«Si raccontano favole del passato e mai del futuro. Si ricorda tanto e si immagina meno». A raccontarlo, è Alberto Calcagno, amministratore Delegato di Fastweb e autore di “Tu sei futuro”, un testo e manuale che aiuta giovani (e non solo) a identificare e scrivere il proprio futuro, compiendo scelte consapevoli e informate.
L’obiettivo di “Tu sei futuro” è in linea con la vocazione di Fastweb, che da alcuni mesi ha inaugurato “Step – Futurability District”, uno spazio multimediale aperto al pubblico che ha l’obiettivo di fornire informazioni e ispirazione ai giovani che si affacciano al futuro del mondo del lavoro e dello studio, con un particolare focus verso il digitale.
Step fa parte delle iniziative che si stanno diffondendo in molti Paesi nel mondo, ma che ancora stentano ad affermarsi in Italia, di “educazione informale”, ovvero corsi, iniziative, seminari e attività che supportano persone all’apprendimento e al lavoro, al di fuori dei sistemi scolastici e formativi istituzionalizzati. Questo tipo di formazione è in grado di offrire velocemente contenuti in linea con le esigenze delle aziende e dei mercati, fornendo competenze spesso difficili da reperire in scuole e università.
Step non è solo uno spazio espositivo, in cui conoscere i lavori del domani, ma anche un luogo di formazione dove quotidianamente vengono impartiti corsi e sviluppati workshop su robotica, digitale, coding e altro ancora.
TPI ha incontrato Alberto Calcagno all’interno di STEP, per comprendere cosa possono fare aziende e istituzioni per aiutare i giovani a tracciare il proprio futuro e quali opportunità presenta l’attuale rivoluzione digitale.
Alberto, perché si parla così tanto del passato e così poco del futuro?
«Le persone preferiscono parlare di cose che conoscono e di cui non hanno paura. Parlare del passato è più facile: le cose che non ti piacciono non le guardi e puoi soffermarti sulle informazioni positive o neutrali. Inoltre il futuro, recentemente, sembra essersi ulteriormente allontanato, molta gente ha paura del futuro a causa della recente “tempesta perfetta”: Covid-19, guerra, disastri ambientali. Questi fattori hanno portato a chiuderci e magari non ce ne siamo neanche accorti. Di fatto, la “tempesta” ha messo un’ulteriore distanza tra noi e il futuro. Una dinamica normale: un fattore di protezione e autodifesa comune in tutti i mammiferi».
Tanti giovani hanno paura del futuro e di sbagliare la propria traiettoria. Come possono affrontare questa paura?
«È importante recuperare il rapporto con il futuro, che si è smaterializzato, e riacquisire il nostro diritto al futuro, da cui ci siamo autoesclusi. Il modo più facile è guardare verso di noi, un passaggio verso l’auto-consapevolezza. Il futuro non è dentro una palla di cristallo, ma davanti a noi. Ha il nostro stesso DNA, siamo noi, solo qualche passo più in là. Dovremmo avere paura di noi? No. Anzi, abbiamo la possibilità, con questa consapevolezza, di poter costruire qualcosa per noi. Pensavamo di essere al centro dell’universo, poi è arrivato Copernico, a smentirci. Poi ritenevamo di poter essere al centro della natura, ma è arrivato Darwin a smentirci. Infine, abbiamo pensato di poter essere al centro della nostra mente, ed è arrivato Freud a farci cambiare idea. Io dico: possiamo stare al centro di uno specchio? Penso di sì. E di fronte a noi abbiamo noi, il nostro futuro».
Come fai a sviluppare il tuo futuro e identificare una direzione?
«Uso molto spesso delle metafore sportive uno di queste è l’arrampicata. Quando hai un’arrampicata, o una scalata da fare, non puoi fare quello che vuoi: hai una direzione da seguire, dove attaccherai dei chiodi o un rinvio. Hai un corridoio in cui puoi muoverti e raccordarti. Questa direzione è fondamentale. Oggi la direzione fondamentale è rappresentata dal digitale. La percezione che si ha oggi del digitale è abbastanza sbagliata, perché tutti pensiamo che il digitale sia “astrofisica”, che ci siano persone digitali e persone non-digitali. Io considero il digitale quello che era l’inglese negli anni ‘80. Allora tutti dicevano: “dovete studiare inglese per conoscere persone, aprire la mente ecc…”. Così è stato. Il digitale è l’inglese dei prossimi cinquant’anni. Aperto a tutti, nessuno escluso. Decidi tu a quale “unit” vuoi fermarti. Il futuro parlerà quei linguaggi».
Qual è il ruolo dell’educazione, al di fuori delle aule su competenze digitali
«È necessario rompere alcuni meccanismi. Oggi l’inglese è patrimonio di tutti, ma quando il sistema scolastico lo ha inglobato ha impiegato tempo, partendo dalle università fino ad arrivare alle elementari. Con il digitale potrebbe accadere lo stesso, ora le skill digitali si apprendono in aziende e istituzioni che hanno capito per primi che questo tipo di linguaggio può essere insegnato in contesti anche non codificati dal sistema scolastico».
Quale può essere il ruolo del privato in questo contesto?
«Le aziende hanno oggi un privilegio, un onore e un onere riguardante questo tema, specialmente aziende più innovative, come Fastweb, sanno quanto il digitale diventerà importante. Noi possiamo e dobbiamo avere un impatto positivo sulla società. Dico spesso che è inutile costruire autostrade digitali se non rilasciamo anche le patenti digitali. Altrimenti avremo autostrade e nessuno che sa “utilizzarle”. È evidente che la politica arriverà un po’ dopo la trasformazione culturale, come imparare l’inglese, si tratta di qualcosa che ha un ritorno politico più lungo della legislatura. Le aziende saranno determinanti nei prossimi cinque anni fino a quando il pubblico capirà l’importanza del digitale».
Scuola e famiglia sono ancora i soggetti corretti per chiedere consiglio per il proprio futuro?
«Credo di no, perché oggi è fondamentale per parlare di futuro, avere chiaro quali saranno i lavori del futuro. Il 65 per cento dei ragazzi che oggi frequenta le elementari farà lavori che non esistono ancora. In questo caso diventa fondamentale spiegarli. Questi lavori del futuro non sono ancora patrimonio di famiglie e insegnanti, ma delle aziende. Mi sarebbe piaciuto, quando avevo diciott’anni, vedere visualizzati i lavori. Noi in Step mostriamo ai ragazzi come si svolgono i lavori del futuro, le giornate tipo, e l’impatto che hanno sulla società, per dare una visione ispiratrice ai giovani, senza limitarci al solo titolo. Questi lavori del futuro sono diversi da quelli di commercialisti, avvocati o architetti, ruoli spesso indirizzati da famiglie e insegnanti, sta alle aziende farli conoscere».
Qual è stato il processo chiave nella tua vita che ti ha fatto capire quale traiettoria prendere?
«Quello che ho vissuto io è proprio quello che vorrei evitare che venisse vissuto dai giovani oggi. Io sono arrivato a giocarmi le partite più importanti della vita un po’ per caso. Perché ho deciso di fare economia e commercio alla Bocconi più per spirito competitivo verso alcuni compagni di classe che per altro. Poi sono andato a Londra a fare investment banking sempre spinto da uno spirito competitivo invece che da una chiara pianificazione. Io sono stato fortunato perché non mi sono scelto le partite, però quando le ho giocate le ho giocate bene. Mi piacerebbe che un ragazzo non solo si giocasse bene le partite ma se le scegliesse. Il concetto del libro è quello di aprire gli occhi alle persone, in modo che possano pianificare o programmare una direzione. In questo modo non puoi avere la certezza di ottenere esattamente quello che desideri, ma aumenti le probabilità in maniera vertiginosa. Grazie a informazione, consapevolezza, e coraggio di guardare al futuro».