Dalla cattedra dell’Università di Oxford, dove è professore di letteratura italiana comparata, agli scaffali delle librerie, dove ha venduto decine di migliaia di copie con “Viva il latino, storia e bellezza di una lingua inutile” (Garzanti, 2016), “Viva il greco, alla scoperta della lingua madre” (Garzanti, 2021), “Elogio del latino. Una lingua da amare” (la Repubblica-GEDI, 2021) ed altri saggi dedicati alle lingue antiche, Nicola Gardini è uno degli studiosi che ha contribuito a diffondere, negli ultimi anni, il grido d’amore per il greco ed il latino, sempre più marginalizzate nelle Università italiane ma tornate in voga tra il pubblico non accademico grazie a best seller come il suo. Un salto che ha compiuto perché convinto che questi saperi “diano felicità e conforto”. A TPI ha spiegato perché.
Risale a cinque anni fa il boom della sua opera “Viva il latino”. Si aspettava questo successo?
No, è stata una bellissima sorpresa. Il successo non è stato soltanto del libro, ma del discorso che proponeva. Una riflessione critica, appassionata, ma non soltanto privata, perché il libro ha aperto un dibattito. Gli editori hanno cominciato ad interessarsi a questo tema, altri libri sono nati, io stesso ho continuato su questa linea capendo che quello che avevo fatto con il latino potevo farlo con altri libri. Oggi sono passato al greco, che conosco e che è parte di questo discorso, sebbene i pregiudizi che attaccano il latino non siano immediatamente trasferibili al greco. Questo perché è meno presente, è confinato ad una sola scuola, il liceo classico, e perché nell’immaginario collettivo è la lingua mitica, la lingua delle origini.
Si è più indulgenti verso il greco?
Sì, ma non solo: c’è una forma di fascino che forse il latino, imponendosi nel sistema educativo da secoli e sposandosi con la giurisprudenza e con la Chiesa, ha perso. È anche una questione di aura. Il greco mantiene qualcosa di libero, è associato all’idea di democrazia, di ginnastica, ha qualcosa di irrazionale. Del greco ci si invaghisce perché è una lingua un po’ erotica, ed ha creato una nostalgia secoli e secoli fa quando si è rannicchiato nella parte orientale dell’impero romano e lì è rimasto per lungo tempo fino a riemergere nel rinascimento e nell’umanesimo. Il greco è sempre visto come un ospite benvenuto, qualcuno che torna da lontano, che evoca un rispetto benevolo. Verso il greco non si ha quell’atteggiamento di fastidio e noia che purtroppo stupidamente molti hanno assunto verso il latino portandolo nel chiacchiericcio mediatico, che confonde solo le idee, perché qui si parla di istruzione e di quello che serve trasmettere alle future generazioni.
Possiamo dire che nel greco rintracciamo in modo più romantico le origini del nostro pensiero occidentale mentre la conoscenza del latino è stata al centro di polemiche perché considerata, anche dalla politica, elitaria?
Il latino si è compromesso con il potere mentre il greco è rimasto la lingua dell’individuo ragionante e curioso, dell’avventura. Se dici greco pensi immediatamente ad Odisseo, dicendo latino vengono in mente Cicerone, Virgilio, figure dell’ordine. Però questo è l’immaginario collettivo. Nei miei libri cerco di spiegare, senza pregiudizi, che li leggiamo non perché sono dei geni, ma perché la lingua grazie a loro procede in direzioni artistiche, intellettuali. Ed è questo che interessa: si può chiamare Saffo, Platone, Demostene, in ognuno di questi succede qualcosa di miracoloso, cioè la lingua scopre pensieri, idee, metafore. È molto importante poi il nesso tra lingua e verità, lingua ed immaginazione: il greco questo lo ha fatto molto prima del latino. Pensiamo all’Odissea, in cui si assiste ai fatti della vita e poi ci sono i poeti che la cantano. Il greco è la lingua della grande immaginazione che entra in rapporto con la realtà dei fatti, con le esperienze vissute e le éleva eroicamente, filosoficamente, linguisticamente. Ed è anche, come ha suggerito, l’origine del pensiero, dell’investigazione: per questo il mio libro sul greco si intitola “Alla ricerca della lingua madre” perché c’è dietro l’idea di un inizio.
Perché invece anche il latino è una lingua utile?
L’utilità del latino sta nella sua necessità formativa, si tratta di storia e memoria della nostra cultura e del nostro essere. Eliminare questi studi e chiamarli marginali o elitari è un torto che si fa alla costruzione del sapere storico. Sarebbe lo stesso che dire: niente filosofia o niente musica. Ridurre tutto all’applicazione immediata non significa andare avanti, ma fermare lo sviluppo della nostra mente. Le società hanno bisogno di conoscersi profondamente, e lo studio di queste lingue serve a farci capire che l’attualità non è il presente, il presente è fatto di passato, e che la tecnologia non è scienza: la scienza è fatta di interpretazione, come il latino e il greco. C’è un’utilità anche spirituale: farci sentire parte di un lungo cammino e traiettoria dove il latino e questi testi, la loro penetrazione e diffusione hanno determinato i nostri linguaggi, comportamenti mentali, metafore, il senso della nostra vita. Togliere il latino significa darci un alzheimer sociale.
Da ragazzo scrisse un libro violento sull’università italiana, spiegando perché era fuggito per proseguire la carriera all’estero. C’è un nesso con la marginalizzazione delle lingue antiche?
Il nesso tra i miei interessi per il latino e per il greco e il mio disgusto dell’università italiana c’è, perché io credo nella parola libera, nell’intelligenza, nel dialogo, che sono grandi temi del greco. Questo nelle università è difficile che accada, perché il sistema di reclutamento è molto personalistico, crea zone di potere e non un sistema per i migliori. Io me ne andai perché non mi trovavo bene in una mentalità baronale e corrotta, che fa male a chi cerca di entrare e non ci riesce, fa male agli studenti. Il discorso è complesso, recentemente i giornali hanno detto che non bisogna sparare sempre a zero, ma in realtà il sistema di assunzione va sistemato perché non è fatto per la libera circolazione degli intelletti.
Come si passa dal lavoro accademico alla scrittura di un best seller?
Io sono un accademico strano, sebbene lavori per una università molto solida, quella di Oxford. Anche quando scrivo per l’Università evito il gergo specialistico, obbedisco ad una scrittura personale che certo spesso si scontra con criteri molto conformistici. Dal lavoro accademico ho imparato il rigore e a trattare un po’ tutto il mondo come un’Università, che per me non sta soltanto negli edifici. C’è un’università di lettori che ha voglia di conoscere molte cose che magari normalmente sono riservate all’accademia. Parlo a questa università più grande, lo faccio con una lingua semplice, chiara, diretta ma anche molto personale. I miei libri sono un impegno che mi sono preso con me stesso, per comunicare il più possibile. Sono convinto che questi saperi diano felicità, conforto, stimolo ad andare avanti. Non danno risposte ma pongono moltissime domande, e questo ci aiuta a credere nel futuro.
Tra le sue opere dedicate alle lingue antiche compare “Dieci parole latine che raccontano il nostro mondo”: se dovesse sceglierne una, su quale consiglierebbe di soffermarsi?
Claritas, la chiarezza, una parola bellissima che ha una sua storia. La chiarezza non è un punto di partenza ma di arrivo, è una delle più grandi costruzioni perché richiede un apprendistato alla verità, all’ordine, ai pensieri e all’efficacia del ragionamento. La chiarezza ce l’ha chi scrive tanto, chi studia tanto e arriva a capire il modo più diretto e più rapido per attraversare il groviglio, anche rispetto alla conoscenza di sè.