Se Plutarco tornasse a scrivere le sue Vite parallele all’inizio del XX secolo, non esiterebbe a porre a confronto l’esistenza di Giuseppe Mazzini con quella di Liang Qichao, appartenente alla generazione immediatamente successiva. Il primo ha visto nascere un’Italia unificata negli ultimi anni della vita ed è rimasto fermamente fedele agli ideali repubblicani fino al giorno della sua morte avvenuta nel 1872, mentre il secondo, nato l’anno dopo in una Cina preda degli Stati coloniali, ha visto il fallimento della Riforma dei cento giorni.
Nella Autobiografia precocemente scritta a soli trent’anni, Liang ricorda con precisione le coordinate che definiscono la sua nascita: “Sono nato il 26 gennaio del calendario lunare cinese, sotto il regno dell’Imperatore Tongzhi. Questa data coincide con il decimo anniversario della caduta del Taiping Tianguo a Nanchino, l’anno successivo alla morte del noto statista Zeng Guofan, e tre anni dalla guerra franco-prussiana. Inoltre, è l’anno in cui Roma è stata designata come capitale del Regno d’Italia”.
Si intuisce subito la visione globale di Liang Qichao, il quale ha inserito la sua vita nel contesto mondiale. Non sorprende il motivo per cui Liang, una delle più importanti personalità della storia moderna cinese, abbia scelto il Risorgimento italiano come modello per illuminare i suoi connazionali, al fine di risollevare la patria da una situazione umiliante. L’autore delle Vite dei tre eroi fondatori dello Stato Italiano, la prima opera in lingua cinese dedicata al Risorgimento italiano e ai suoi protagonisti, afferma che “solo le azioni dei patrioti italiani possono fungere da modello per il popolo cinese”. Allo stesso tempo, si identifica con il repubblicano genovese, chiedendosi quando la Cina riuscirà a raggiungere uno stato simile: “Ecco spuntare Mazzini che riuscì a ringiovanire l’intero Paese; a quando in Cina?”
L’Italia giovane, immaginata da Liang, si discosta dal mito che emergeva, a più riprese, dagli scritti degli antichi cinesi. Il Belpaese del Sì si presenta agli intellettuali cinesi del primo Novecento non solo come una mera entità geografica, ma come un modello da emulare. I due Paesi, accomunati da civiltà millenarie, sono destinati a rivivere un passato glorioso.
Va notato che l’interesse per il Risorgimento nel tardo periodo Qing non si limitò a Liang Qichao. Anche il suo maestro, Kang Youwei, dimostrò un vivo interesse per gli eventi dell’epoca. Nel suo resoconto di viaggio in Italia del 1904 lasciò testimonianze dirette nell’Yidali youji, dalle quali emerge la sua preferenza per un altro eroe risorgimentale.
Il Conte di Cavour, Camillo Benso, alla vigilia della unificazione, guardava con altrettanto entusiasmo verso la Cina. Negli anni ’50 dell’Ottocento, mentre l’industria serica del Piemonte veniva messa a dura prova dall’epidemia della pebrina, una malattia che colpiva i bachi da seta, lo sguardo di Cavour si rivolse verso i mercati orientali, in particolare la Cina, con l’obiettivo di importare sia la seta grezza che un seme adatto a rivitalizzare la produzione locale. L’approccio del Conte di Cavour non era una mera strategia temporanea, ma piuttosto un calcolo economico ben ponderato giustificato dalle fonti dell’antichità classica.
Haec eadem nouit quid toto fiat in orbe, quid Seres, quid Thraces agant (costei sa tutto quel che bolle nel mondo, ciò che fanno i Seri e i Traci) è un passo interessante che ci parla di una figura di una chiacchierona romana ben informata su ciò che accade in tutto il mondo, compresa la Cina. Il poeta satirico Giovenale ci offre una testimonianza antica e curiosa dell’immaginario cinese dei Romani. Seres, il misterioso Paese della seta, sembrava situato agli estremi confini del mondo conosciuto. Questa terra remota, oggetto di ricerca per cartografi e filologi europei, divenne il punto di partenza per esplorare l’alterità del mondo cinese.
Curiosamente, il prestigio attribuito da Liang all’Italia sembra essere alimentato dalla sua lontananza o dalla sua irraggiungibilità, come direbbe Tacito. Major e longinquo reverentia, così ricorda lo storico romano: la lontananza aumenta il prestigio. Tuttavia, questo giudizio dello storico romano sembrerebbe smentito dall’esperienza di Marco Polo, il celebre viaggiatore il cui libro Il Milione era ricco di informazioni, aneddoti e curiosità. Le sue narrazioni suscitarono nei contemporanei e nelle generazioni successive un forte desiderio di raggiungere l’altra estremità del continente eurasiatico. Sul letto di morte, Marco Polo assicurò che aveva raccontato solo la metà delle cose che aveva visto durante i suoi viaggi. Anche se alcuni scettici consideravano il racconto di Marco Polo come una sorta di fantasia fiabesca, il dubbio non riuscì mai a smorzare l’entusiasmo incessante dei successivi esploratori e viaggiatori.
Quando Matteo Ricci intraprese il viaggio via mare verso il Paese di mezzo, si trovò di fronte a numerosi enigmi irrisolti. Correva l’anno 1583 e i gesuiti non sapevano ancora stabilire il rapporto fra la Cina dei Ming e la Catai descritta dal veneziano Marco Polo. L’ipotesi di identificare la posizione di Catai spesso naufragava a causa delle difficoltà nel superare i confini via terra.
Nel 1602, il gesuita portoghese Bento de Goes partì dalla città di Agra per recarsi via terra verso la Cina. Percorse lo stesso itinerario seguito da Marco Polo negli anni ’70 del XIII secolo. Il giorno di Natale del 1605, Goes arrivò a Suzhou, dove, due anni dopo, morì, ponendo fine alla sua speranza di raggiungere Ricci che lo attendeva a Pechino. Mentre Bento de Goes cercava la Cina, sembrava aver trovato il paradiso. Tuttavia, l’incontro mancato tra i due gesuiti riuscì comunque a chiarire l’autenticità e la validità del racconto di Marco Polo nel testo Il Milione e, allo stesso tempo, a identificare la Cina descritta da Ricci con il Catai del noto esploratore veneziano.
Le testimonianze di quest’ultimo sulla Cina smisero così di essere vaghe ed enigmatiche nei testi, e la “seconda metà” delle cose che Marco Polo “aveva visto” non caddero nell’oblio e non vennero dimenticate.
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