Il 15 luglio 2003, a Barcellona, moriva di cirrosi epatica lo scrittore cileno Roberto Bolaño. Aveva 50 anni, e non era un alcolista o un drogato. Eppure la morte per cirrosi, unita ai temi dei suoi racconti ha iniziato la costruzione di un mito, che si è poi tradotto recentemente in vendite: il fenomeno Bolaño.
Non è difficile restare affascinati da uno scrittore che parla di prostitute poetesse, città dove crescono assassini che si misurano il pene con coltellacci, droga tra i Cafè nella stessa quantità dello zucchero, padri soli con figlie, matematica e geometria, tanto sesso e letteratura fantastica. Ma basterebbe sfogliare i titoli dei suoi libri per farsi un’idea: “La letteratura nazista in America”, “Puttane assassine”, “Consigli di un discepolo di Jim Morrison a un fanatico di Joyce”, “Il Terzo Reich”, “Lo spirito della fantascienza” e così via. Un successo trainato da “2666″ (963 pagine) e “Detective Selvaggi” (688 pagine). Sono i due manifesti di un genere letterario che inizia e finisce con Roberto Bolaño e vive nei suoi libri: l’infrarealismo, o realismo viscerale.
Parola di Lagioia e Carmignani
Per il direttore del Salone Internazionale del Libro di Torino, Nicola Lagioia, Bolaño è «il più grande scrittore per il XXI secolo». A questo tema ha dedicato una lezione ancora online su Youtube. «Non del XXI secolo – specifica – perché ci ha appena messo un piede morendo nel 2003, ma per. Ossia, è lo scrittore che più di altri può farci da Virgilio per addentrarci letterariamente nel mondo in cui viviamo e capire cosa ancora si può fare con la letteratura». TPI gli ha chiesto se è vero che più che lettori, Bolaño ha dei fanatici. È così, secondo lo scrittore, anche perché Bolaño è riuscito a creare un’epopea sull’amicizia, cosa rara nei romanzi contemporanei. «L’epopea sull’amicizia rimanda i lettori adulti a quel fanatismo con cui si leggevano i primi romanzi, nell’adolescenza – spiega – di solito romanzi con al centro storie di amicizia». Ma non è tutto, aggiunge Lagioia: «Anche perché in Bolaño c’è la capacità di trasformare i perdenti in eroi, cosa che accende l’animo dei giovani».
«Se poi uno è appassionato di libri – continua – si rende conto di un altro elemento fanatico, cioè che Bolaño cambia la struttura del romanzo, basterebbe leggere i due più famosi, “2666” e “Detective Selvaggi”, per capirlo. Dal primo momento in cui si apre Bolaño, si entra in un nuovo mondo con una lingua, dei luoghi e dei caratteri che sono soltanto suoi».
Ilide Carmignani è la voce degli scrittori sudamericani in Italia, ha tradotto Sepúlveda, Márquez (è sua l’ultima e nuova versione di Cent’anni di solitudine), Borges, Cortázar e anche Bolaño. «Mi sono subito resa conto di essere davanti a uno spartiacque, qualcosa che segnava un prima e un dopo. Bolaño era riuscito a far invecchiare di colpo tutto quello che avevo letto». Carmignani racconta a TPI: «Era la fine degli anni ’90 ed ero al salone del Libro che Sepulveda organizzava nelle Asturie. Il nome di Bolaño iniziava a circolare a quei tempi grazie ad Anagrama, che aveva pubblicato “Estrella distante”. Così acquistai subito il libro, incuriosita, e rimasi completamente affascinata. Avrei voluto proporlo a un editore italiano per tradurlo, ma Angelo Morino lo aveva già portato da Sellerio». Sia Morino che Sellerio sono facilmente riconoscibili tra i personaggi de “La parte dei critici”, che apre “2666″.
E continua: «Poi, nel 2002 lo vidi alla Fiera del Libro di Torino, allo stand Sellerio. Non osai chiedere a Morino, che mi aveva dato appuntamento lì allo stand, di presentarmelo ed è un grande rimpianto perché non ho avuto una seconda occasione». Dopo la sua morte, Adelphi propone a Carmignani di tradurre l’opera magna dello scrittore: “2666”, cinque romanzi in uno. «L’ho considerato un privilegio», dice.
Secondo Carmignani, il primo ostacolo, che poi per gli appassionati di libri è solo un altro codice da decifrare per aprirsi un mondo nuovo, è che Bolaño costringe a una nuova prospettiva: «Bisogna abbandonare le consuete abitudini di lettura», spiega. «Non c’è mai un vero plot. C’è un andamento rizomatico. E troviamo sempre una strana atmosfera: una sensazione di normalità mentre il mondo va in pezzi, oppure di disastro nella più totale normalità. Mi aveva colpito anche la mescolanza di prosa e poesia, per cui stai leggendo un romanzo ma compare un’espressione surreale che è pura poesia. Del resto Bolaño nasce poeta. È anche sorprendente la sua capacità di unire intensità ed estensione narrativa. E poi ci sono i suoi meravigliosi sogni che parlano direttamente all’inconscio del lettore».
Sfiga e fortuna
E in effetti quella di Bolaño è una storia di equivoci, e sfortuna. Tanta sfortuna. Come quando nel 1970 torna in Cile dal Messico, dove si era trasferito a 15 anni con i suoi genitori, un ex pugile e una maestra, e la sorella nel 1968. Ha saputo che in Cile il politico socialista Salvador Allende è stato eletto presidente. (della figlia dirà: «Questa non è letteratura»). Tra la preparazione del viaggio e i mezzi di fortuna con cui lo mette in pratica (niente soldi per l’aereo), Bolaño arriva a Santiago nel 1973, nei primi giorni di settembre. L’11 c’è il golpe e il giovane Roberto è davanti a un televisore ad ascoltare il presidente assediato dai militari del generale Augusto Pinochet che prega i giovani di restare a casa. Bolaño scende in strada e si fa arrestare, ecco la prima sfiga. Ma i suoi carcerieri sono degli ex compagni di scuola che lo liberano dopo una settimana. Ecco ora l’altra faccia della sfiga. In “Notturno cileno”, Bolaño racconta in prima persona la vita del confessore che insegna Marx a Pinochet: un modo per pareggiare i conti col destino.
Oppure quando scrive “Detective” come un romanzo di riconciliazione tra Arturo Belano (lo stesso Bolaño) e Ulyses Lima, alter-ego dell’amico Mario Santiago Papasquiaro. Tornato in Messico nel ‘73, conosce Papasquiaro, con cui fonda l’infrarealismo, scrivendo poesie, criticando le letture dei poeti laureati come Octavio Paz e rubando libri. Quando nel 1977 Bolaño lascia definitivamente il continente americano per la Spagna, i due continuano a inviarsi lettere che – osserva Lagioia a TPI – sembrano quelle di due innamorati. A fine anni ’90 Bolaño dice all’amico che ha trovato il romanzo giusto per loro: “Detective Selvaggi”. Un libro così fuori dagli schemi del romanzo che Bolaño si prende la libertà di riempire cinque o sei pagine con figure retoriche e la loro spiegazione, o vari giochi di parole. Il romanzo parla di lui, Papasquiaro, che risponde scrivendo di non vedere l’ora di leggerlo. La lettera successiva parte dalla Spagna e contiene il manoscritto, che l’amico può leggere in anteprima. Ma non lo leggerà mai perché, ubriaco, viene investito da un’auto in Messico. Dalla sfiga non si scappa.
Ma la si cerca anche. Leggenda vuole che avrebbe potuto salvarsi, ma rimandò il trapianto di fegato perché doveva assolutamente finire il suo capolavoro, “2666″, che uscì postumo. Vero o no, è così che è nato il mito di San Bolaño. Perché il suo pensiero sulla vita dell’artista lo ha detto quando gli chiesero che ne pensava del poeta Vicente Huidobro: «Troppo paracadutista che scende cantando come un tirolese. Sono meglio i paracadutisti che scendono avvolti nelle fiamme, o ancor più quelli a cui non si apre il paracadute».
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