura sociale della società pre-industriale che fa sì che l’uomo percepisca se stesso come concluso e definito, e mai in evoluzione, era sorretta da una cultura, quella che produce “I promessi sposi”. Mentre la struttura post-industriale produce “Il giovane Holden”, che è una cosa completamente diversa».

Sì, ma perché? Come avviene?

«Perché alla struttura rurale faceva da pendant la cultura classica, quella che noi chiamiamo classica. Alla struttura industriale, faceva da pendant la cultura moderna. Alla struttura post-industriale, fa da pendant la cultura post-moderna. Quindi noi abbiamo attraversato tre epoche: una rurale, una industriale e una post-industriale. E abbiamo attraversato tre culture: una classica, una moderna e una post-moderna. La condizione dell’epoca rurale, lo abbiamo ricordato, è durata circa cinquemila anni. Quindi si è ultra consolidata. In cinquemila anni non è cambiato nulla. Però, come dicevamo, a un certo punto cambia la struttura e comincia a cambiare velocemente anche la cultura».

Come cambia la struttura?

«A un certo punto, alla fine del Settecento, nasce l’industria. Che si consolida durante l’Ottocento. E nel Novecento si rafforza ancor di più. Questi due secoli costituiscono una prima accelerazione per cui si passa dal carretto al treno. Poi ci si ferma là per diversi decenni, che sono molti, ma sono pochissimi rispetto ai cinquemila anni di prima. Il secondo passaggio avviene con la Seconda guerra mondiale. E rispetto al tuo discorso, quando è che si cominciano a imbrogliare le acque? Quando è che inizia a diffondersi il germe del quesito che tu hai espresso? La tua domanda – per rendere l’idea – è come se fosse inconsapevolmente una prefazione a un libro di Heidegger. Ecco, tutto Heidegger – ma anche Nietzsche – vuole rispondere a quella cosa che hai detto tu.

Ma no, che dico, di più: non solo loro, tutti vogliono rispondere a questo quesito. Cioè siamo più ricchi, abbiamo più medicine, viviamo più a lungo eccetera, però siamo molto più irrequieti».

Piccola parentesi: come facciamo a sapere che siamo più irrequieti?

«Perché compari le culture. Prendi il romanzo di Manzoni, “I promessi sposi”, e prendi un romanzo di oggi, li poni a confronto e capisci che per quanto drammatica fosse la situazione di Renzo e Lucia, non era frantumata, sfracellata, incomprensibile, schizoide come la condizione attuale. A un certo punto che è successo? Che alcuni hanno cominciato a sentire l’inquietudine e le incertezze di cui tu, Giulio, hai parlato».

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