Direttore ora fai un giornale pacifista?
«Non dire cazzate».
Sei contro la guerra in Ucraina: più vicino a Gino Strada che a Silvio Berlusconi?
«Non provocare o l’intervista finisce prima di cominciare!».
Tu consideri «pacifista» un insulto, per me è un complimento.
«Stiamo facendo un giornale contro il pensiero unico. Io non sono Pa-ci-fi-sta. Realista, semmai».
Fai titoli contro la Nato, Biden, von der Leyen, Draghi, il taglio del gas russo.
«Voglio tutelare i posti di lavoro di questo Paese: impedire che la nostra economia diventi strumento degli Usa».
Non ti sta a cuore la libertà degli ucraini?
«Molto. Ma dell’Ucraina – diciamolo – tra i nostri colleghi non frega nulla a nessuno».
Dici sul serio?
«È evidente. L’Ucraina è il campo di battaglia della nuova guerra fra americani e russi. E dietro i russi c’è la Cina, dietro l’Ucraina l’industria militare americana».
Perché il 90% della stampa è interventista?
«Perché è una guerra stupida, sbagliata, terribilmente pericolosa, ma innescata dagli interessi economici dei blocchi che ti ho descritto».
È giusto dare le armi alla resistenza ucraina?
«Falso problema. È una guerra tra superpotenze: il rischio che stiamo correndo è terribile. L’America manda le armi, ma non rischia un uomo, ed è protetta da un oceano. Noi siamo l’anello più debole dell’Europa».
Sei in minoranza, anche a destra.
«Nel Palazzo sì. Come lo siamo stati sul Green Pass. Ma arrivano consensi straordinari dai nostri lettori, tra chi paga l’aumento dei prezzi e non riceve aiuti».
Come ricade questo sul giornalismo?
«Col tentativo di infangare, ad esempio, una firma come Toni Capuozzo».
Hai pubblicato i suoi articoli su Bucha. Ma non ci sono ancora certezze.
«Vero. Ci sono seri dubbi. E quelli di Capuozzo sono fondati, espressi da uno che ha visto cento guerre sul campo».
Polemiche giornalistiche?
«No. È osceno che opinionisti da salotto chiamino Capuozzo “amico di Putin”. Senza il dubbio non c’è informazione».
La polemica oggi è più dura che ai tempi dell’Iraq?
«L’obiettivo dei conformisti è tappare la bocca a chiunque la pensi diversamente e dica la verità più scomoda».
Quale?
«Se si continua così, da questa guerra può uscire un’Europa più divisa e più povera. E un’Italia a pezzi».
Maurizio Belpietro ha fondato “La Verità” e con i profitti del quotidiano ha comprato sette testate dalla Mondadori. Un gruppo da 34 milioni di euro. Lui ha una tesi: «Oggi fare giornali liberi è più difficile di vent’anni fa: ti spiego perché».
Da che famiglia vieni?
«Una normale famiglia italiana anni Sessanta: tre fratelli, madre casalinga, padre impiegato: tecnico specializzato in una azienda meccanotessile».
Cioè?
«Nel dopoguerra il mio paese, Palazzolo sull’Oglio, era una delle capitali del tessile d’Italia. La chiamavano la “Manchester italiana”».
Un mondo scomparso.
«Finito. Quel distretto nasceva intorno all’Oglio, proprio perché era alimentato con energia idroelettrica».
Tuo padre si occupava proprio di quello.
«In un’azienda di macchine da tessitura: era responsabile di due centrali elettriche e di una piccola diga che le alimentava».
Palazzolo ha un’altra caratteristica che sarà importante per la tua vita.
«È una terra di confine tra mondi: l’ultimo paese del bresciano, subito dopo inizia la bergamasca. Non a caso, anche simbolicamente, è la patria della cerniera lampo: geniale invenzione industriale, brevetto della famiglia Lanfranchi».
Eravate benestanti?
«Al contrario: una famiglia monoreddito, non proprio agiata».
Cosa volevi diventare da ragazzo?
«Non ne avevo idea. Ma due eventi – uno piccolo e casuale, l’altro storico e drammatico – hanno cambiato la mia vita».
Il secondo è la strage di Brescia.
«Difficile oggi spiegare cosa rappresentò quella bomba: avevo 16 anni, ero del tutto disinteressato alla politica, non sapevo nemmeno cosa votasse mio padre».
E poi?
«Il 28 maggio 1974 morirono 8 persone e 102 rimasero ferite. Il bisogno di capire diventò enorme».
E l’evento minore e casuale, invece?
«Poco dopo, avevo 17 anni, ero studente. Un vicino di casa, Giovanni Pezzoni, mi dice: “Vuoi scrivere per un giornale?”».
Come mai?
«Brescia aveva due giornali: Il giornale di Brescia, delle grandi famiglie democristiane e dell’establishment, e Bresciaoggi, che era appena fallito».
Il concorrente anti-establishment?
«Sì. Nato nel 1974 dalle famiglie degli acciaieri, chiamati, con una punta di disprezzo, “i tondinari”. Gente come i Lucchini, i Pietra, non gli ultimi arrivati».
Il giornale chiude dopo un anno.
«Ma i giornalisti non ci stanno: aiutati dai sindacati, rilevano la testata. Il mio vicino, segretario di sezione socialista, lo sosteneva: una sera mi porta a Brescia davanti al caporedattore, un tizio con i baffoni».
Accoglienza amorevole?
«Mi dice: “Guarda che non abbiamo di che pagarti”. Era vero: i giornalisti guadagnavano meno di un operaio».
Esempio?
«Nel 1975 uscivo da scuola e suonavo al piantone della caserma dei carabinieri: il comandante, Vincenzo Capodici, che si vantava di aver lavorato per il Sifar, mi dettava letteralmente i pezzi, in un italiano questurese: “Oggi, alle ore 16, verificavasi un drammatico incidente…”. Poi mi intimava: “Rilegga!”».
Ah ah ah.
«Brescia era la terza città industriale. Attraversata da lotte e proteste, e io raccontavo questa stagione sulle pagine economiche».
E Il Giornale di Brescia?
«Nemmeno una riga».
Ti parlavano tutti?
«Nemmeno una parola. Bisogna conoscere gli industriali bresciani».
E quindi?
«Mi compro libri sulle analisi di bilancio: studio. E scopro le condizioni economiche delle imprese. In Gazzetta Ufficiale trovavo le convocazioni delle assemblee societarie. Richiamavo i titolari: “Avete avuto perdite e dovete ricapitalizzare…”».
E loro?
«“Come lo ha saputo?”».
Da Bresciaoggi ti spediscono a Bergamo.
«Perché ero “di confine”».
A Bergamo c’era l’Eco di Bergamo, giornale della curia.
«Il suo concorrente, il Giornale di Bergamo, dell’Unione industriali, era fallito. Così i giornalisti di Bresciaoggi, favorirono la nascita di Bergamoggi».
Gli imprenditori di Bergamo ti parlavano?
«Nemmeno una parola».
E tu? Stesso sistema?
«Andavo alla biblioteca pubblica Sormani. Leggevo bilanci e Gazzetta Ufficiale, con le assemblee e le loro motivazioni: “Ricostituzione”, “aumento di capitale”…».
E iniziano a parlarti tutti.
«Sì. Ma nel 1983 c’è una scissione per far nascere Il Nuovo Giornale di Bergamo».
E la contromossa?
«L’uomo che coordinava tutto, Odoardo Rizzotti, dice: “Io esco lo stesso. In quanti siete rimasti?” Gli rispondo: “Solo io”».
Era vero?
«Sì. Ma prendo l’agenda, chiamo tutti i collaboratori usciamo comunque. Rizzotti annuncia: “Prendiamo un nuovo direttore: giovane, ma di grande talento”».
Chi era?
«Un certo Vittorio Feltri».
Nasce una grande amicizia?
«A dire il vero no. Appena arrivato gli stavo sulle balle. Un giorno però gli telefono a casa: “Secondo me questo titolo che hai fatto è sbagliato”».
E lui?
«“Se è sbagliato cambialo! Ciao”. Poi un giorno fa un ordine di servizio e inventa alcune regole. Il quarto punto, con mio grande stupore, era: “Se non ci sono io decide Belpietro”».
Era nato il sodalizio più tumultuoso del giornalismo italiano.
«Un altro giorno mi dice: “Fai il capo delle province”».
E ti imbatti in una storiaccia orrorifica.
«Un certo Tonino Di Pietro, un pm molisano che viveva a Curno, apre un’indagine su due cadaveri murati nella calce in una casa a Leffe. Un terzo lo trovano semidecomposto in una discarica».
Interessante.
«Li ribattezzammo “I delitti del mostro di Leffe”. Di Pietro scoprì che l’autore, Giovanni Bergamaschi, aveva ucciso suocera, moglie e figlia a colpi di chiave inglese».
Pazzesco.
«Ed era accaduto tre anni prima! Era riuscito a mascherare la scomparsa simulando un trasferimento in Germania. Raddoppiammo le vendite».
E poi?
«Bergamaschi scappò, innescando un’incredibile caccia all’uomo. Vendite triplicate».
Era il 1984, tutto vi va bene.
«E invece ricevo un telegramma in vacanza: senza dirmi una parola, Vittorio se ne andava al Corriere».
E tu?
«Vado via anche io: collaboravo a Mondo Economico a Il Globo, dove c’era un giovane Massimo Giannini. Gianni Gambarotta mi chiama a Gente Money. Nel 1988 a Capital».
Poi Feltri diventa direttore dell’Europeo.
«E mi assume, nominandomi capo della sezione Società e Costume. Lavoravo con Giusi Ferré, Marina Terragni, Stella Pende… Grande squadra».
E cosa accade?
«È il 1991, Guerra del Golfo. Vittorio la racconta in un modo nuovo: rompiamo il cliché, diamo conto di tutti i punti di vista. Le vendite esplodono: quasi 200mila copie!».
Nel 1992 siete galline dalle uova d’oro, e andate all’Indipendente.
«Doveva essere un giornale anglosassone diretto da Ricky Franco Levi, futuro portavoce di Prodi».
Gli editori erano Barbieri, il papà della Sperling & Kupfer, Zanussi, Zanichelli…
«Vendevano 16mila copie. Stavano per chiudere: puntano su Vittorio direttore».
E tu lo segui?
«Non si capiscono le nostre storie senza il gusto dell’avventura. All’Europeo, un giorno, ero letteralmente davanti all’orinatoio. Si avvicina il mostro sacro, Lamberto Sechi: “Feltri è andato via. Ho grandi progetti su di te”. Gli ho risposto: “Anche io ho grandi progetti su di me!”».
Cosa succede?
«Dopo dieci giorni vengono a Palazzolo Feltri e la moglie Enoe. Lei, in giardino mi fa: “Andresti con Vittorio?”».
E lo segui.
«Iniziamo a sparare titoli brutali, buffi, grandi, una nuova lingua giornalistica».
Quale era la ratio?
«Stupire, far incazzare, divertirci. Oggi sembrerebbero titoli di Cuore».
Del tipo?
«“La Dc candida Forlani. Per perdere”».
E i politici protestavano.
«Uhhh. Ma c’erano anche le notizie, le trovate. Mandai Gabriele Paci a cercare la famosa donna schiaffeggiata da Scalfaro».
Era un giornale di destra, e populista.
«Avevamo anche lettori di sinistra e nessun vincolo. Se c’erano idee di destra erano anche le nostre. Sposavamo tutto ciò che era contro, divertente, o dissacrante».
Confessa: tutto ciò che faceva vendere.
«Ah, certo. Molti colleghi storcevano il naso, noi ne eravamo orgogliosi».
Eravate anche volgari.
«Talvolta».
E prendevate querele.
«Tante. Ma ce ne fregavamo. Passammo a 40mila copie. Eravamo increduli».
Un altro titolo d’epoca?
«A me piace: “De Mita lascia la bicamerale, gli resta l’attico”».
E lui?
«Furibondo».
Poi arriva Mani Pulite.
«Superiamo le 124mila copie. L’editore riconosce il 5% delle azioni a Vittorio e l’1% a me».
Un titolo per cui ti condanneresti.
«Arrestano Primo Greganti per le tangenti rosse. Mi arriva sul tavolo una foto segnaletica, lui di profilo. Ne cerco una di Occhetto, uguale, la inverto per montarla a specchio. Titolo: “Primo Greganti. Secondo, Occhetto”».
Il punto di non ritorno?
«I pentiti accusano Andreotti. Gianni Pennacchi gli strappa una formidabile intervista: “Ne uscirò pulito. Non datemi per morto”».
E tu?
«Dai tempi dell’Europeo compravo foto buffe. Ne usai una di Andreotti dentro una cabina Sip, girata in orizzontale, con il titolone: “Andreotti: ‘Non sono morto’”».
E lui?
«Disse a Gianni divertito: “Però. Io vi do l’esclusiva e voi mi mettete in una bara”».
Ah ah ah.
«Nel 1994 ci chiamano a Il Giornale».
Dove cacciate Montanelli. E Berlusconi fa il “discorso del bastone” in redazione.
«Vero. Scissione e cadaveri. Ma quando arrivammo noi, la guerra era già finita: Indro aveva portato via metà della redazione fondando La Voce con Vittorio Corona. E, all’inizio, con un successo di vendite clamoroso: 400mila copie».
Tu nel 1996 diventi direttore per la prima volta a Il Tempo. Per uno scoop sul Quirinale ti metti in un guaio.
«Per caso. In una cena, un signore mi dice: “Scalfaro ha fatto modificare un parere sul referendum dei radicali sulla smilitarizzazione della Finanza. Per bocciarlo”. Una mattina, alle 6, Giordano Bruno Guerri mi chiama: “Ti scrive contro!”».
Scalfaro?
«No. Vittorio: non si attacca un presidente, sosteneva».
Perché tanto clamore?
«Pannella, avvelenato, organizzava sit in e tuonava da Radio Radicale».
Si arrabbia l’editore, Bonifaci.
«E mi caccia».
Feltri ti riprende a Il Giornale.
«Ma finisco in una stanzetta con Mario Cervi, con cui non voleva stare nessuno perché portava in redazione il suo amato cagnolino Golia».
Poi nel 1997 scoppia lo scandalo di Di Pietro e lui se ne va.
«Al giornale c’erano sette armadi pieni solo delle sue querele. Gli avvocati trattano la resa: il pm rinuncia al contenzioso, ma dopo una prima pagina in cui si scrive che Di Pietro è stato calunniato».
Feltri dice al Corriere: «Dovevo farlo, c’erano 36 cause!».
«Per dieci giorni i centralini di via Negri sono tempestati dai lettori che insultano. Vittorio si dimette».
E tu esci prendi il suo posto.
«È il 1997. Mi chiama Amedeo Massari, l’uomo che gestiva Il Giornale per la Famiglia Berlusconi: “Devi salvare il giornale”».
Ti propongono di essere condirettore con il fondatore Enzo Bettiza.
«Fuori da Il Giornale non mi conosceva nessuno, era giusto. Ma chiesi i pieni poteri dell’articolo 6».
Solo che Bettiza fa già un discorso da “direttore vero”.
«Spiega che vuole riscoprire l’elzeviro, la terza pagina con i commenti… Mi rifiuto: “Vittorio avrà fatto errori ma era in questo secolo”. Massari mi richiama: “Ti andrebbe bene con Cervi?”».
Accetti.
«Certo: Gli diedi la stanza di Montanelli. Non abbiamo mai litigato».
Feltri torna, ma come opinionista!
«Vittorio ha ragione, è lui il giornalista più pagato della storia: ottenne un contratto a 6 milioni di lire ad articolo! Era un patto di non concorrenza mascherato».
Qui inizia la saga dei vostri tira e molla.
«Vittorio sostiene che lui mi ha assunto quattro volte e che io l’ho licenziato una».
Bell’ingrato che sei.
«Non è vero. Il contratto di non concorrenza finì dopo un anno. Gliene proposero uno più leggero».
E lui?
«Se ne andò, per dirigere Il Borghese – dove assunse un giovane Marco Travaglio – che lasciò per dirigere il Qn. Ma lasciò anche quello, per fondare Libero».
Dove tu hai preso il suo posto!
«Ero a Panorama. Nel 2009 Vittorio mi disse: “Torno a Il Giornale: “Secondo te chi ci metteranno al mio posto?”».
Non gli hai confessato che andavi tu?
«Non lo sapevo. Sette giorni dopo Angelucci, disperato, mi disse: “Se non prendi il suo posto Libero fallirà”».
Quindi vai a Libero e vi fate la guerra da concorrenti: una telenovela!
«Io però riesco a salvare Libero. Lui guadagna copie ma dura solo un anno, travolto dagli strascichi del caso Boffo: viene sospeso dall’Ordine! Lascia di nuovo».
Ma nel dicembre 2010, torna a fare il condirettore editoriale a Libero con te!
«Ero stato io a volerlo. Ma dopo sei mesi scappa per tornare a Il Giornale, senza neanche dirmi una parola! Vittorio è unico».
A Il Fatto spiegò: «Ogni volta che lascio un giornale mi aumento lo stipendio».
«Questo è vero».
Nel 2016 è riuscito a tornare un’altra volta a Libero. facendo le scarpe a te!
«Renzi è presidente del Consiglio e io finisco in una bufera per aver pubblicato tutti gli atti del processo sul padre».
E non ti fermi.
«Gli Angelucci furono investiti di proteste da Renzi per un altro scoop: “Gli incontri tra Carboni e il papà della Boschi”».
Feltri torna da collaboratore.
«Scrive un pezzo a favore del referendum Renzi. Lo pubblico in prima, ma con sotto una risposta di Mario Giordano: “Perché voto No”».
Perfido.
«Angelucci mi avverte: “Non dimentico che ci hai salvato. Ma questa posizione su Renzi è insostenibile”».
E tu te ne freghi.
«Lui mi caccia. Vittorio diventa direttore».
E fondi La Verità.
«I nostri lettori non condividevano il sostegno a Renzi. Riuscii grazie a una squadra di giornalisti che mi seguì, solo per punto d’onore».
Con pochi soldi.
«Bussai a tutte le porte: mi dissero tutti di no. Uno dei pochi che aveva accettato, il padrone di Grafica Veneta, Fabio Franceschi, venne in redazione, quando io non c’ero, a dire: “Non bisogna attaccare Renzi”. Gli dissi: “Adesso mi rivendi tutte le quote al prezzo che le hai pagate e te ne vai. O vado via io”. Lo fece».
Quindi stavi rischiando tutto tu.
«Eravamo in un appartamentino di 100 metri quadri: De Manzoni, il condirettore, in cucina; il mio ufficio in una camera da letto; Alessandra, la nostra segretaria di redazione, davanti alla porta del bagno».
Editoria pura.
«Con fatica. Se non arrivavamo a 6mila copie si chiudeva».
Ma i lettori arrivarono.
«Subito 20mila. Oggi più di 30mila. Renzi perse il referendum anche grazie a noi».
E se oggi Berlusconi ti offrisse Il Giornale e un assegno in bianco?
«Rifiuterei. Anche se non sono ricco come Vittorio, sono ormai benestante: non mi interessa guadagnare un euro per me».
Il successo di La Verità ti ha permesso di comprare Panorama. E poi altre sette riviste Mondadori. Perché?
«Fatturiamo 36,8 milioni di euro. Nel momento in cui vincevamo sull’informazione politica era utile diversificare».
Ti sei comprato: Sale e pepe, Starbene, Cucina moderna, Tu Style, Confidenze, Donna moderna, Casa Facile.
«Tempismo perfetto: contratti firmati un mese prima del Covid. Adesso il fatturato è crollato da 5 a 1,5 milioni».
Ti sei pentito?
«Per nulla: il principio anticiclico è giusto».
Ora hai fondato anche un quotidiano economico diretto da Franco Bechis.
«Verità & Finanza: è nell’economia quello che noi siamo per la politica».
Cosa si impara da questa lezione?
«La garanzia della mia libertà oggi è essere l’editore».
Quando eri solo direttore non eri libero?
«Allora il mercato era al top: gli investimenti, i profitti, le firme, la pubblicità…».
E oggi?
«Oggi l’industria della carta è decaduta. I grandi giornali hanno solo grandi perdite».
Dominano ancora il mercato.
«Dinosauri prima del meteorite. Stanno in piedi anche se perdono una cosa: la loro libertà».
È più difficile di ieri essere liberi?
«I giornali come noi, il Fatto, TPI sono il futuro. Se ti comprano i tuoi lettori hai fortuna. Se no muori».
E gli altri?
«Sono destinati a soffrire, a subire condizionamenti e conflitti di interessi».
Esempio?
«Noi siamo contro il pensiero unico e lo scriviamo. Credi che i nostri colleghi siano innamorati di Draghi, come prima di Monti, o Renzi? Figurati. I lettori avvertono questa mancanza di libertà e fuggono, a destra come a sinistra».
Che differenza c’è tra giornalismo di destra e di sinistra?
«Il giornalismo di destra era un sistema minoritario: se stavi nei nostri giornali tutte le carriere mainstream ti erano proibite. Niente grandi editori, niente Rai. Niente incarichi d’oro».
Oggi non è più così?
«La barriera è diversa ma è sempre alta. Se sei contro il politicamente corretto oggi sei un appestato. Ma con un paradosso: i nostri lettori si svenerebbero per noi. Mentre i sacerdoti dei nuovi conformismi, dal Green Pass alla guerra, restano invenduti nelle edicole».
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