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L’integrazione attraverso la cucina: il ristorante multietnico nel cuore di Roma

Di Marta Vigneri
Pubblicato il 28 Feb. 2018 alle 19:16 Aggiornato il 18 Apr. 2019 alle 09:10

Tra le pareti blu pavone di un ristorante nel cuore di Roma, 14 giovani di 10 nazionalità diverse si occupano di preparare piatti provenienti dai loro paesi di origine, seguendo metodi italiani e utilizzando materie prime prodotte in modo etico.

È la ricetta dell’integrazione di Altrove, ristorante e impresa sociale di Roma che cerca di favorire l’inclusione sociale di rifugiati, stranieri titolari di altri status temporanei e giovani italiani, attraverso l’accompagnamento socio-lavorativo nel settore della ristorazione.

È stato fondato a febbraio del 2017 dal Centro Informazione Educazione e Sviluppo (CIES) e dal suo Centro per i Giovani (Matemù), nell’ambito di Matechef, un progetto finanziato dalla fondazione Costa Crociere che, da ottobre 2016 fino a gennaio scorso, ha formato 60 ragazzi appartenenti a categorie vulnerabili attraverso corsi e tirocini in cucina, sala e pasticceria. Altrove è stato aperto poco dopo l’inizio del corso come ristorante, impresa sociale, e incubatore della pratica degli studenti.

In cucina, un manifesto descrive i 143 tipi di pesce che si trovano nel Mediterraneo, e una cartina dell’Italia mostra i nomi dei diversi tipi di pane per ogni regione.

Godwin ha 24 anni e viene dalla Nigeria. Quando lo incontro, sta cucinando il pranzo per i colleghi, “una pasta normale”, dice.

Arrivato in Italia nell’estate del 2014 dopo aver attraversato il Sud Sudan e un periodo di tre mesi di detenzione in Libia, ha vissuto prima in un Centro di Accoglienza Straordinaria e poi, mentre stava per ottenere il permesso di soggiorno per asilo politico, è stato allocato in uno dei 51 centri Sprar di Roma, quello di Mostacciano.

È lì che ha sentito parlare per la prima volta del progetto Matechef, e ha deciso di partecipare alle selezioni perché essere cuoco era da sempre stato il suo sogno, da quando da piccolo, in Nigeria, vedeva la mamma cucinare. “Volevo lavorare in cucina perché sono cresciuto con mia madre, stavo sempre al suo fianco e facevo ogni cosa che faceva lei, e lei cucinava sempre”, racconta.

Uno dei piatti che preferiva è l’egoussi soup, una zuppa di semi di zucca e pomodori, che però in Italia è difficile cucinare perché ci vuole un tipo di farina che richiede lunghi tempi di cottura, spiega, e perché si mangia con le mani. “E in Italia non si mangia con le mani!” Esclama ridendo.

Ha un sorriso timido e lo sguardo accesso, negli occhi progetti e preoccupazioni per il futuro. Il suo contratto di tirocinio nel ristorante scade tra un mese, e il suo permesso nel 2021, ma non ha paura. Il periodo di un anno trascorso ad Altrove gli ha dato la possibilità di acquisire gli strumenti per affrontare il mondo del lavoro, e creato una rete sociale e professionale in un momento critico per chi come lui arriva in un nuovo Paese dopo aver affrontato perdite e traumi, quello di transizione dalla fase dell’accoglienza alla fase dell’integrazione, in cui spesso i rifugiati vengono lasciati soli.

Tra i 63.700 richiedenti asilo arrivati in Italia nel 2014 (UNHCR) a causa di persecuzione, conflitti, violenza e violazione di diritti umani, il suo percorso d’integrazione è stato uno dei più fortunati.

La maggior parte dei migranti è infatti ospitata in strutture d’emergenza, in cui risiede a lungo senza acquisire gli strumenti necessari ad affrontare autonomamente la permanenza in Italia.

Secondo la fondazione Leone Moressa, un istituto di ricerche che si occupa dello studio dei temi dell’economia dell’immigrazione, a fine 2016 su 175 mila migranti accolti in Italia, l’86% aveva trovato un posto in un Centro di Accoglienza Straordinaria (CAS), dove si può restare fino a un anno di tempo dall’ottenimento dello status di rifugiato, ma senza che i servizi offerti vadano oltre il vitto, l’alloggio e le cure mediche.

Mamadou Camara, pasticcere. Credit: Francesca Ruggieri

Lo studio afferma che solo una piccola percentuale, il 14 per cento, aveva trovato posto in un centro Sprar, i centri di cosiddetta “accoglienza integrata”, in cui è prevista l’offerta di una serie di servizi che dovrebbero garantire ai rifugiati un passaggio all’autonomia in un periodo che va da sei ai 12 mesi di tempo a seconda della situazione di ciascuno. Il principio è proprio quello di fare attenzione alle situazioni individuali per garantire un lento inserimento nel territorio dove si risiede attraverso corsi d’italiano, orientamento ai servizi e, quando possibile, formazioni professionali.

Come spiega Monica D’Angelo, coordinatrice del progetto Matechef e operatrice dello Spazio Orientamento alla Formazione e al Lavoro (SOFEL) del CIES, che si occupa di orientare giovani italiani e stranieri nella ricerca di lavoro collaborando con gli Sprar di Roma e le aziende in cerca di personale, le risorse umane ed economiche all’interno dei centri non sono ancora sufficienti a garantire la copertura adeguata di tutti i servizi.

“Nelle strutture c’è poco personale, che è utilizzato prevalentemente per occuparsi delle questioni logistiche, e fare un lavoro serio sull’accompagnamento professionale o reinserimento formativo così è impossibile. A volte invece non ci sono risorse economiche adeguate da investire nei progetti”, afferma.

Secondo l’Atlante Sprar 2016, il 20 per cento dei servizi offerti durante l’anno riportato riguardava l’assistenza sanitaria, il 17 per cento la mediazione culturale, il 14 per cento l’assistenza sociale, e solo il 10,5 per cento l’inserimento lavorativo.

Infine, i servizi d’inserimento non prevedono sempre un periodo di tirocinio, oppure i tirocini previsti non durano più di due mesi, un tempo insufficiente a fornire la preparazione necessaria per inserirsi in un ambiente lavorativo con dignità e consapevolezza: la conoscenza approfondita della lingua, le competenze tecniche e la capacità di interagire con colleghi e datori di lavoro.

Per i rifugiati che escono dai centri senza questi strumenti, è più difficile trovare un lavoro dignitoso, e quello irregolare può diventare l’unica alternativa per andare avanti.

“Nel momento in cui i migranti escono dalle strutture di prima e seconda accoglienza, sono assolutamente abbandonati a se stessi, e non è previsto un accompagnamento dopo”, afferma Monica.

Il progetto di Altrove ha cercato di preparare i migranti ad affrontare questa fase, offrendo una formazione di qualità e creando pratiche virtuose all’interno del suo ristorante, che rendessero il personale appetibile anche fuori.

In un anno, Godwin e gli altri partecipanti ai corsi Matechef, sono diventati dei professionisti.

Studiando le regioni per quanto riguarda il vino e il pane prodotto, ne hanno appreso anche la collocazione geografica. Hanno conosciuto da dove viene il moscato di Noto, con che tipo di vino si abbina il gorgonzola, chi sono i più grandi produttori di vino da tavola e quali sono i principali vitigni pugliesi, cosa sono cioè la verdeca e il bombino bianco. 

Lavorando con colleghi e datori di lavoro italiani, hanno approfondito la conoscenza della lingua e del Paese, e si sono abituati a portare avanti le proprie richieste in un contesto in cui può capitare di dover eseguire mansioni che violano le norme previste dalla propria religione, come quella di non poter toccare o assaggiare il maiale, o di non poter bere alcolici, a cui è difficile opporsi se non si ha la tranquillità e la capacità di esprimersi.

“I ragazzi sono formati per capire che hanno scelto un settore dove ci sono delle criticità: se ci sono delle cose che non possono fare, hanno imparato a metterlo in chiaro dall’inizio con gli altri, che è una cosa apprezzata nel mondo del lavoro”, spiega Margherita Valori, operatrice del progetto.

E hanno anche aggiunto una voce speciale al proprio curriculum: la conoscenza dell’etica alimentare. 

Per cucinare le kofte, un piatto tipico della cucina nord africana, hanno imparato a lavorare la pecora. “Quando hanno proposto la pecora, mi sono messo a ridere”, spiega Mohammed, che viene dall’Egitto. Normalmente infatti per cucinarle si utilizza la carne di agnello, “ma ci sono delle lavorazioni tali da rendere anche la pecora adatta alle polpette”, continua Lorenzo Leonetti, consulente culinario di Altrove, che ha sviluppato il menu insieme al resto dello staff.

“I cuochi hanno imparato a lavorare animali interi adulti a scelta del fornitore”, spiega. Nel caso delle pecore, si tratta di un’azienda che non utilizza metodi intensivi di allevamento, ma lascia il bestiame libero di pascolare allo stato brado sul lago di Marginano, e sceglie solo i capi già utilizzati per la mungitura.

Le Kofte, il cui nome arabo vuol dire appunto ‘schiacciatina di carne’, sono diventate “Kofte di Martignano”, e si servono insieme a patate al forno e carote rosse. 

Anche gli altri prodotti sono scelti in base all’etica del fornitore, non solo nei confronti del cibo, ma anche nei riguardi dei lavoratori: le conserve alimentari sono prodotte da un’azienda campana che, attraverso accordi diretti con i produttori di pomodori, promuove la raccolta meccanica per combattere il caporalato; lo yogurt, da una cooperativa sociale fondata a Roma da un gruppo di ragazzi africani scappati da Rosarno in seguito alle rivolte contro lo sfruttamento dei braccianti agricoli, Barikama, che oltre allo yogurt produce formaggi e passate in un ettaro di terra presso un casale a Martignano.

Credit: Marta Vigneri

I cuochi di Altrove hanno appreso così una serie di principi e metodi virtuosi di scegliere e lavorare le materie prime apprezzati in un settore in cui c’è una fetta crescente sempre più attenta all’etica alimentare.

A Roma ci sono almeno dieci altri ristoranti che lavorano materie prime grezze e utilizzano prodotti biologici, che hanno già inserito come tirocinanti o apprendisti i partecipanti del corso che non erano stati assunti ad Altrove. Come Jasmine, una ragazza bengalese di 22 anni che ha il desiderio di aprire una cucina di cibo internazionale e adesso lavora a Galbi, un ristorante coreano a Piazza Fiume.

“L’azienda che lavora avendo come obiettivo l’alta qualifica di mano d’opera è anche quella che fa di tutto per tenersela”, continua Leonetti, che è anche titolare di un ristorante al Quadraro e si è occupato di intercettare le realtà virtuose interessate ad assumere i ragazzi. “Se lavoro un prodotto preparato, non ho bisogno di un cuoco specifico, mentre se acquisto a grezzo fidelizzo il cuoco che sa lavorarla”. E vuol dire cioè assumerlo con un contratto regolare.

Che, per un giovane migrante appena arrivato che s’inserisce nel mondo del lavoro, significa avere diritti simili a quelli di tutti i cittadini, e la tranquillità di realizzare un percorso d’integrazione nel territorio in cui vive.

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