Sì, Raffaella Carrà era un’icona gay. Totale, assoluta, inimitabile. Madonna, Cher, Lady Gaga non avevano ancora preso un microfono in mano che lei aveva già un posto speciale nell’immaginario degli omosessuali italiani.
Era un’icona gay. Lo sapeva, le piaceva esserlo. E una regola non scritta, ma rispettata da qualunque carro di qualunque Pride era di mettere “almeno” una sua canzone. E cantavano tutti, ballavano tutti. Da Trieste in giù, di qualsiasi età e orientamento sessuale.
“Ho cominciato a capire il mondo gay durante la prima Canzonissima. Ricevevo lettere da ragazzi che non si sentivano accettati, specialmente in famiglia. E mi sono chiesta: possibile che esista questo gap tra genitori e figli?”.
Le scrivevano perché era facile vedere nella sua arte un senso di liberazione dei corpi e dalle fobie. Le scrivevano perché era evidente che il suo modo di stare nel mondo dello spettacolo stava contribuendo a svecchiare un Paese intero, a renderlo meno bacchettone.
“Mi hanno cresciuta due donne. Tre, contando la nurse inglese: mia mamma Angela Iris fu una delle prime a separarsi nel Dopoguerra”. Eccole forse lì le tracce di geni di una famiglia di donne libere. Perché se dici Raffaella Carrà la prima parola che ti viene in mente è proprio libertà.
Nell’Italia scudocrociata si ballava il tuca tuca, si cantava “Luca, Luca dove sei adesso?”. Come delle brecce nella Porta Pia della televisione paludata democristiana. Serve altro per far capire il perché un’intera comunità si è innamorata a tempo indeterminato di lei?
Non è un luogo comune, dentro ogni manifestazione che reclamerà il diritto a essere se stessi Raffaella Carrà avrà sempre un posto, sarà eternamente presente, anche se oggi pare che a tutti noi “scoppi scoppi il cuor”.
Leggi l'articolo originale su TPI.it