Di lui si dica: ha inventato, ha vissuto, ha lottato. Ha sfidato leggi ingiuste e poteri infami. Più volte. Ha visto l’abisso coi propri occhi e ne è riemerso per restituircelo in forma di poesia. Con la penna e col proprio corpo. Fino all’ultimo. Non ce l’ha fatta, Andrea Camilleri. Il 17 giugno scorso – esattamente un mese fa – era stato colpito da un infarto fulminante e ricoverato in un letto di rianimazione all’ospedale Santo Spirito di Roma. E da lì non è più uscito. Come ognuno di noi (più o meno segretamente) temeva, senza che nessuno avesse il coraggio di dirlo. Perché per dire addio al Maestro ci vuole più tempo di un mese, molto più tempo. Per realizzare, per elaborare, per organizzare un addio degno del più grande narratore che l’Italia abbia avuto negli ultimi 30 anni.
Vicino a Verga, accanto a Sciascia, di fianco a Pirandello. C’è un posto che lo attende nel pantheon dei grandi della sua terra, la Sicilia, così lontana dal Continente negli odori, nei respiri, persino nel modo di parlare e di vestire, eppure straordinaria metafora di quello che, nel frattempo, stava accadendo in Italia.
Prima di essere un commissario, Montalbano è stato una maschera della italianità, al pari di Totò e Alberto Sordi. Ci ha raccontato uno spicchio di Sicilia introvabile sulle carte geografiche. E non potevamo trovarlo perché Vigata non era un luogo fisico ma uno stato mentale: un puntino nel mondo a cui, libro dopo libro, il Maestro aggiungeva un’atmosfera, un personaggio, un tassello mancante.
Cercavamo la Sicilia in Camilleri, ci aspettavamo il sud, ci siamo illusi di vedere una sorta di esotismo mitico, una specie di realismo magico. E, alla fine, come nella Macondo di Gabriel Garcia Marquez, abbiamo finito per trovare raccontate su quelle pagine noi stessi. La nostra storia. Andrea Camilleri ha attraversato almeno sette generazioni: fascismo, guerra, fame, boom, piombo, immagine, barbarie. E, come Diogene con la lanterna in mano, non ha mai smesso per un istante di cercare l’uomo.
Senza pretenderlo, ci ha insegnato il significato profondo della parola umanità. In ogni sua declinazione, persino quelle che non sapevamo esistessero. E, quando si è accorto che questa non era più la sua epoca, ce lo ha voluto dire. Con la forza e la schiettezza di sempre. In un’intervista a Radio Capital del 12 giugno scorso. È stata l’ultima volta che abbiamo sentito il Maestro parlare pubblicamente, anche se nessuno allora poteva saperlo. In quella lunga chiacchierata ha parlato di tanto, quasi tutto. Una cosa, però, non la scorderemo mai.
“Da non credente, quando vedo Salvini impugnare e baciare il rosario, mi viene da vomitare”, ha detto con la voce sempre più arrochita dagli anni e dai troppi sigari. Quasi un presagio, a risentirla ora. Tre giorni dopo si è addormentato senza svegliarsi più.
Con Camilleri se ne va un grande italiano. Non è stato lo scrittore più bravo, l’intellettuale più grande o l’uomo più puro. È stato semplicemente un uomo, il più uomo di tutti. Fino all’ultimo. Senza mai smettere di avere il coraggio di raccontare quello che pensava, anche a costo di essere insultato e offeso. Lo diceva spesso, era diventata la sua convinzione. “Le parole che dicono la verità hanno una vibrazione diversa da tutte le altre”.
Sarà per questo che Camilleri mette così a disagio e spaventa, ieri come oggi, orde di analfabeti funzionali che non hanno mai letto un libro di Montalbano, e forse – chissà – non hanno mai letto un libro e basta. Sarà per questo che, pochi minuti dopo la notizia della sua morte, le bacheche social di diversi quotidiani vicini alla destra sovranista erano tutte un pullulare di fango, insulti, violenza verbale gratuita (e quasi sempre sgrammaticata), e via, sempre più giù, verso un abisso morale, civile e culturale che sembra non avere fondo. E non è un caso.
Perché Camilleri, in quello che ha scritto, detto o vissuto, ci ha messo dentro ogni cellula del suo corpo, ha speso la sua vita, la sua storia. Camilleri ti costringe a decidere ora, subito, chi sei e da che parte stai. Non offre terze vie o risposte di comodo, nel pieno di un’epoca politica in cui ci insegnano a non assumerci responsabilità e a fidarci di risposte facili a problemi complessi. E così, neanche di fronte a un gigante di 93 anni morto in un letto d’ospedale si ferma la macchina del fango.
Un esercito di odiatori senz’arte né parte, senza una storia, un talento, spesso senza neanche un nome, oggi può permettersi di vomitare su un intellettuale che il mondo ci invidia, senza dover rendere conto di niente a nessuno. Troppo facile dare la colpa, come sempre, ai social. Chi ha armato questa gente ha nomi e cognomi. A differenza di molti hater e account fasulli, sappiamo dove sono, cosa pensano, cosa dicono, che faccia hanno, i partiti che guidano, il linguaggio che usano.
Non è Camilleri oggi in pericolo. Non è lui, in fondo, il bersaglio. L’obiettivo siamo noi, la nostra società, la nostra democrazia. E abbiamo, oggi più che mai, il dovere di difenderla. Anche per chi, come Andrea, adesso non può più farlo. Ciao Maestro, ti vogliamo bene. Dietro di te lasci pagine infinite, un vuoto enorme e il rimpianto di essertene andato troppo presto, nel bel mezzo di un romanzo drammatico che rischia di avere un epilogo tragico. E ora che te ne sei andato, tocca a noi scrivere questo finale. Chissà se ne saremo mai all’altezza.