Professor Asor Rosa, lei a 85 anni si è rimesso a studiare Machiavelli.
(Ride). Lo farei anche a cento anni, se è per questo. È di una attualità sorprendente.
Il suo saggio, appena uscito per Einaudi – Machiavelli e l’Italia, resoconto di una disfatta – ricostruisce la storia appassionante del più grande pensatore politico italiano.
Cito lettere, documenti, testimonianze. Ho cercato di calare la ricerca politica e teorica di Machiavelli, e le sue indicazioni di massima, nelle esperienze della sua vita.
Machiavelli sogna uno stato nazionale sovrano, proprio nel pieno della crisi.
È una scenario, quello dei primi anni del cinquecento che io definisco la “Catastrofe italiana”.
Spieghiamo perché.
L’Italia soggiace alla superiore potenza politica e militare delle grandi potenze politiche Europee. Le famiglie di Roma e Firenze, a cui Machiavelli si rivolge, potrebbero costituire embrionalmente lo Stato nazione.
Eppure questa impresa non riesce.
Sa perché? Perché non uno dei suoi ottimi consigli, non una delle sue analisi, viene ascoltata.
Divisi e battuti.
I principi italiani vengono schiacciati dall’impero, cioè dalla grande Germania, dagli Asburgo che dominavano un territorio enorme, dalla Spagna all’Ungheria.
Lei torna a studiare questo periodo non per caso.
La storia italiana ha questo di bello: quando uno prende un qualsiasi avvenimento del passato, scopre che qualcosa di incredibilmente attuale emerge sempre.
È stato più di un caso. Il rapporto tra l’Europa e l’Italia è il tema di questi mesi.
Non nego che alle origini della ricerca ci sia uno sguardo sulla nostro tempo.
Cosa la interessava di quel frangente storico?
Tra il 1492 e il 1530, gli avvenimenti e le dominazioni che Machiavelli cerca di contrastare solo quelli che poi hanno impedito al nostro paese di svilupparsi come uno stato moderno.
I titoli dei suoi capitoli sono delle pietre.
Ne cito due: “Una grande catastrofe”. E poi una catastrofe di “lunga durata”. Ovvero una sconfitta di 30 anni che prolunga i suoi effetti per 340 anni.
Quali?
Il divario tra Nord e sud, per esempio. La debolezza dello Stato nazione, la fragilità degli apparati istituzionali, rispetto alle altre nazioni, che hanno almeno cento anni più di noi. Questa catastrofe si conclude solo quando i piemontesi entrano a Roma.
Anche la Germania, però, compie la sua unità nazionale solo dopo il 1848.
Ma la Germania ha dietro di se la storia comune di un impero, e la cultura unificante di Lutero! Loro hanno avuto Gutemberg, noi -molto più tardi – Mazzini, Garibaldi e i Savoia.
E cosa l’angoscia?
Che il ritardo non si colma. Noi oggi continuiamo ad essere ultimi in Europa. E purtroppo non abbiamo un nuovo Machiavelli.
Alberto Asor Rosa ci ha lasciato oggi. É stato è uno dei più prestigiosi intellettuali italiani del dopoguerra. Radicale e di sinistra da giovane, poi dirigente del Pci e professore alla Sapienza negli anni settanta, quindi direttore di “La Rinascita” negli anni Novanta, all’opposizione di Renzi negli anni Duemila. Studioso e saggista nell’ultima parte della sua vita. Quando lo intervistai con quel dialogo sul suo ultimo importante libro scientifico, mi spiegò perché aveva votato Zingaretti e perché pensava che il “salvinismo” e “il melonismo” – secondo lui – non sarebbero stati un fenomeno passeggero.
Da che storia viene?
Mio padre era un impiegato nelle ferrovie dello Stato. Era di famiglia socialista. Aveva fatto un passaggio nella Resistenza. Dopo la guerra ha rifondato il sindacato ferrovieri.
Una famiglia popolare.
Si. Papà diffondeva l’Avanti, su cui scrisse un articolo in clandestinità. Nel dopoguerra era impiegato del dopolavoro.
E sua madre?
In origine era una impiegata che aveva lasciato il suo lavoro. Era figlia di un trovatello anconetano.
Orfano?
Un amico che lavorava negli archivi di stato ha trovato il certificato da cui risulta che mio nonno era stato lasciato di fronte a una ruota in una Chiesa.
Lei ha visto la guerra.
E la ricordo bene. Sono nato nel 1933. La prima esperienza politica intensa che ricordi è stata la battaglia per la Costituente.
E poi?
Nel 1952 mi sono iscritto alla Fgci, la federazione dei Giovani comunisti. Ho ricevuto la mia prima tessera in una riunione la leggendaria sezione Salario, dalle mani del segretario che era Enrico Berlinguer.
Però nel 1956 lei abbandona il partito, con uno strappo drammatico e coraggioso, per protesta contro i fatti di Ungheria.
Ero un ragazzo, non userei l’aggettivo “coraggioso”: è stato molto, molto doloroso, piuttosto.
Lei firmò il cosiddetto “manifesto dei 101”, gli intellettuali comunisti che condannavano i carri armati e furono espulsi.
Ero con un gruppo di compagni nel mondo dell’Università, collegati ad alcuni dei firmatari più prestigiosi. Personalità e turisti come Antonio Giolitti, Natalino Sapegno, Carlo Muscetta.
E la sua vita cambia.
È iniziata lì la mia storia tra le anime delle componenti minoritarie. Ero lombardiano nel Pdi. Avevo una amicizia profonda con Raniero Panzieri. Collaboravo con lui a Mondo Operaio.
E poi, sempre con Panzeri, c’è l’esperienza dei Quaderni Rossi.
Escono nel 1961 e segnano una svolta più radicale nel nostro percorso.
Come nascono?
Dopo aver lasciato il PSI. Panzeri andò a lavorare all’Einaudi e si legó con una leva di giovani tra Roma e Torino. Io ero tra questi.
Cosa furono quei Quaderni?
Prima di tutto un organo di documentazione. Si partiva dagli scioperi alla Fiat del 1962, che culminarono con episodi di violenza a piazza Statuto, davanti alla sede della Uil che, nel corso di una giornata tesissima viene assaltato dagli operai.
E voi stavate da quella parte?
Si, guardavamo alla Classe operaia, nel conflitto tra le vecchie posizioni e le nuove posizioni. I quaderni anno avuto una qualche diffusione a livello di Fabbrica.
Com’era la sua vita?
(Ride di gusto). Ero già sposato con prole. La mia sopravvivenza era affidata all’insegnamento di Italiano e latino nel liceo classico di Tivoli.
E come faceva a fare tutto?
La mattina a scuola, il pomeriggio a fare il rivoluzionario di professione, e di notte la letteratura.
Dormiva pochissimo?
Si, perché lavoravo in modo febbrile a un saggio che sarebbe uscito nel 1965.
Con il titolo “Scrittori e popolo”: il suo libro più famoso, amato e odiato, ha cambiato la storia della critica.
(Sospiro). Suscitò passioni.
Pasolini rimase malissimo per la stroncatura dei suoi romanzi romani.
Questo è vero. Un giorno lo incontrai in un convegno e mi disse: “Sei quello che nella mia vita mi ha fatto più male”.
E persino Montale le dedicò una lunga riflessione, più raccolta nel “Quaderno dei quattro anni”.
È vero,! La cosa mi fece piacere, ma purtroppo devo dire che era una riflessione interessantissima che tuttavia partiva da un assunto sbagliato.
Lei aveva solo trent’anni, e faceva le pulci ad un monumento della letteratura italiana!
No, senza nessuna boria. Montale rifletteva sul perché io, in “Scrittori e popolo” sottovalutassi la poesia. E non era vero!
E ci parló?
Una volta lo incontrai a Firenze e gli chiesi: “Maestro come mai ha scritto quella riflessione?”. Lui mi guardo spaesato e mi disse: “sa che non me lo ricordo”.
Cosa pensa oggi di quel suo libro?
È stato scritto sullo sfondo di uno stato di tensione politica e sociale. C’era il problema del confronto con la cultura dominante.
Lei criticava la politica culturale del Pci da sinistra con argomentazioni di destra. Geniale.
Si potrebbe anche sintetizzare così. Criticavo la letteratura populista, e invitavo a riscoprire grandi narratori italiani sottovalutati come Verga, Svevo, e Pirandello.
Sottovalutati perché considerati “di destra”?
Forse. Su Pirandello pesava l’ombra dell’essere stato fascista. Su Verga il fatto di avere una retromolare conservatrice, di non solidarizzare con i suoi “vinti”.
E lei criticava il fatto che progressisti esaltassero scrittori come De Amicis.
Non serviva più a contrapporre una nuova cultura alla vecchia cultura.
Cos’era il populismo per lei, che ha inventato la categoria?
È l’espressione ideologica di una valorizzazione di quella realtà sociale che si definisce “popolo”.
Questa è da vocabolario.
Ai tempi di “Scrittori e popolo” il populismo che noi rimproveravano al Pci era a detrimento della classe operaia.
E oggi?
Oggi secondo me non c’è più il popolo!
Addirittura?
Nella accezione degli anni cinquanta-sessanta. Era un organismo molteplice e variegato unito da una identità comune. Oggi questo organismo molteplice non esiste più. Tantomeno l’identità comune.
E cosa c’è, allora?
Il termine esatto che userei è “massa”. Le identità della tradizione popolare sono scomparse.
E lei ne ha scritto.
Ho ripubblicato “Scrittori e Popolo”. Con in apprensive un saggio che ho titolato “Scrittori e massa” e l’appoggio anche ad una lunga bibliografia sul tema.
Oggi cosa pensa di queste masse che irrompono nella politica?
La mia idea è che l’uso del termine populista oggi porti a una confusione per la sinistra.
Quale?
Non tutti capiscono che il precipitare del popolo nell’indeterminazione della massa favorisce il suo precipitare verso la destra.
Perché?
Perché lì ma massa trova parole d’ordine apparentemente semplici e accattivanti: vedi alla voce “Salvinismo”.
E la sinistra perché oggi viene votata soprattuto dalle elites?
Perché resiste solo dove residui della vecchia cultura, producono ancora interesse per la complessità: le zone elitarie delle grandi città, appunto.
Quando inizia questo fenomeno?
Molto indietro nel tempo. Intanto bisognerebbe ricostruire la storia della sinistra per capire quando e come il rapporto della sinistra con la massa si è perduto. Io ho un’idea.
Quale?
Tutto comincia dalla liquidazione dei grandi partiti: non solo la Dc ma anche il Pci.
Cioè ai tempi di Mani pulite.
A sinistra il processo parte con Occhetto e finisce con Renzi, che lo porta a compimento. Dissolti i partiti, purtroppo, restano solo massa ed elites.
E la Terza via, Blair, Clinton…?
(Sorriso). Direi che non hanno funzionato. Il problema è semplice: se un partito di sinistra non è popolare che partito è?
Il Pd non lo era più?
No. Il nostro grande leader Matteo Renzi ha definitivamente concluso l’iter iniziato alla Bolognina.
Lei usa il sarcasmo.
Quella di Renzi per me è una storia che ha accenti drammatici e comici insieme.
In che senso?
Quando si affaccia in televisione e parla quel toscano approssimativo urlando a pieni polmoni mi fa ridere. Poi spengo e mi rattristo.
Ha votato No al referendum Costituzionale?
Certamente, e ne sono anche orgoglioso.
Perché?
Quello di Renzi è stato un esperimento di un verticismo spaventoso dove la politica è stata sostituita da grottesche rappresentazioni leopoldine.
E la grande riforma della Boschi?
Non era una cosa ragionevole, soprattutto con dei proponenti di quella natura. Costretto da Renzi ho votato, convintamente, con i leghisti e con i meloniani.
Convintamente professore?
Mi lasci usare una parola prosaica: Renzi ha fatto una coglionata senza precedenti nella storia della politica.
Un giudizio prosaico, effettivamente.
Per inseguire una legittimazione plebiscitaria ha costretto tutti i suoi nemici a coalizzarsi. Direi, più tecnicamente: si è suicidato.
Torniamo alla sua biografia. Lei nel pieno del sessantotto fonda una rivista -Contropiano – che dirige insieme un giovanissimo Massimo Cacciari.
Ci conosciamo a Venezia e a Padova. Era legato a classe operaia aveva 24 anni ed esibiva una cultura smisurata. Era un oratore, aveva anche grande fascino comunicativo, trascinava i ragazzi in maniera straordinaria.
Lei, professore già affermato, insieme ad un ragazzo?
Al nostro gruppo, nato intorno a Potere Operaio Massimo ha portato un’esperienza filosofica più vasta di quella di cui noi disponevamo. Tra i fondatori c’era anche Toni Negri, che poi si allontana dalla rivista per motivi politici.
Quali?
Ritenevano di essere pronto per fare cose più radicali. Quali fossero si è visto poi.
Nel 1972 lei rientra nel Pci, seguendo il Psiup. Vince la cattedra a La Sapienza, ha una rubrica su Panorama, diventa uno degli intellettuali di maggiore successo.
(Sorride). Ah si? Non me ne sono accorto.
Nel 1977, solo cinque anni dopo viene contestato come “Barone” dagli auntonomi.
Capirai, capitava anche di peggio.
Scrissero: “Asor Rosa è un palindromo, parte da sinistra la finisce a destra”. Ricorda?
Se ricordo? Quello slogan me lo tirarono sulla testa con uno striscione di dodici metri calato dal tetto del rettorato!
Le chiedevano di dare il 30 politico.
Mai accettato, una sola volta. Mai dato un voto collettivo. Abdicare avrebbe significato distruggere l’università italiana.
A Padova gli Autonomi spaccarono le mani al professor Poetter a martellate.
Terribile. Ma con me c’era un atteggiamento diverso: venivo dal mondo dei movimenti.
Non nemico ma traditore. Cosa era peggio?
È stato un grande periodo del conflitto sui temi della rivoluzione socialista e operaia. Hanno provato a prendermi a a pesci in faccia. Bisogna esserci passati. Era drammatico.
Cosa la divise da quel mondo?
Che io credevo nella Costituzione e nella democrazia e loro nella violenza rivoluzionaria.
Ho ancora qualcosa da chiederle.
Annamo bene! Sono già tre ore che parliamo.
Torniamo a Machiavelli.
Non era una intellettuale da tavolino, ma un uomo in prima linea. Che si spende, si batte, le prova tutte per lasciare il segno nella storia.
Però il suo sottotipo come abbiamo detto è “Resoconto di una disfatta”.
Si riferisce a quella manciata di anni che vanno dal 1526 al 1530.
Cosa accade?
C’è una alleanza di piccoli stati che tentano di resistere in connessione con la Francia allo strapotere dell’impero asburgico. Machiavelli è totalmente inserito in questo momento. Ci sta dentro furiosamente.
È pensatore politico ma anche uomo d’azione.
Cerca con le sue consulenze di orientare la guerra nel modo che lui ritiene migliore. E sa perché nessuno dei suoi consigli viene raccolto?
Me lo dica.
Perché non riescono a cogliere l’audacia: nei tempi di crisi serve coraggio, e loro sono spaventati. Poi serve qualcuno che il coraggio lo capisca.
Cosa le piace di questa figura?
La battaglia controcorrente.
Gramsci usava Machiavelli per dire che il moderno principe doveva essere il partito.
Ho recuperato Gramsci. Mi ha moto colpito l’idea che Machiavelli potesse costituire un punto di riferimento, per lui, mentre si trovava rinchiuso in una cella a Turi.
La sua interpretazione regge?
L’idea che il moderno Principe sia il partito di massa è di una profondità e acutezza incredibile.
Perché secondo lei il salvinismo non è un fenomeno passeggero?
Perché Salvini ha saputo radicare il suo consenso, costruire una identità populista, ma solida.
E quindi?
Il suo non è un successo episodico, diventerà il leader di tutto il centrodestra. Per questo la sinistra potrà sfidarlo solo se sulla lezione di Machiavelli e Gramsci sarà costruire un nuovo partito di Massa.
Goffredo Bettini, il maestro di Zingaretti, dice che il salvinismo unifica le opposizioni.
(Pausa, sguardo). Bettini è sempre stato molto acuto, ma molto più ottimista di me.
Professore, dopo aver vissuto questa lunghissima esperienza professionale e politica, lei oggi cosa fa?
Lo scrittore? Mi sveglio la mattina e mi metto al tavolo di lavoro, tra narrativa e saggistica.
E politicamente?
Guarda con disincanto e qualche speranza a Nicola Zingaretti. Avendolo votato spero che ci sia una inversione di tendenza.
È andato ai seggi?
Ho molta stima di lui. Lo trovo equilibrato serio e molto onesto. Di questi tempi non è poco.
Disincanto perché?
Ha di fronte una compito sovrumano. Il milione e mezzo che lo ha votato attende risultati. E, tra questi, io.
Mario Tronti, il suo migliore amico forse, ha appena pubblicato un libro sul futuro del sinistra.
Ho conosciuto Mario nella sezione universitaria del Pci, da lui diretta, alla fine degli anni Cinquanta. E sa cosa ci unisce?
No, cosa?
La ricerca comune che dura da sessant’anni intorno ad un problema che anche da vecchi continua ad assillarci.
Quale?
Come possono, gli uomini, provare a costruire un mondo più giusto.