Nel 1961 il filosofo, critico e antropologo francese René Girard analizzò alcuni testi fondamentali del canone narrativo occidentale. A partire da questi, nel suo “Menzogna romantica e verità romanzesca” arrivò a importanti conclusioni riguardanti il concetto di desiderio nella modernità, e nello specifico teorizzò la sua natura «mimetica».
L’imitazione è una caratteristica propria dell’essere umano, e anche il desiderio è un suo prodotto. Siamo tradizionalmente portati a pensare che il desiderio si muova attraverso una traiettoria lineare, autonomamente, dal soggetto all’oggetto, mentre invece, ci dice Girard, lo schema è triangolare: soggetto – modello – oggetto.
L’ipotesi è basata quindi sull’esistenza dell’Altro, un terzo elemento che svolge il ruolo di mediatore del desiderio. Girard introduce un pensiero rivoluzionario, l’oggetto del desiderio non possiede un valore di per sé, ma lo acquisisce perché siamo noi ad attribuirglielo.
Non desideriamo un oggetto perché ci interessa davvero quindi, ma perché imitiamo il desiderio di qualcun altro e desideriamo secondo il desiderio di colui che Girard chiama il «mediatore».
L’oggetto del desiderio non ha caratteristiche fisiche intrinseche che lo rendono desiderabile, ma ha un valore illusorio, dato dal prestigio comunicato dal mediatore.
La conclusione è che desiderare secondo il desiderio di un altro significa desiderare di essere l’altro: non è davvero un desiderio di avere, ma piuttosto un desiderio di essere.
L’età dell’oro
A ben pensarci nulla sembra poter spiegare in maniera più precisa e compiuta il meccanismo che ha portato al successo di centinaia di influencer negli ultimi dieci anni. Nel caso degli influencer assistiamo a una mediazione esterna, con l’esposizione di stili di vita talmente lontani da risultare irraggiungibili.
Ma partiamo da una definizione: con influencer intendiamo un personaggio di successo, che gode di una certa popolarità sui social network, in grado di influire, appunto, su comportamenti e scelte del pubblico. Con scelte possiamo intendere anche abitudini d’acquisto, ed è quindi evidente come, con l’avvento e il successo dei social media, e nello specifico di Instagram, milioni di persone hanno iniziato a diventare utenti e si sono aperte le porte a un nuovo proficuo modello di business.
Sulle nuove piattaforme digitali i confini tra pubblico e privato appaiono sempre meno definiti, fino, in moltissimi casi, a confondersi totalmente. Nel caso dei profili di influencer la prerogativa è proprio questa: una pervasiva contenutizzazione della quotidianità – o presunta tale – che porta a una condivisione quasi morbosa di qualsiasi aspetto personale, anche il più intimo, fino al raggiungimento di una fusione pressoché totale tra vita online e offline.
Tale meccanismo può causare anche forti stress ed essere vissuto in alcuni momenti con un certo senso di disagio, perciò potrebbe essere utile ipotizzare per quale ragione ci si spinga a tanto.
La capacità di amplificare e determinare messaggi, opinioni e gusti è direttamente connessa alla reputazione della persona in questione: migliore sarà la sua reputazione, maggiore sarà la sua capacità di convertire e guidare le scelte di chi vi è in contatto.
La reputazione può dipendere dalla combinazione di diversi fattori – come l’esperienza dimostrata in un determinato settore, la competenza e le conoscenze dimostrate – e dalle strategie che possono essere messe in atto al fine di promuovere sé stessi, alla stregua di un brand.
Ma perché la reputazione è così importante? Perché solo grazie al riconoscimento di quest’ultima è possibile ottenere la fiducia dei propri seguaci, e, al di là della propria immagine, sui social network nulla sembra essere maggiormente monetizzabile di una buona fan base. La fiducia e la presunta connessione emotiva che l’influencer ha con gli utenti-consumatori ispirano decisioni d’acquisto impulsive.
La modernità ci ha portati a osservare, elaborare e immagazzinare una immensa mole di informazioni, modificando radicalmente anche il nostro rapporto con gli acquisti e la pubblicità. I consumatori si sono dimostrati sempre più diffidenti nei confronti delle forme tradizionali di promozione del prodotto e preferiscono una comunicazione maggiormente diretta e personale, che ritengono in qualche modo più affidabile. Così facendo, la raccomandazione di un influencer può svolgere un ruolo cruciale nel processo decisionale che porta all’acquisto di un prodotto.
La peculiarità – ormai del tutto sdoganata e quindi piuttosto comune – di questi canali è quella di cancellare il confine tra messaggio pubblicitario e contenuti editoriali, quello che nel gergo può essere definito “advertorial”. In questo modo, rispetto a una tradizionale pubblicità, viene conquistata più facilmente l’attenzione e aumenta la credibilità dell’offerta.
Chi osserva non recepisce la comunicazione come una pubblicità e la interpreta come uno scambio di informazioni, o addirittura un consiglio. Una delle principali qualità dell’influencer marketing è la sua capacità di essere misurato.
Le aziende possono monitorare con precisione una serie di dati – l’engagement, i clic e le metriche di conversione – che consentendo loro di valutare l’effettivo impatto delle campagne concordate. Questo approccio basato sui dati permette un continuo affinamento e ottimizzazione, garantendo un’allocazione efficace dei budget di marketing.
Da anni gli influencer sono in grado di condizionare notevolmente il comportamento e i gusti dei consumatori. Nei primi tempi dell’influencer marketing, un solo post o una serie di stories su Instagram da parte di una celebrità potevano far impennare le vendite di un marchio o di un singolo prodotto.
Secondo la teoria girardiana della quale abbiamo accennato all’inizio, la chiave del successo è una sola: non desideriamo l’oggetto, desideriamo essere quella persona, vivere quella vita, godere degli stessi privilegi.
Punto di svolta
A un certo punto abbiamo visto comparire nei nostri spazi digitali post con la dicitura «Ad». Nelle stories – spesso magistralmente mimetizzate e in dimensioni ridicolmente ridotte – sono comparse queste piccole scritte che indicavano agli utenti come non si trattasse di una genuina chiacchierata in confidenza, ma di pubblicità.
In un primo momento, questi contenuti e queste modalità promozionali sono stati giustamente recepiti come innovativi perché utilizzavano la componente relazionale dei social media per promuovere marchi e prodotti in modo più diretto e autentico.
Tuttavia, poiché spesso erano i brand a decidere gli aspetti creativi di queste collaborazioni, la nuova forma di pubblicità ha cominciato a sembrare esattamente come quella tradizionale: scontata, programmata e poco spontanea, spesso in netto contrasto con il resto dei contenuti degli influencer.
Ciò che sembra essere maggiormente cambiato è il sentimento con il quale gli utenti percepiscono questi contenuti, contestando la totale assenza di norme e chiarezza. La fiducia è venuta meno, e, come gli episodi di cronaca raccontano, anche la reputazione.
Un caso tra tutti, quello Ferragni e il cosiddetto “Pandoro-gate”, ovviamente. Le notizie a proposito delle indagini e dell’accusa di truffa aggravata a suo carico hanno causato un tracollo che non sembra arrestarsi, ma i cui effetti potranno essere misurati solo nei prossimi anni.
L’operazione commerciale mascherata da iniziativa benefica ha causato una perdita di fiducia – e di followers – difficilmente reversibile, e si è aperto un dibattito generale molto più ampio, che ha spinto l’Agcom ad approvare le “Linee Guida sull’Influencer Marketing”, predisponendo la redazione di un codice di condotta valido per chiunque conti almeno un milione di seguaci.
L’incontenibile ondata di odio e disapprovazione nei confronti di Chiara Ferragni, e della sua famiglia ed entourage, deriva dal fatto che la vita patinata e invidiabile che un tempo era oggetto di aspirazione e sogno, a questo punto, alla luce di operazioni eticamente discutibili, si è trasformata in un potente mezzo di catalizzazione di odio e invidia sociale.
La smisurata opulenza di molti profili ha contribuito a rendere mal digeribili stili di vita talmente lontani da apparire del tutto scollati dalla realtà. Diversi utenti hanno iniziato a mettere in relazione queste narrazioni con le concrete problematiche e miserie della contemporaneità.
Il dibattito si è esteso e trasformato in una questione sociale capace di mettere in dubbio l’intero sistema di valori.
Un altro caso interessante in questo senso è quello verificatosi a seguito del Met Gala, evento che si tiene ogni anno all’interno del Metropolitan Museum of Art di New York, coinvolgendo celebrità e riscontrando una impressionante risonanza mediatica.
Tra le centinaia di immagini trasmesse sugli schermi di milioni di utenti, quest’anno non è passato inosservato il video della modella e influencer Haley “Baylee” Kalil, che, sfoggiando un elaborato abito stile “Capitol city”, ha utilizzato l’audio con la celebre – presunta – citazione di Maria Antonietta «Let them eat cake!» («Che mangino la torta!»).
La clip è diventata immediatamente virale ed è stata etichettata come «tone deaf» (stonata) dai detrattori, che hanno sottolineato la distopica ironia del fatto che il sontuoso avvenimento mondano avvenisse proprio mentre i manifestanti pro-Palestina si radunavano all’esterno, in concomitanza dell’avvio delle devastanti operazioni militari a Rafah da parte dell’esercito israeliano.
L’influencer, in capi dimessi e con volto contrito, si è pubblicamente scusata dopo aver subito il duro contraccolpo mediatico, ma, proprio come nel caso di Ferragni, il video apologetico non ha ottenuto l’effetto sperato, anzi il contrario, risultando agli occhi dei più come falso e manipolatorio.
Kalil si è detta estranea al mondo elitario del Met e ha spiegato di trovarsi lì quasi per caso, invitata da E! per creare alcuni contenuti. Tuttavia, decine di utenti hanno ricordato come lo scorso anno fosse diventato virale il tour virtuale del suo appartamento di Manhattan, dal costo di 17.000 dollari al mese, trovando di difficile comprensione il paradigma «sono una di voi».
A seguito dell’episodio, ha preso piede un movimento virtuale definito “Blockout”, o “Digital guillotine”, che invitava a bloccare sui social network celebrità che non si erano ancora schierate di fronte alla crisi umanitaria che si sta consumando a Gaza, al fine di ridurre il tasso di engagement e di conseguenza le entrate pubblicitarie. Un boicottaggio partito dal basso, che anche qualora non dimostrasse un’efficacia tangibile, sicuramente evidenzierà ulteriormente un fenomeno sociale di grande interesse e apparentemente in crescita.
Cambio di prospettiva
Insomma, quella connessione emotiva che sembrava essere molto più forte una decina di anni fa, ora appare compromessa, e il mercato saturo e opulento degli influencer forse ha stancato la maggioranza degli utenti.
Interessanti in questo senso le parole di Serena Mazzini, social media strategist e docente Naba, che nel nuovo libro di Selvaggia Lucarelli spiega: «Al momento […] i social sono governati da un nuovo paradigma, si parla sempre di più di contentainment, cioè della capacità di creare contenuti coinvolgenti per il pubblico. TikTok, ad esempio, è considerato il competitor più diretto di piattaforme di intrattenimento come Netflix, in quanto gli utenti, ormai, non cercano più nei social solo modelli aspirazionali da seguire, non sono più interessati all’ostentazione di beni ed esperienze di lusso ma li utilizzano come se fossero piccoli schermi televisivi nei quali specchiarsi e nei quali cercano, spesso, compagnia o confronto diretto».
«Non è un caso che tra i profili più seguiti ci siano quelli di persone comuni che condividono la propria vita quotidiana o professionale, percepiti più realistici, che spesso dialogando con gli utenti tramite lunghe live in cui si mostrano spontanei e autentici, o creator che hanno saputo crearsi un format originale, che ricalca le dinamiche dei format televisivi».
Nuove priorità, nuovi gusti e nuove estetiche quindi. Indubbiamente sono in atto alcune interessanti trasformazioni. Moltissimi brand prediligono un approccio promozionale diverso, basato su creatività spontanee, maggiore libertà e autonomia per creator che possono parlare dei prodotti senza assoggettarsi a linee guida troppo stringenti imposte dall’alto.
Invece di basarsi unicamente sulla popolarità di un influencer, il “creator marketing” punta sulle abilità creative e di comunicazione, sfruttando la fiducia e la credibilità che ciascun creator è stato in grado di costruire con la sua community. Anche per questa ragione non sempre i grandi numeri pagano. Così lunga vita a micro e nano influencer con seguiti più ristretti – ma affezionatissimi – interessati ad argomenti spesso considerati di nicchia, dunque meglio targettizzabili, e perché no, con un occhio di riguardo alla sostenibilità e responsabilità sociale.
Insomma, che si tratti di invidia sociale, maggiore consapevolezza, mancanza di fiducia, ricerca di autenticità o un insieme di fattori, il mondo della comunicazione e del marketing social sta radicalmente cambiando. L’impressione è che a sopravvivere sarà chi, darwinianamente, si dimostrerà in grado di adattarsi meglio al cambiamento ed evolversi.
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