«Per pescare bisogna avere la mente sgombra», avvertiva lo scrittore marsigliese Jean-Claude Izzo in Casino Totale, il primo di una fortunata trilogia di romanzi del noir mediterraneo. Facile a dirsi, difficile – quasi impossibile – a farsi quando una battuta di pesca diventa “un gioco d’azzardo” perché i guadagni vengono soffocati dall’impennata dei prezzi del gasolio. E se calare le reti diventa non più economicamente sostenibile, i pescatori rischiano di scomparire. Questo succede (anche) a Lampedusa dove, a ben guardare, i problemi che rallentano l’isola non sono affatto legati a quella che, con pervicacia, viene ancora impropriamente definita “l’emergenza migranti”. I continui arrivi, quindi, sono solo la parte più mediatizzata e visibile di un territorio la cui comunità, oltre 7mila residenti, lamenta di non essere tenuta in alcuna considerazione.
«Vuoi capire l’isola? Vai al porto e parla coi pescatori». Pietro Riso ha 63 anni e quella saggezza che non si misura in titoli ma in dosi di buon senso e intelligenza. Orgogliosamente lampedusano, fa il pescatore dall’età di 13 anni quando, guadagnata la seconda media, è andato per mare «perché non ce la facevo più a resistere: volevo pescare come tutti gli altri». Col tempo è diventato armatore e oggi possiede due grandi pescherecci di oltre 20 metri, “Vita Antonina” e “Sara”, un omaggio alle mogli (forse anche più d’una) dei due precedenti proprietari. È specializzato nella pesca a strascico, in particolare del gambero rosso di Linosa e, durante la stagione estiva, rifornisce di calamari, polpi, merluzzi e triglie rosse buona parte dei ristoranti locali mentre, durante l’inverno, il pescato finisce sui mercati di Santa Flavia e Porticello, a Palermo. “Lupo di mare” e gran lavoratore, gli piace definirsi uno di quelli che vive di «trigghi, purpa e calamara», di triglie, polpi e calamari, secondo quella lettura bipartita della realtà che divide il mondo tra chi pratica la pesca a strascico e chi la lampara, la pesca azzurra a circuizione. Una persona genuina, uno senza grilli per la testa, insomma, per restare nella metafora zoologica. «Dammi la mano e attenta a dove mettete i piedi». L’accesso per la “Vita Antonina” è un asse di legno traballante che collega la poppa al Favarolo, quel molo – tra la Porta d’Europa e Cala Guitgia, conosciuto principalmente per le immagini dei telegiornali che mostrano gli arrivi dei migranti scortati dalla Guardia Costiera. «Qua si parla solo di clandestini ma noi non riusciamo a portare un tozzo di pane a casa», racconta a margine della visita di Matteo Salvini che, agli inizi di agosto, ha inaugurato la campagna elettorale con una passerella nell’hotspot di Contrada Imbriacola, un centro che – auspica – «possa essere chiuso nel giro di qualche mese perché inutile». Quelli che rischiano di sparire davvero, però, sono i pescatori. È l’onda lunga del semestre di crisi ucraina: prima che la Russia dichiarasse guerra e prima che il prezzo del petrolio schizzasse alle stelle, il costo medio di una battuta di pesca di 24 ore, per 700 litri di nafta e una decina di litri di olio, si aggirava intorno ai 1.200 euro, a fronte di un’entrata di circa 2mila euro, da cui sottrarre contributi, spese di gestione e voci di cambusa. La metà del guadagno andava all’armatore e il resto all’equipaggio, normalmente composto da quattro persone che riuscivano, alla fine del mese, a portare a casa più di 2.500 euro di stipendio. Questi numeri erano possibili perché, in tempo di pace, il prezzo della nafta si aggirava attorno ai 35/40 centesimi al litro, con rari picchi di 50. Dopo il 24 febbraio 2022, nel giro di pochi mesi, il prezzo è più che triplicato e un litro di gasolio, sull’isola, è arrivato a costare anche 1,62 euro, considerata la maggiorazione (un differenziale fino a 30 centesimi) per costi di trasporto che grava sull’arcipelago delle Pelagie, con buona pace della continuità territoriale e dell’argine al regime di monopolio che caratterizza la fornitura di greggio alle isole minori. Si tratta di un aumento insostenibile che incide sull’incasso mensile per oltre il 70 per cento e che ha costretto più della metà dei pescatori dell’isola a tirare a secco le barche «perché uscire in mare vuol dire andare in perdita ed essere un pescatore al giorno d’oggi vuol dire essere un patito del gioco d’azzardo».
Lampedusa, con i suoi 80 pescherecci, è tra le marine più grandi della Sicilia, tra il quarto e il quinto posto per numero di licenze di pesca, dopo Sciacca e Mazara del Vallo. Negli ultimi mesi, hanno dichiarato fallimento 20 licenze di pesca che, tradotte in capitale umano, equivalgono a circa 100 posti di lavoro, lievitati a 500 se si prende in considerazione il volume dell’indotto. Circa il 20 per cento della flotta ancora in attività riesce a garantire ai lavoratori un salario di poco meno di mille euro, il resto non supera i 600. «Eravamo in sofferenza già prima della guerra, il settore è in crisi da tempo ma almeno ce la facevamo. Siamo abituati a stringere i denti e abbiamo sempre preferito le trattorie ai ristoranti di lusso ma adesso, se andiamo avanti di questo passo, entro Natale saremo estinti». Lo scorso mese, racconta Pietro, «ho pagato 20.900 euro per un pieno pari a circa 16mila litri di gasolio. Ho preferito fare scorta, sfruttando la capienza massima del serbatoio, per il timore che chiudessero i rubinetti e la disponibilità venisse assorbita dalle navi militari». Per usufruire di uno sconto di circa 6 centesimi al litro, li ha versati sull’unghia, in contanti. «Sono cifre mai viste. Fino a 5 anni fa sarebbe stato impensabile».
Cinque anni fa, quando il prezzo per un pieno del genere non superava i 6mila euro. Pietro, come altri colleghi, si è adattato anche alla vendita al dettaglio, al porta a porta, ma non basta. Non sono sufficienti neanche gli effetti del decreto del Ministero delle Politiche agricole, alimentari e forestali che consente ai pescatori di Lampedusa e Linosa il recupero di 40 giornate lavorative a fronte delle avversità meteo-marine tipiche del 35esimo parallelo. Il contratto collettivo nazionale della pesca, infatti, vieta il lavoro durante i giorni festivi ma l’arcipelago delle Pelagie, “mare aperto” dall’etimo greco, è famoso per le raffiche di vento che, spesso, non consentono alle imbarcazioni di uscire dal porto. Ma anche questa agevolazione, frutto dell’ostinazione di Pietro e del Presidente dell’Associazione Armatori di Lampedusa, Piero Billeci, è servita a ben poco. «Noi chiediamo semplicemente di lavorare e a queste condizioni non è possibile. Vogliamo vivere orgogliosamente e a testa alta, pescando e arricchendo le nostre tavole. Molti pescatori», continua Pietro, «sono stati costretti ad affittare la propria abitazione ai turisti e hanno mandato le proprie mogli a fare le pulizie negli alberghi» provando così a tamponare una situazione che, oltre a non consentire più ai pescatori il sostentamento delle proprie famiglie, finirà per stravolgere l’identità di un’isola. «I pescatori vanno a caccia. Cacciano animali che non gridano, è vero, altrimenti non ci riuscirei. Ma la nostra resta una caccia. Privare un uomo nato sulla costa di quella che per lui è un’essenza vitale, vuol dire buttarlo in mezzo ad una strada. Vuol dire ucciderlo. E non esiste cifra che possa ripagarlo». Cinquant’anni di mare a Pietro hanno insegnato «cose utili anche a terra: durante una tempesta bisogna contrastare l’onda col dritto di prua», quel pezzo, tra l’estrema prua e il fianco della barca, che in gergo marinaro si chiama mascone. «Questo ti permette di sfruttare la potenza massima della barca per affrontare l’urto, senza affondare, in cerca di un porto sicuro, per aspettare che passi».
Pietro è la cerniera tra due generazioni di pescatori, tra suo padre Salvatore e i figli Daniele e Salvatore, come il nonno. Ventisette e 30 anni e, rispettivamente, una rosa dei venti e la scritta “Capitan Pietro” tatuati sul corpo. Sono loro, oggi, alla guida del timone dei due pescherecci. Salpano prima del tramonto e rientrano insieme all’alba. Nel raccontare di loro cita un verso de “I Figli” di Khalil Gibran: «I vostri figli non sono figli vostri. Potete dar loro tutto il vostro amore ma non i vostri pensieri. Perché essi hanno i propri pensieri». Quei pensieri, in realtà, non sono poi così diversi. Quando aveva 15 anni Salvatore, intervistato da una tv locale, disse che il suo sogno era quello «di stare al comando di un bel cavallo bianco», di un grosso peschereccio «e di sapere che al ritorno avrei trovato la mi famiglia al porto» ad attenderlo. «Avrebbero potuto avere tutto ma hanno scelto di essere unti e bisunti di nafta e di puzzare di pesce», dice Pietro che anche per questo si ostina, ancora adesso, a buttare le reti, «perché non voglio infrangere quel sogno». Prima di ogni battuta è lui a riparare a mano le reti stese nella pancia delle barche, a preparare le cassette col ghiaccio e ad assicurarsi che a bordo non manchi da mangiare. Quando, al momento di salpare, Salvatore gli ha gettato la cima, ha bisbigliato dal molo «Il Signore li aiuti e la Madonna li accompagni». Pronuncia questa frase ogni volta che i suoi figli si allontanano dalla banchina. È l’antica benedizione delle mamme, quando ancora si usciva senza radio, senza poter prevedere cosa sarebbe stato una volta lasciato il porto.
Durante la recente visita sull’isola, Salvini ha chiesto a Pietro di poter fare un selfie. Era già successo nel 2019, all’epoca di Carola Rackete, la capitana tedesca che, proprio a Lampedusa, sfidò il blocco dell’allora Ministro degli Interni. In clima di campagna elettorale ha promesso l’azzeramento delle accise sul carburante e sul gas per le isole minori. Nulla di concreto, al momento. «Il Comune sta portando avanti delle azioni di de-fiscalizzazione in concerto con il Ministero per gli Affari Regionali», spiega il neo eletto sindaco di Lampedusa e Linosa, Filippo Mannino. «In attesa che entri in vigore il decreto sulle isole minori, stiamo cercando di istituire un piccolo deposito di carburante destinato esclusivamente ai pescatori». Pietro, nel frattempo, continua ad accendere i motori, anche se non ci sono utili. «Non mollare, che se molli affondi», si ripetono a vicenda gli armatori nel darsi manforte.
Al momento dei saluti, Pietro ha aggiunto di saper suonare la chitarra e di essere un appassionato di Pierangelo Bertoli. E sarebbe quasi sciocco pensare che il motivo sia il brano che si intitola “Pescatore”. «La mia canzone preferita è “A muso duro”», infatti. Col dritto di prua, Pietro, in attesa che passi.
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