Era il 28 settembre 1943 quando Georg Ferdinand Duckwitz, membro dell’ambasciata tedesca a Copenaghen, fu informato dell’imminente deportazione dei quasi settemila ebrei danesi nei campi di concentramento. Allora passò l’informazione al partito socialdemocratico, che informò la comunità ebraica. Così quasi tutti riuscirono, prima, a scampare al raid organizzato nella notte tra il 1 e il 2 ottobre e poi a fuggire in Svezia.
È un caso unico, raccontato dallo storico Andrea Vitello nel suo libro “Il nazista che salvò gli ebrei”, perché coinvolse tutta la società danese. Anche grazie a quello che Vitello definisce «l’unico politico nazista a opporsi alla deportazione degli ebrei in Europa».
«Da una leggenda. Ero ancora ai primi anni di università, studiavo filosofia e ad una conferenza sentii parlare del re Cristiano X. Si diceva che avesse indossato una stella gialla in solidarietà con gli ebrei danesi. Non è mai accaduto ma tutto nasce da una battuta del monarca in una conversazione con il premier Vilhelm Buhl, che si chiedeva cosa fare se gli occupanti nazisti avessero obbligato gli ebrei danesi a indossarla. Decisi allora di studiare la storia, scoprii il retroscena della leggenda e anche come quasi tutti gli ebrei danesi si salvarono grazie alla resistenza non violenta della popolazione».
«Fu l’unico politico nazista a opporsi alla deportazione degli ebrei in Europa. Ci furono, come dimostrato ad esempio da Anna Foa, soldati della Wehrmacht iscritti al partito che provarono a sabotare le deportazioni, ma in questo caso si tratta di un esponente politico. Nacque nel 1904 a Brema da una famiglia di commercianti. Sin dall’università si affiliò all’estrema destra e nel 1932 si iscrisse al Nsdap lavorando per tre anni all’ufficio esteri sotto Alfred Rosenberg. Ma nel 1935, dopo l’epurazione delle SA, si allontanò dal partito, pur restando iscritto, e tornò a fare il rappresentante per una compagnia di navigazione. Quindi nel 1939, anche grazie ai buoni rapporti con il ministero degli Esteri tedesco, chiese di entrare a far parte del personale dell’ambasciata a Copenhagen. Qui, nel 1942, divenne uno dei consiglieri più fidati del plenipotenziario del Reich, Werner Best».
«Dopo le sconfitte di El Alamein e di Stalingrado, nel settembre del 1943 la situazione in Danimarca per i nazisti si fece incandescente: la resistenza civile prese coraggio, pur restando non violenta, aumentarono le proteste e soprattutto gli scioperi e gli occupanti proclamarono lo stato di emergenza. In questo contesto, Best comunicò a Duckwitz l’imminente deportazione degli ebrei. Quest’ultimo decise di agire: fece avere passaporti agli ebrei danesi per fuggire nella Svezia neutrale. Si recò in prima persona a Stoccolma per convincere il governo svedese ad accoglierli. Quindi fece sabotare due navi destinate alla deportazione e, non potendo più fare altro, avvisò i membri del partito socialdemocratico, tra cui il futuro premier Hans Hedtoft, che il raid sarebbe avvenuto il 2 ottobre, un’operazione conclusasi poi con l’arresto di “sole” 202 persone su quasi 7.000».
«La comunità ebraica si sentiva al sicuro in Danimarca, se la fonte di tali informazioni non fosse stata un personaggio tanto importante forse nessuno ci avrebbe creduto».
«Nel giugno del 1944, a seguito di un grande sciopero, mediò tra Werner Best e i manifestanti per evitare una strage. Entrò anche a far parte della congiura del 20 luglio 1944 per assassinare Hitler. La sua importanza era tale che, se il piano avesse avuto successo, Duckwitz sarebbe diventato plenipotenziario in Danimarca e Norvegia e avrebbe avuto l’incarico di mediare la resa con gli Alleati. Alla fine sopravvisse alla repressione e alla guerra e fu riconosciuto Giusto tra le Nazioni dallo Yad Vashem».
«Duckwitz è stato certamente influenzato dal clima danese. La Danimarca accolse la prima comunità ebraica nel XVII secolo, invitata dalla monarchia per modernizzare il Paese. Nel 1690, un funzionario di Copenhagen propose di costruire un ghetto ma fu esautorato dalle sue funzioni. Poi nel 1814 fu riconosciuta agli ebrei parità di diritti. Il clima era completamente diverso rispetto alla Germania».
«Mentre nel 1933 Hitler prendeva il potere, re Cristiano X partecipava ai festeggiamenti per i 100 anni della sinagoga di Copenhagen. I ragazzi ebrei ortodossi invitavano i compagni di scuola luterani alle proprie festività e viceversa. C’era un’integrazione totale, il che portò la popolazione a impegnarsi per salvare la comunità».
«Quando scoprirono cosa volevano fare i nazisti, cominciarono a nascondere le persone. In molti rischiarono la vita, la deportazione e la tortura per trasportarli via mare in Svezia. Alcuni ospedali si trasformarono in rifugi e usavano le ambulanze per trasportare chi era in fuga direttamente sulle banchine da dove partivano le navi. Quando i nazisti scoprivano gli ebrei nascosti nei reparti o nelle sale operatorie, uccidevano tutti i presenti: infermieri e medici compresi».
«La chiamo la “normalità del bene”. Per i danesi, aiutare gli ebrei era normale. Quasi tutta la comunità fu salvata dallo sterminio, eppure fra i Giusti tra le Nazioni dello Yad Vashem si contano solo 22 danesi perché i membri della resistenza non fecero pervenire i propri nomi. Basta ricordare cosa successe dopo il fallito raid del 2 ottobre 1943».
«I tedeschi proposero uno scambio: avrebbero liberato i militari danesi internati in cambio della consegna degli ebrei. Copenhagen rispose che non ci sarebbe stato alcun merito nello scambiare un danese con un altro. Non solo: il 3 ottobre la Chiesa luterana fece circolare un appello ad aiutare gli ebrei».
«Era stato professore di Robert Oppenheimer ed era l’unico che conoscesse la fisica come il suo amico Albert Einstein. Gli Alleati riuscirono a farlo fuggire in Svezia, da dove avrebbe dovuto raggiungere prima il Regno Unito e poi gli Usa per una consulenza sulla bomba atomica. Bohr si rifiutò di partire: voleva prima vedere il re di Svezia e farsi assicurare personalmente che Stoccolma avrebbe accolto gli ebrei danesi. Ma non si accontentò nemmeno della parola di Gustavo V e pretese un annuncio pubblico sui giornali e via radio (le cui trasmissioni si ricevevano anche in Danimarca) sull’accoglienza degli ebrei. Solo allora partì».
«Stoccolma predispose delle navi nelle proprie acque per aiutare gli sbarchi. Ai profughi fu assicurata una piena integrazione nella società, nelle scuole e nelle professioni».
«La crisi del dopoguerra fu un problema. Molti avevano occupato i posti di lavoro che i profughi erano stati costretti ad abbandonare. La situazione non era semplice ma il Governo stanziò aiuti e risarcimenti sia per chi era riuscito a fuggire in Svezia che per chi era stato deportato nel lager di Theresienstadt, da dove molti internati danesi tornarono vivi grazie a un accordo mediato con i nazisti attraverso la Croce rossa svedese. Il risultato fu che l’emigrazione ebraica in Palestina dalla Danimarca fu minima».
«Due industrie danesi sfruttarono il lavoro schiavo dei deportati e in un caso la polizia rifiutò l’ingresso in Danimarca a 21 ebrei tedeschi condannandoli, di fatto, a morte. Per questo, nel 2005, il premier Anders Fogh Rasmussen chiese perdono per chi non era stato salvato».
«Alla fine furono più i poliziotti che gli ebrei danesi deportati, ma non è importante il numero. Come disse Duckwitz in un’intervista nel dopoguerra: “A volte bisogna essere in grado di mettersi nei panni degli altri”».
Leggi l'articolo originale su TPI.it