Qui si produceva un farmaco: non uno qualsiasi, ma uno storicamente essenziale per debellare malattie fino alla sua apparizione inguaribili e portatrici di morte. Qui si è prodotto ciò che riaccendeva speranze, attraverso il suo utilizzo in più direzioni. Questo edificio è stato il segno visibile del farmaco. Pharmacon è una parola con doppia semantica: significa pianta curativa e anche veleno. Cura e veleno danno un’immediata percezione di contrapposizione, la prima essendo rivolta alla vita, l’altra al suo annullamento. Eppure sono intrinsecamente parti della stessa unicità concettuale perché è al farmaco che si ricorre per la tutela della vita, per la ripresa del suo percorso, e la connotazione è venefica se rivolta al germe causa del morbo mentre è salvifica per chi dal morbo stesso è aggredito.
Proprio la doppiezza del pharmacon, la diversità antitetica tra ciò che è e ciò che produce nel suo utilizzo positivamente orientato, è stata più volte evocata nel discutere, per esempio, della pena e della sua esecuzione. Molti sociologi del diritto hanno accentuato come il veleno della privazione della libertà debba avere – almeno nell’impostazione teorica e nel caso italiano nella stessa finalità costituzionale – la finalità di restituire una persona diversa nel suo rapporto con il contesto esterno, al termine della sua esecuzione. Quindi, un veleno che deve agire in positivo: la pena è pharmacon e se la si orienta al risanare, l’accezione venefica insita nella punizione diviene veicolo di “guarigione”; quest’ultima intesa nella ricostruzione di quel legame sociale che la commissione del reato ha reciso. È veleno, ma vuole essere cura. Questa metafora della duplicità torna plasticamente alla mente nel parlare di un luogo che, nato come sede della produzione di un farmaco, di una sostanza destinata a sanare, è divenuto luogo della disperazione, dell’abbandono.
Una metafora rovesciata, quindi. Ma, forse proprio in questa sua dimensione negletta, è stato per molti anche luogo di accoglienza, forse di cura sociale per coloro che sono stati considerati invece socialmente “incurabili” dal contesto esterno, perché non riconosciuti come appartenenti alla comunità del territorio ove si sono venuti a trovare. Un’espulsione concettuale e materiale che ha trovato in questo luogo di antica destinazione a produrre cura, un approdo possibile: di nuovo un’azione positiva, di rifugio; in fondo, anch’esso una seppur minima cura. Ma, “cura” è anch’essa una parola dalla doppia semantica: da un lato indica il prendersi carico, l’avere attenzione, che nella dimensione sociale significa accoglienza e inclusione; dall’altro indica prescrizione, trattamento terapeutico, che nel caso della cura sociale vuol dire controllo e limite (la lingua italiana purtroppo non rende conto di questa doppiezza, a differenza, per esempio, di quella inglese, in cui care e cure indicano due concetti ben distinti). Forse è proprio la cura, intesa nell’accezione inclusiva, che è andata progressivamente a mancare all’interno di questo luogo dove molti avevano trovato riparo. Fino a farlo diventare luogo dell’invisibilità temuta: questo, come altri simili spazi che spesso emergono nella loro dimensione numerica – e, quindi, nel ruolo che di fatto hanno esercitato per molti – solo in occasione del loro sgombero, del loro sparire.
Sono spesso luoghi della marginalità migrante. Poiché di fronte all’intrinseca complessità del tema dei diritti di chi cerca una vita diversa in luoghi diversi, abbandonando la implicita sicurezza personale di ciò che è noto, perché consapevole che ciò che è noto è insopportabile per sé e per i propri cari, le nostre società e i nostri ordinamenti sono rimasti muti e in difesa. Non sono riusciti a sviluppare una costruzione culturale che, con l’ausilio della legislazione e della giurisdizione, elaborasse le richieste che tali consistenti arrivi ponevano al fine di renderle non conflittuali con le paure di chi poteva percepirli come problematici per la sicurezza del proprio modello di vita. Questo, non solo nella società e nell’ordinamento italiano, ma anche in quelli europei e, allargando lo sguardo, anche in tutti i Paesi che hanno un benessere un po’ superiore a quello del proprio vicino.
Sempre legislazione e giurisdizione sono state utilizzate negli anni recenti per l’innalzamento dei livelli meramente difensivi, in ciò assecondando gli umori più timorosi che provenivano da contesti sociali sempre meno sicuri sul piano del proprio futuro e, quindi, propensi a rielaborare tale insicurezza in termini di individuazione di ipotetici aggressori esterni. La rielaborazione dell’insicurezza sociale in termini di mai soddisfatta difesa verso potenziali nemici è del resto processo ben noto: l’individuazione dello straniero, del proveniente da un territorio geografico diverso per panorami, organizzazione e anche colore della pelle come potenziale invasore, è stata fin troppo semplice. Nel nostro Paese, una prospettiva dell’agire politico che non è riuscita cogliere le differenze come elemento da comprendere, da guidare nei possibili stridori del suo rapporto alla realtà nuova, da far conoscere alla realtà pre-esistente anche come potenzialità e non solo come difficoltà, ha favorito l’accentuarsi sempre crescente di un’esclusione.
Così le persone immigrate, giunte fortunosamente nel territorio europeo – e in Italia in particolare – non hanno più avuto nomi, hanno perso specificità individuali perché a esse si è guardato come problema da dimensionare, circoscrivere su base quantitativa: di esse si conoscono solo numeri. Le differenze individuali sono divenute sfumate lasciando il posto a una categorizzazione di presunte affinità per gruppi etnici che finiscono per riproporre quasi la legittimità del concetto di razza. Il soggetto migrante si è progressivamente connotato per l’anonimia e anche i luoghi dove ha trovato rifugio si sono caratterizzati per l’assenza: sono luoghi a cui progressivamente è tolto tutto nella frenetica corsa a renderli inospitali – e come tali non ambìti per chi intendesse progettare di arrivare in futuro – nell’ottica del togliere laddove invece ci sarebbe bisogno di aggiungere. Del resto, questo è il modo con cui la contemporaneità troppo spesso affronta la difficoltà, anche in altri contesti: alla persona ritenuta non affidabile, per il suo stato soggettivo sia esso di natura mentale o comportamentale o per il suo precedente agire, si sottraggono cose, si riducono spazi di autonomia, si diminuisce la sua connotazione soggettiva, procedendo verso l’esito di un soggetto anonimo, privato di elementi di propria scelta, in uno spazio anch’esso privo di ogni caratterizzazione.
La logica nell’affrontare le criticità, talvolta oggettivamente complesse, che si sviluppano all’interno di comunità problematiche – quali sono intrinsecamente quelle in cui le persone socialmente marginali si ritrovano di fatto limitate, circoscritte se non formalmente ristrette – è spesso una logica di sottrazione. Di fronte alla difficoltà e al suo prospettarsi a volte in forme gravi, si tolgono cose, spesso per evitare che la persona possa far male a se stessa e agli altri o perché si vuole tranquillizzare questi ultimi o ancora perché si ritiene che l’assenza possa ridare equilibrio. Così, come nei luoghi di ricovero alla persona vengono tolti oggetti, a volte abiti e alla stanza vengono tolte suppellettili, altrettanto ai luoghi di “riparo” sociale vengono tolte strutture di supporto e l’ambiente diviene progressivamente un luogo anonimo e “vuoto”.
In realtà, il raggiungimento di un equilibrio individuale e relazionale nel contesto esterno avrebbe bisogno non della sottrazione ma dell’addizione: maggiore comprensione dei bisogni, possibilità di contatti e di reciproca conoscenza con l’ambiente esterno anche al fine di rassicurare quest’ultimo, maggiore possibilità di riconoscimento del proprio mondo, seppure in modo controllato. Avrebbe bisogno di riconoscere l’identità di queste persone, senza far retrocedere il concetto di “identità” a quello di “identificazione”, come invece avviene per le persone migranti al loro giungere nel nostro continente. Una retrocessione semantica e drammaticamente concreta che determina il disinteresse verso il progetto migratorio della persona, nessuna attenzione alla costruzione di una possibile rete del suo relazionarsi con la comunità esterna e una forte accentuazione della sottrazione quotidiana, accompagnata da luoghi che divengono mere strutture portanti di edifici che un tempo avevano vita e ora hanno soltanto una precaria capacità di reggersi, nella totale assenza della loro storia.
Così l’esito anche della Casa della penicillina, non più nuovo “farmaco” per chi aveva di fatto accolto nella sua seconda funzione curativa, non più medica, ma soltanto luogo di un degrado non visibile al mondo circostante. La teatralità della povertà di cui le istituzioni della segregazione sono emblema si è così ritratta fino alla sua cancellazione forzata. La sua è divenuta una presenza assente. Perché da un lato la struttura è rimasta, visibile al passante che peraltro non conosceva – tranne i pochi che se ne interessavano e che raccontano in una parte delle pagine che seguono – cosa fossero divenute le sue viscere, quale fosse la sua vita interiore. Dall’altro anche la vita interna, nascosta, è stata spazzata via. Non è più neppure una “eterotopia” – rubo il termine a Michel Foucault perché adatto a connotare gli spazi della povertà occultata o ristretta –, è divenuto soltanto un luogo vuoto.
Un luogo vuoto che tuttavia ci parla del suo passato, operoso e attivo nel produrre cure, del suo passato più recente di rifugio per chi non aveva un altrove, del suo divenire oscuro, fino al suo destino di annientamento. Ci parla di tanti soggetti che lo hanno abitato: lo scienziato, l’operatore, il rifugiato, l’inabitante, l’invisibile, lo scomparso. Forse il punito, perché il confine di questi luoghi improvvisamente chiusi, serrati, senza l’attenzione a ciò che brulicava al loro interno, è spesso quello con un altro luogo e un’altra realtà segregativa: il luogo del carcere, dove la soggettività difficile e le sue conseguenti azioni in un contesto di rifiuto finiscono per declinarsi in termini di penalità.
Il testo di Mauro Palma è la prefazione del libro “Hotel Penicillina. Storia di una grande fabbrica diventata rifugio per invisibili“, di Anna Ditta, Andrea Turchi e Marco Passaro (Infinito edizioni, 2020)
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