“Il seminatore ha aperto tutta la terra, perché così poi fiorisce il grano”. Una giovane guida descrive a una classe di scuola elementare in visita a Palazzo Bonaparte, a Roma, il quadro che Vincent Van Gogh ha dipinto ad Arles, in Olanda, nel 1888, salito agli onori della cronaca lo scorso 4 novembre per essere stato imbrattato da tre attiviste per il clima. Quattro giorni dopo l’azione il vetro di protezione è stato ripulito e “il Seminatore” è tornato al suo posto, tra i corridoi dell’edificio storico di Piazza Venezia, al fianco delle altre 50 opere che raccontano la vita del pittore e ai passaggi delle lettere che Van Gogh ha inviato al fratello Theo nel corso della sua carriera. “C’è adesso in tutte le cose l’oro antico”, scriveva per raccontare il giallo e i colori delle campagne olandesi che a giugno tornano ad assumere le sembianze dell’estate.La guida confronta la versione impressionista del 1888 con una delle prime che Van Gogh ha prodotto ad Essen, il villaggio olandese circondato da campi di patate dove, nella sua fase realista, raffigura il suo primo seminatore, incluso nella collezione della mostra.
“Gli uccelli sono l’unico barlume di realismo che troviamo nell’opera”, spiega ancora la donna. “Cosa c’entra Van Gogh con il clima?”, chiede una visitatrice. Si chiama Raffaela, ha 29 anni e viene da Cava dei Tirreni. Ha preso un autobus di tre ore per arrivare a Roma e pagato un biglietto di 18 euro per vedere la mostra. Davanti al “Seminatore” cerca di scattare una foto a un’amica, che indossa una maglietta con un altro quadro di Van Gogh. “Non capisco bene perché ci abbiano lanciato la zuppa sopra, è una cosa inutile che rovina il dipinto, che utilità ha?”, aggiunge. Opinione condivisa anche da due addetti alla sicurezza del museo, che hanno tra i 70 e gli 80 anni: “Perché vieni a protestare qua? Non solo è inutile ma proprio non mi interessa”, dice uno di loro.
Secondo i militanti di “Ultima generazione”, il movimento che da almeno sei mesi fa parlare di sé bloccando il raccordo anulare di Roma, lanciando zuppe sui quadri o imbrattando le vetrine degli Eni stores, invece, i campi impressionisti del museo hanno a che fare con il clima, perché se fosse nato nel 2050 Van Gogh non avrebbe potuto dipingerli. “Quel quadro rappresenta un seminatore, un contadino, e si ricollega al fatto che i disastri ambientali, le siccità, le alluvioni, stanno portando via la possibilità di coltivare il cibo. Dovremmo essere arrabbiati per il disastro permanente che stiamo arrecando all’ambiente, per il fatto che la politica non ci sta tutelando, e non per un vetro sporco. Arrabbiatevi per quello, non per il Seminatore”, dice a TPI Björk, una delle tre ragazze che ha lanciato la zuppa di verdure sul dipinto.L’ha tirata fuori dal piccolo marsupio con cui è entrata nel museo da semplice visitatrice, poi con le altre due attiviste, Ismaela e Laura, l’ha lanciata sul vetro e ha aspettato di essere identificata.
Ha ricevuto un foglio di via dalla questura per lasciare Roma e tornare nella sua città, Padova, e ora risulta iscritta al registro degli indagati per “deterioramento, deturpamento, imbrattamento e uso illecito di beni culturali o paesaggistici”, reato per cui è prevista una condanna dai due a cinque anni. Ma il pericolo che sente incombere sul pianeta è più forte della minaccia che avverte per se stessa. “Il pensiero di una possibile pena non è bello, però rispetto a non dover più mangiare o dover scappare da un’Italia desertificata è un male minore”, racconta. Ha studiato filosofia e interrotto gli studi per dedicarsi anima e corpo alle azioni di protesta contro l’inazione climatica, ma se potesse tornare all’università probabilmente sceglierebbe Beni culturali.”Sapevamo che c’era il vetro di protezione e anche per quello abbiamo scelto quel dipinto. Con il nostro gesto non volevamo colpire l’arte, anzi: il settore dei beni culturali sarà tra i primi a soffrire dai disastri ambientali, perché quando le priorità saranno mangiare e bere, o l’acqua che non si trova, quando ci saranno meno risorse, non si potrà neanche andare al museo. Se vogliamo proteggere l’arte, dobbiamo pensare a proteggere le nostre vite”, continua.
È minuta, ha i capelli neri e corti, porta gli occhiali da vista e un ciondolo che penzola su un lupetto color porpora. Non ha le sembianze di un’attivista radicale che vuole distruggere palazzi e vetrine, ma di una giovane studiosa. Indossa colori autunnali, ha pantaloni larghi e scarpe da ginnastica. Mentre parla sorride, a volte abbassa lo sguardo, o gioca con le maniche del maglione per raccogliere i pensieri. Ha iniziato a interessarsi all’emergenza climatica a scuola, partecipando al movimento dei Fridays for Future, ma con il tempo ha capito che per produrre cambiamenti significativi sfilare per le strade non sarebbe bastato più.
“Per me i Fridays for Future fanno un ottimo lavoro di sensibilizzazione, quando sono nati hanno davvero contribuito a portare il tema al centro dell’attenzione, ma la politica ha davvero pochissimi anni per prendere decisioni e contrastare l’emergenza climatica, e siccome il cambiamento deve essere rapido, fare le manifestazione non è più così efficace”, sottolinea. Ad accomunare i militanti del gruppo, nato dall’unione di attivisti per il clima che facevano parte di altri movimenti, è la fede nell’efficacia della disobbedienza civile, che ritengono l’arma più potente “per fare pressione sul governo e la politica”. La rete conta circa un centinaio di attivisti in tutta Italia, e per ora è presente in sette città: Padova, Viareggio, Milano, Roma, Venezia, Firenze e Pavia, con l’intenzione di estendersi anche in Sicilia, Calabria e nelle altre regioni del sud. Le richieste che rivolgono al governo sono tre: fermare la riattivazione delle centrali a carbone entro il 2025, accordo preso nell’ambito della Cop26, stoppare i nuovi progetti di estrazione di gas naturale e attivare entro il 2023 almeno 20GW di energia eolica e solare.
Ma sono convinti che per portare avanti le proprie rivendicazioni e stimolare cambiamenti legislativi sia più efficace bloccare la circolazione e provocare una reazione da parte dell’opinione che protestare davanti a Palazzo Chigi. Parola di Martin Luther King. “La sociologia del cambiamento dice che andare verso il potente è l’ultimo passo di una rivoluzione non violenta, che impiega anni. Di manifestazioni in cui appendi uno striscione davanti ai “palazzi del potere” ne avvengono tutti i giorni e non lo sappiamo”, osserva Michele, uno degli organizzatori di Ultima Generazione. Ha 27 anni e ha lasciato una carriera nell’insegnamento e una vita in una comunità agricola sul Monte Rosa per trasferirsi a Roma, “dove si concentrano i media e si possono portare i messaggi nei luoghi ostili dove devono arrivare”. Non si definisce un attivista, ma “un cittadino a supporto delle richieste di Ultima Generazione”. A cambiare la sua prospettiva è stato un romanzo di Bruno Arpaia, che descrive l’Italia deserta del 2060, da cui il protagonista del racconto è costretto a emigrare. “Ma nei Paesi scandinavi, dove la siccità non ha ancora distrutto la terra – racconta Michele – ci sono i fucili spianati e non tutti possono entrare”.
Leggi l'articolo originale su TPI.it