Si dice “se i muri potessero parlare”. I muri di Roma, in questi giorni, gridano. Gridano di corpi sbattuti in faccia, di donne in lotta, di donne che resistono, di donne che amano e che si amano. Gridano al punto che ignorarli è impossibile: da una manifestante messicana che occupa la facciata di un palazzo in pieno centro, a Trastevere, al volto di Bisan, l’attivista palestinese, che prende un’intera parete a Testaccio, alle attiviste di Lucha y Siesta su un edificio al Quadraro, all’intero tragitto percorso dal corteo dell’8 marzo tappezzato di “guerriere” palestinesi.
Di queste donne, escluse dalla narrazione, se non in forma di vittime silenziose, qualcuno ha lasciato traccia sui quei muri che separano lo spazio pubblico da quello privato. «Ciò che non viene rappresentato non esiste. L’esistenza passa attraverso la rappresentazione e, attraverso le immagini, noi diamo spazio a chi non ne ha. Gli ridiamo vita».
Sono le ragazze di “Amar3”, un gruppo di giovani donne che rifuggono ogni definizione. Artiste, attiviste, architette, mamme, fotografe, doppiatrici, bariste. Precarie croniche, disoccupate a fasi alterne. La maggior parte di loro vengono da varie parti d’Italia, ma al gruppo si sono unite anche spagnole e francesi. Multiformi e guerriere, come i volti e i corpi scomodi che ci sbattono in faccia per strada.
Qualcuno le ha viste a Roma al corteo dell’8 marzo durante la loro prima azione diurna (di solito si attivano di notte), coperte in volto, velate da fumogeni colorati, schermate dalla folla, perché attaccare manifesti non autorizzati è illegale. Non importa che si tratti di veri e propri interventi di arte pubblica: immagini di artiste dissidenti, fotografe, illustratrici da tutto il mondo, di una bellezza e di una potenza che spacca il cuore.
Del resto, difficilmente chi aspira a mostrare un’immagine divergente della società può farlo chiedendo il permesso a quella stessa società che nasconde, esclude, censura. Ma mettendola sotto gli occhi di tutti in forma di immagini a grandezza naturale, “Amar3” ci ricorda che quella parte di società esiste, c’è. La rende visibile. Gli dà vita.
Non cercano l’esposizione, le guerriere di “Amar3”, non solo perché è rischiosa, ma perché vogliono che siano i loro atti di rivolta a parlare per loro.
Le abbiamo cercate e le abbiamo convinte a raccontarsi ed è emersa l’immagine di un gruppo multiforme, non conforme e in lotta, come le donne che aspirano a rappresentare. Autenticamente rivoluzionarie, folli, capaci di aggregarsi e aggregare. Mosche bianche in un mondo di attivisti digitali, dove l’esternazione narcisistica sembra aver soppiantato l’azione collettiva.
Come nasce “Amar3”?
«Siamo nate al bar, in un torrido pomeriggio d’estate romana. Quando la città si svuota e il caldo è talmente feroce che le uniche alternative sono annullarsi o concepire qualcosa di clamoroso. Eravamo tre all’epoca, una di noi, artista e fotografa, lamentava la frustrazione nell’esporre nelle gallerie e negli spazi elitari dell’arte contemporanea, cercando uno sfogo per l’anima punk e disperatamente collettiva dei suoi ritratti femminili, crudi, dolci, incazzati. “E se le stampassimo a grandezza naturale e le attaccassimo sui muri della città di notte?”. E così è iniziata. Avete mai provato a stampare volti giganti e a metterli su un muro? Sembra che escano dalla parete e prendano vita. E la città invisibile diventa, di colpo, titanica».
Protagonisti delle vostre azioni, fino adesso, sono donne in lotta, corpi di donne non conformi e, durante il corteo dell’8 marzo, manifesti di donne palestinesi realizzati da artiste di tutto il mondo. Cos’hanno in comune le immagini scelte per le vostre azioni?
«Il denominatore comune è quello di donne, artiste e illustratrici, che rappresentano altre donne. Donne in lotta. Anche nell’azione sulla Palestina non abbiamo rappresentato donne affamate, piegate sotto le bombe, ma donne guerriere. Vogliamo raccontare la donna mentre si rialza, non mentre soccombe. Il messaggio è che insieme possiamo farcela. Non dobbiamo lasciarle sole, guai se questo accadesse. Quanto alla non conformità, c’è una parte dell’essere donna che si impara vivendo come donna in una determinata società e in un certo tempo. C’è, in altre parole, un essere donna sociale, che ha a che fare con l’essere destinatarie di specifiche oppressioni e violenze ed essere custodi di una specifica forza, che trascende il corpo e riguarda infinite soggettività. Ma a noi interessano tanto anche i corpi, la carne, le ferite, la ciccia, i capelli crespi e le lentiggini. La materia viva. Perché la scomodità di un corpo non conforme, fuori luogo o in atteggiamenti inusuali o violenti, o in lotta, comunica in un solo gesto un mondo che non è solo simbolico, è incarnato. Quando scegliamo di rappresentare non “le donne” ma certe donne, in certi momenti, vogliamo dare fastidio, essere impertinenti e maleducate, far riflettere attraverso lo shock visivo. Le immagini gentili della femmina per bene ci annoiano e ci disgustano. Noi non siamo per bene, ma sappiamo “amar3”».
Alla vista della città tappezzata di donne palestinesi, ci sono state diverse polemiche rispetto a legare la richiesta di pace in Palestina al corteo dell’8 marzo. C’è chi ha detto che è stato fatto un gran calderone tra questioni diverse, che non hanno nulla a che vedere tra loro. Cosa rispondete a questo?
«Che si sbagliano. Tagliare fuori quanto sta accadendo in Palestina da una manifestazione a sostegno della lotta delle donne, semplicemente, non è un’opzione. Il corteo dell’8 marzo di quest’anno è stato più importante, più sentito del solito. Vuoi per l’onda lunga degli appelli della famiglia Cecchettin che hanno portato maggiore attenzione sul tema dei femminicidi, parallelamente alle mancate risposte da parte del Governo. Vuoi per la furia guerrafondaia che si è scatenata sulle vite dei palestinesi che ci tiene incollate con il pensiero a Gaza: un popolo reso invisibile, svalorizzato, giudicato di categoria inferiore e perciò punibile con quelle che pensavamo fossero ormai pratiche fantasma di un secolo breve, vicino e sanguinario. Chiunque abbia mai vissuto la condizione dell’invisibilità non può che non stare al fianco delle donne e degli uomini palestinesi. Finché non saremo libere tutte, nessuna di noi è libera. Questo è lo spirito con cui, negli ultimi due anni, abbiamo attraversato i cortei femministi in Italia».
C’è chi vi ha definito un “collettivo transfemminista”. Voi rifuggite ogni definizione. Cosa vi tiene insieme e cosa vi differenzia da altre realtà dell’attivismo femminista?
«Ci unisce la follia dove diventa creatività. Quella in cui ti rifugi quando la realtà è talmente opprimente che devi scegliere tra restare schiacciata o sconvolgere l’ordine delle cose. Il bisogno di sovvertire nasce come spinta individuale: dobbiamo agire contro quelle ingiustizie che se restano un secondo di più tra le pareti casalinghe, o nella mera comprensione delle amiche strette, o nei silenzi marci della coppia ci faranno ammalare. Ma soltanto insieme possiamo generare un cambiamento. Da sole ci sentiamo interrotte, strappate. Unite acquistiamo forma. Il transfemminismo è la traiettoria più efficace che, ad oggi, esprime il conflitto tra personale e pubblico, tra libertà e coercizione, tra legalità e giustizia, tra violenza patriarcale e diritti, perciò dialoghiamo all’interno di questa cornice. Ma se domani si chiamerà cincillà, allora saremo il collettivo cincillà. Non ci importano le etichette».
L’emancipazione femminile parte con la rottura del confine tra pubblico e privato, tra dimensione casalinga e sociale, collettiva. Le vostre azioni avvengono in strada, sui palazzi, sui muri. Che ruolo ha lo spazio urbano nella vostra lotta?
«Lo spazio urbano, le ossa della città, le sue infrastrutture, il suo dischiudersi in piazze enormi o chiudersi in vicoli senza luce, la qualità dell’aria, i servizi, il traffico, è parte della microbiologia della gente che la abita. Non si può scindere. Roma ad esempio, dove abbiamo iniziato, è una città ferita e grandiosa, a tratti facilona e accomodante, a tratti crudele e violenta. Il degrado delle case popolari fatiscenti abbandonate dalle istituzioni pubbliche e cariche di vite che ci strabordano dentro, le voragini sui marciapiedi, i sampietrini del centro, fotografati dai turisti e poi scagliati con rabbia durante una protesta. Il dolore di stazione Termini e la sua bellezza metafisica. Senza le contraddizioni di Roma, la sua storia e la sua amarezza, avremmo combinato altro. La nostra espressione passa attraverso le immagini dei corpi e dei volti di donne sulle facciate. L’effetto del luogo dove le mettiamo modifica completamente l’immagine e il racconto. Esprimersi nello spazio urbano e ascoltare chi lo attraversa, significa capire cos’è che, oltre il sensazionalismo della notizia, resta».
E che cos’è che resta?
«C’è un potenziale inespresso nelle città italiane e in chi le abita. Come dei sussurri incomprensibili per le strade che faticano a trovare forma. Abbiamo spesso la sensazione di essere a tanto così da un’esplosione, ma poi si resta aggrappati agli schermi del telefono e a quel poco di benessere rimasto dopo l’erosione delle crisi pandemiche, economiche e interiori. Il nostro è un grido di esortazione ad alzarsi dal divano e andare per strada, prestare orecchio ai sussurri. Incontriamoci e riconosciamoci».