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Il fondatore di Slow Food Carlin Petrini a TPI: “Vi spiego perché la felicità inizia con la transizione ecologica”

Carlin Petrini nel suo studio all’Università di Scienze Gastronomiche di Pollenzo. Credit: Nicola Marfisi / AGF

“Per troppo tempo abbiamo confuso crapula e benessere. Uscire dal consumismo compulsivo per dare più attenzione all’ambiente e alle relazioni è un percorso liberatorio”. Il fondatore di Slow Food spiega a TPI come condividere e partecipare può renderci felici

Di Andrea Lanzetta
Pubblicato il 18 Ott. 2024 alle 16:20 Aggiornato il 15 Nov. 2024 alle 10:35

Ripartiamo da dove ci eravamo lasciati: l’ultima volta ci aveva spiegato che «il concetto di felicità non passa attraverso un rapporto di dipendenza dai consumi». Ma allora cos’è per Lei la felicità?
«È la condivisione: poter condividere delle buone pratiche, delle iniziative che possano realizzare un rapporto di condivisione, cooperazione e comprensione. Vuol dire assumere un determinato atteggiamento, partendo dall’esigenza primaria di mettere in atto comportamenti virtuosi. Nel momento in cui questi trovano condivisione e anche un senso di partecipazione, danno gratificazione. Una gratificazione dovuta a un operato positivo e questo è un pezzo di felicità».

E il piacere?
«Il piacere è un diritto inalienabile e per troppo tempo è stato relegato a una dimensione peccaminosa. Ho avuto modo di parlarne anche con Papa Francesco».

Cosa le ha detto il Papa?
«Gli ho detto: “Voi cattolici sul piacere avete qualche problema” ma lui ha risposto di no: “Se l’abbiamo avuto, abbiamo sbagliato perché il piacere è uno strumento molto importante per la realizzazione umana”. Poi ha aggiunto qualcosa che mi ha fatto riflettere».

Che cosa?
«Papa Francesco mi ha detto: “È tempo di ringraziare nostro Signore che ha concesso il piacere, quello vero, alle uniche due funzioni che garantiscono la continuazione della specie: mangiare e fare l’amore”. È una bellissima sintesi».

Ce la spiega?
«Il ragionamento è che per troppo tempo si è confusa la crapula, l’esasperazione del piacere con il piacere, quello vero, che invece è responsabilità e soprattutto condivisione, morigeratezza e può anche essere utile. Perché il piacere non è antagonista alla giusta causa, anzi può essere un elemento importante». 

Come?
«Oggi siamo di fronte a un’epoca nuova, che ne segue un’altra durata tre secoli, chiamata “Rivoluzione industriale”, una fase storica che ha dato all’umanità livelli di benessere e scoperte scientifiche mai raggiunti prima. Quell’era però si basava sulla certezza che le risorse del pianeta fossero infinite. Ma l’impressionante aumento demografico avvenuto negli ultimi decenni e l’esasperazione del consumo e dello spreco delle risorse naturali ci sta portando a consegnare un futuro problematico alle prossime generazioni. Ora invece la finitezza delle risorse, unita ad alcuni disastri già in essere, primo fra tutti il cambiamento climatico, ci impone di mutare paradigma e mentalità. Tuttavia, se viviamo questa trasformazione come una mortificazione, della serie: “Finora abbiamo goduto, adesso bisogna tirare la cinghia”, difficilmente riusciremo nel nostro intento. Dobbiamo invece capire quanto questo processo di ridefinizione delle nostre priorità possa essere virtuoso. Perché sono convinto che uscire da questo consumismo compulsivo, avere un’attenzione in più agli aspetti relazionali, alla comunità, sia un percorso di felicità».

Un futuro definito spesso “sostenibile”. Per Lei cosa significa?
«In inglese la parola “sustainable” ha la stessa radice di “sustain”, ossia il pedale del pianoforte che allunga la nota. Questa di solito ha un suono netto, ma schiacciando il pedale “sustain” il suono si prolunga. È questo il vero significato di “sostenibilità”, al punto che i nostri cugini francesi l’hanno tradotto con la parola “durable”. Cioè la sostenibilità è fare in modo che qualsiasi azione, individuale o collettiva, afferente alla nostra comunità o anche alla nostra nazione, abbia come obiettivo risultati durevoli nel tempo. È un cambio di paradigma impressionante: siamo cresciuti in una società dove l’elemento “durevole” era secondario perché si basava sul fatto che le risorse del pianeta fossero infinite. Nel prendere atto invece della finitezza delle risorse, dobbiamo in qualche modo cominciare ad agire perché questi nostri comportamenti diventino virtuosi, innanzitutto producendo risultati duraturi nel tempo».

Già nel 1974 Enzo Del Re cantava: “Lavorare con lentezza” e “La salute non ha prezzo”, consigli che non abbiamo seguito.
«Dobbiamo prendere coscienza che non esiste solo il profitto che dà valore alle nostre iniziative e men che meno dobbiamo assumere il Prodotto interno lordo come unico parametro per misurare il benessere. Questa è una componente per cui si valuta positivamente un operato, una buona pratica. Ma dobbiamo tenere conto anche di altri fattori perché non può essere l’unico elemento significativo del benessere di una comunità».

Cos’altro dobbiamo considerare?
«Innanzitutto dobbiamo avere a cuore i “beni relazionali”, elementi che non entreranno mai nei bilanci di un’azienda ma che sono l’essenza anche dell’agire imprenditoriale. Insieme al Pil dobbiamo considerare i livelli di istruzione e attenzione verso la salute della collettività. Dobbiamo poi assumere un atteggiamento profondamente diverso rispetto al consumismo esasperato con cui per troppo tempo si è misurata la salubrità di una collettività. Non aver tenuto conto dei “beni comuni” e dei “beni relazionali” ci ha portato alla situazione in cui la forbice tra i pochi che hanno molto e i tanti che hanno sempre di meno è destinata a crescere ulteriormente. Non è più possibile ragionare solo con il misuratore del profitto: questa è una componente ma non può essere l’unica».

Nel suo ultimo libro, “Il gusto di cambiare”, descrive “la transizione ecologica come via per la felicità”. Cosa intende?
«Uno degli elementi su cui siamo chiamati a riflettere è che questa transizione ecologica non durerà solo qualche anno ma può anche darsi che duri qualche secolo. Come ho detto però, il cambio di mentalità necessario per affrontarla non deve essere vissuto come una regressione. Iniziamo invece una fase di liberazione da concetti che abbiamo dato per intoccabili e che sono la causa di questa situazione. È una nuova fase della storia dell’umanità in cui prendiamo coscienza che comportamenti diversi hanno una loro componente positiva perché hanno degli effetti liberatori».

È quell’approccio alla “ecologia integrale” proposto anche nell’enciclica “Laudato si’” di Papa Francesco?
«Guardi, il valore forte di questa enciclica sta in una frase che non è solo di approccio metodologico ma di sostanza: “Tutto è connesso”. Vuol dire non ragionare per compartimenti stagni».

Ci fa un esempio?
«Il processo di migrazione. Non possiamo considerarlo come qualcosa a sé stante, senza tener conto della sua connessione ai cambiamenti climatici e al fatto che in diverse aree del pianeta le colture dovranno cambiare per forza mentre in altre, a causa della desertificazione, non ci sarà proprio più alcuna coltivazione. Così non riusciremmo a capire la Fao quando ci dice che entro il 2050 avremo quasi 200 milioni di migranti climatici».

Da anni il Pontefice sottolinea l’importanza di «coniugare giustizia climatica e sociale». Come si può fare?
«“Tutto è connesso” significa che, anche in queste situazioni di sofferenza, dobbiamo avere la capacità di riconoscere la connessione con i nostri comportamenti quotidiani, con il nostro modo di consumare, di produrre, di distribuire. Tutti siamo chiamati a fare in modo che inizi una nuova fase in cui il riuso, l’economia circolare, l’attenzione per la salubrità dei suoli e altri atteggiamenti virtuosi diventino essenziali, a meno di non votarci a una sorta di auto-estinzione. Se l’uomo è veramente “sapiens”, a un certo punto dovrà pur fermarsi».

Qui da noi cosa dovremmo fare?
«Davanti abbiamo un futuro prossimo in cui un continente vicino come l’Africa è destinato a quintuplicare (!) la popolazione nei prossimi 50 anni, mentre la vecchia Europa registra una stabilità e in certi Paesi addirittura una regressione demografica. Questo vuol dire che siamo tutti sulla stessa barca: non facilitare processi migratori che portino, da un lato, all’accoglienza e, dall’altro, alla giustizia sociale, è una pratica che ci vedrà soccombere». 

Insomma, dobbiamo abbandonare il nostro eurocentrismo.
«Mai come in questo momento è necessario avere una dimensione che guardi alle altre culture con un atteggiamento più fraterno. È un passaggio non di poco conto, anche perché in questo momento i fenomeni migratori vengono addirittura venduti come forme di aggressione, per cui è necessario fermarle per difendere la propria cultura, quando in realtà l’integrazione non è tipica solo del XXI secolo ma tutta la storia dell’umanità è sempre stata caratterizzata, sin dall’inizio, da forme migratorie, interne ed esterne, che hanno favorito l’integrazione e l’evolversi delle culture. Avere un atteggiamento di chiusura rispetto a questa potenzialità significa, da un lato, perdere occasioni straordinarie e, dall’altro, votarci a un futuro incerto in un mondo sempre più determinato da masse che cercano riscatto dalla miseria. È questo il senso nuovo e rivoluzionario della “Laudato si’”, un documento non solo di natura ambientalista ma sociale e politica di grande rilievo».

Quale migliore forma di incontro del cibo: Lei una volta lo definì “un progetto politico”. A cosa dovrebbe mirare questo progetto?
«All’attenzione ai beni comuni e ai beni relazionali e a capire la potenzialità rivoluzionaria dell’esigenza di un cambiamento profondo, strettamente collegata all’evolversi di una situazione ambientale sempre più problematica».

Si spieghi meglio.
«L’elemento principale dell’attuale degrado ambientale riguarda quella che è sempre stata chiamata l’economia primaria, cioè l’agricoltura. Si tratta di una dimensione planetaria all’interno della quale si realizzano delle storture che producono un’incidenza impressionante sul nostro mondo. Le faccio solo due esempi».

La ascolto.
«Primo: il sistema alimentare globale è responsabile per il 37 per cento della produzione di CO2 in tutto il mondo. Non esiste altra attività umana che abbia questa incidenza: tutta la mobilità del pianeta incide solo per il 17 per cento delle esalazioni. Quindi c’è qualcosa che non funziona e che bisognerà cambiare perché altrimenti l’agricoltura rischia di diventare vittima e al contempo carnefice».

E il secondo?
«Non ci riflettiamo mai abbastanza ma il 33 per cento della produzione alimentare annua viene gettato via: vuol dire un miliardo e mezzo di tonnellate di cibo edibile che ogni anno non vengono consumate mentre in tutto il mondo, secondo la Fao, ci sono ancora 800 milioni di malnutriti e 20 milioni di morti, in massima parte bambini, deceduti per fame. Intervenire in questo ambito è fondamentale. 

Come?
«Non si tratta di affermare una primogenitura del sistema alimentare in senso gastronomico ma di rivedere alla radice i metodi di allevamento e coltivazione, considerando l’impatto che queste attività producono sull’ambiente. È un processo che chiede a tutti di essere parte attiva, non solo ai contadini, ma anche ai cittadini perché con le loro scelte possono determinare un tipo o un altro di agricoltura, come pure la moderazione o l’esasperazione del consumo di carne. Ma sta a tutti noi implementare forme di educazione alimentare senza cui questo cambiamento non sarà possibile».

Oggi invece tra monopoli sulle sementi, derivati sui diritti di sfruttamento dell’acqua e organismi geneticamente modificati brevettati, andiamo verso la privatizzazione della natura. Come possiamo evitarla?
«Queste sono dinamiche potenti, con grandi risorse a disposizione, ma la realtà è più complessa. In certo qual modo però, ci spingono a studiare e favorire forme di collaborazione e anche nuove pratiche. Per quello che riguarda gli aspetti alimentari e del mondo dell’alimentazione e della produzione del cibo, ci sono due pilastri con cui ogni comunità, a livello mondiale, deve assolutamente fare i conti».

Quali?
«Innanzitutto tornare a dare valore alla stagionalità dei prodotti, senza esasperare un consumo fuori stagione che significa far deambulare alimenti tra diversi continenti».

Poi?
«Valorizzare l’economia locale. È qui che si riesce a intravedere una risposta potente nei confronti delle grandi multinazionali».

Perché?
«Perché la moltitudine di economie locali è molto più forte della concentrazione delle grandi produzioni di massa. Basta ricordare che ancora oggi le piccole realtà agricole garantiscono il cibo al 75 per cento dei viventi. E questo avviene a livello locale. Rafforzare l’economia locale può renderci tutti protagonisti e non subalterni».

Dobbiamo fare i conti però con la disuguaglianza.
«Sullo scacchiere internazionale ha certamente molta più voce, autorità e anche risorse finanziarie una politica dei grandi centri di potere rispetto alla moltitudine di politiche territoriali che garantiscono economie locali capaci di preservare il patrimonio e di rigenerarlo laddove questo è stato depauperato. Il processo di rigenerazione però è assolutamente indispensabile in questa fase storica. Ma può avvenire solo in un contesto in cui noi siamo determinanti per l’economia e questa è una dimensione locale. Dobbiamo riconoscere innanzitutto che la moltitudine di realtà economiche locali ha un impatto molto più incisivo di tutte le grandi multinazionali del mondo».

Per questo la “sua” Slow Food punta sul concetto di «rete» rispetto alle «strutture piramidali» delle grandi concentrazioni. È un modello replicabile?
«Assolutamente sì. Parliamo dei beni primari: l’alimentazione, la casa e il vestire. Partendo dalla dimensione locale è possibile concepire nuove città, con innovative forme di abitazione e rivedere totalmente la produzione dei nostri indumenti, che ha un impatto ambientale mostruoso. Il problema di fondo è comunque uno solo: prendere in mano il destino della nostra realtà economica. Per raggiungere questo obiettivo però l’elemento distintivo è la comunità: da rigenerare.

Che significa?
«Vuol dire mettere a disposizione di questa visione del mondo una rete che sia incardinata sui territori e che sappia garantire non solo la trasmissione dei saperi, ma anche la loro rigenerazione. E lo si può fare solo con la condivisione, memori anche dell’impatto sulla storia umana delle comunità che hanno cambiato il mondo». 

Cioè?
«Pensi all’agricoltura in Europa: nell’Alto Medioevo fu rigenerata dalle comunità monastiche, realizzando una rivoluzione impensabile per quei tempi. Ecco, in questo senso, la comunità è la chiave di volta per fare in modo che queste buone pratiche abbiano, per così dire, delle gambe su cui camminare».

Come dire che non è possibile essere felici da soli senza fare felici gli altri.
«Nel momento in cui ognuno di noi realizza e apporta il proprio contributo per fare in modo che gli elementi virtuosi possano essere condivisi e apprezzati, questo è un elemento di vera felicità».

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