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La guerra raccontata dalle donne: colloquio con Giovanna Botteri

Credit: AGF

“Prima i conflitti erano solo storie di generali e di strategie militari. Noi inviate abbiamo cambiato quella narrazione. Riportando il punto di vista delle vittime”. La storica inviata Rai si racconta a TPI. A confronto con una collega di un’altra generazione

Di Claudia Nanni
Pubblicato il 12 Lug. 2024 alle 15:12

«Io, Lilly Gruber e Federica Sciarelli: la generazione delle boomers. Quando abbiamo cominciato c’era una struttura apicale tutta maschile con un sentimento di boy club, nelle redazioni e nelle direzioni». 

La prima volta che sono entrata in una redazione, dopo la scuola di giornalismo, ho notato con sorpresa che eravamo in tante. Per te quindi non è stato così?

«C’era un atteggiamento non aggressivo o prevaricatore, ma abbiamo faticato per farci apprezzare come professioniste credibili e autorevoli. In qualche modo ci abbiamo lavorato e siamo riuscite a costruire qualcosa».

Tu, la Gruber e Monica Maggioni siete state per me punti di riferimento. Quali giornaliste hai avuto come modello? 

«In quegli anni direi Oriana Fallaci. Poi c’era il vuoto pneumatico. Oggi mi chiedo se la fatica che abbiamo fatto, tutta questa salita, non ci abbia fatto dimenticare che dovevamo lasciare un testimone alle generazioni successive, come la tua. Penso a quello che è successo negli anni Ottanta e Novanta e anche negli anni successivi, a questa prigione dell’apparire che è stata costruita. Il fatto di guardare una giornalista televisiva dal punto di vista dell’immagine faceva sì che tutto il discorso sulla professionalità, sui contenuti andasse in secondo piano e questo alla fine ha in qualche modo segnato le generazioni future».

È vero. Oggi si pensa molto all’immagine e meno ai contenuti

«Ti racconto una cosa: una ragazza che lavora con le all news un giorno mi ha scritto: “Mi piacerebbe tanto fare l’inviata, ma mi dicono che sono troppo bella per farla…”. Una cosa assurda. Che cosa sta succedendo? Invece di andare avanti sui contenuti e sulla narrativa che noi abbiamo cambiato si pensa ad altro… Io rivendico il fatto che con la mia esperienza, i miei occhi e la mia sensibilità ho contribuito a cambiare il racconto della guerra. Se tu pensi a come hai studiato la guerra sui libri di scuola o ai grandi reportage dal Vietnam, lì sono storie di guerra, militari, di strategia e di generali. Noi inviate abbiamo cominciato a raccontare con gli occhi di chi la subisce. Con gli occhi dei civili, delle donne, delle famiglie e dei profughi».

Incredibile il messaggio della collega che vuole fare l’inviata ma non le viene concesso perché «troppo bella». 

«Tu pensa che in piena pandemia, mentre i camion militari portavano via i cadaveri a decine, mentre il mondo tremava chiuso, isolato nelle case, mi rompevano le scatole per come ero pettinata o per le maglie che portavo. Credi che a un collega maschio gli avrebbero detto qualcosa per una camicia sgualcita?».

Mi hai parlato di una struttura apicale al maschile… 

«Non puoi immaginare. Per i posti dirigenziali sono stati sempre preferiti gli uomini. La donna la premiavi mettendola in conduzione, l’uomo facendolo vicedirettore o direttore. La commissione pari opportunità ha fatto un grande lavoro sugli stipendi. Ma ancora oggi noi a parità di livello o di esperienza, guadagniamo meno. Ero in America quando Obama fece approvare la legge Lilly Ledbetter, una lavoratrice che lottò per la parità di trattamento tra uomo e donna. Tradotto: se scopri che un collega con meno esperienza prende più soldi, tu hai uno strumento giuridico per farti valere».

Ho notato che spesso nel nostro ambiente di lavoro manca la solidarietà tra donne…

«È proprio così. Le donne ancora non sono abituate a far fronte comune. Si sentono minacciate più dalle altre che dai maschi. Gli uomini, invece, hanno un senso di solidarietà che è molto forte e che ha funzionato nei secoli. Puoi avere le tue idee, puoi fregarti la donna, puoi imbrogliare al gioco, ma quando si fa fronte, si fa fronte senza problemi. Noi non riusciamo ad avere questo senso forte di solidarietà, di fare gruppo. Se vieni battuta da un uomo, sei battuta da un uomo, ma se a vincere è una donna brucia. Magari sarete voi della nuova generazione a trovare una soluzione».

Poche settimane fa è stato pubblicato un report secondo cui in una settimana standard le firme in prima pagina, sui quotidiani italiani, erano di 918 uomini e 192 donne, mentre gli editoriali e i commenti erano firmati da 165 uomini e 23 donne. Gli uomini sono più autorevoli delle donne? 

«È l’idea di autorevolezza che secondo me deve essere rimessa in discussione. Che cos’è l’autorevolezza? Che cosa significa essere autorevole? Se chiudi gli occhi vedi un uomo con un’aria seria che ti fa un discorso serissimo un po’ involuto con riferimenti che magari con cogli. Non credo che questa sia l’autorevolezza. L’autorevolezza è la capacità di parlare a tutti dicendo con semplicità e con trasparenza delle cose vere, provate, controllate. È ovvio che con i vecchi canoni tu continui a riproporre gli stessi modelli: la donna può fare l’influencer o l’opinionista, l’uomo fa l’editorialista».

Ma quindi nel nostro mestiere l’uguaglianza non la raggiungeremo mai?

«Non cerco l’uguaglianza, anche perché non siamo uguali. Dobbiamo avere gli stessi diritti e le stesse possibilità, ma non voglio essere uguale a un uomo e diventare editorialista o direttore assimilando quella cultura e quelle idee. Non è questa la battaglia. L’idea di uguaglianza è uguali diritti, ma la diversità è qualcosa da rivendicare». 

Hai ragione: se fossimo uguali saremmo anche noi uomini.

«Esatto. Non devi diventare come un uomo perché è un impoverimento per te, per gli uomini e per la società. La questione centrale è di portare la tua diversità, perché la diversità della donna è eversiva e sovversiva». 

Hai mai intervistato un personaggio che ti ha fatto pesare il fatto di essere donna?

«Milioni di volte. Milioni. Bianchi, neri, marroni, gialli, ricchi, poveri, vecchi, giovani. È un messaggio che ti arriva ed è arrivato continuamente».

Come hai reagito?

«Ci sono molto modi di reagire. La mano sul sedere? Reagisci con un cazzottone in piena faccia, la parola denigratoria e offensiva? Reagisci con ironia. Usi tutte le armi a seconda di quello che succede. Il ventaglio di reazioni possibili è infinito e dipende da quello che è successo».

Il nostro lavoro giorno dopo giorno cambia anche per l’accelerazione prepotente della tecnologia. Intelligenza artificiale ma non solo. Come vedi il futuro del giornalismo?

«Sono curiosa di capire i criteri con cui l’Intelligenza artificiale scrive un articolo o un discorso di una donna. Lì bisognerebbe intervenire. L’Intelligenza artificiale, come noto, utilizza una serie di elementi. Che elementi usa per fare un discorso di una donna e quali per fare quello di un uomo? Penso che siano strumenti neutri, non sono né buoni, né cattivi, vanno usati e sarebbe importante capirci di più».

Tecnologia a parte, vanno sempre ricordate le conquiste delle colleghe che ci hanno preceduto e da lì ripartire – giorno dopo giorno – per andare avanti migliorandoci. 

«Il passaggio tra le varie generazioni è imprescindibile e la fiamma deve restare sempre accesa».

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